La Newsletter di Sinistra per Israele – n. 9 Febbraio 2025
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IN QUESTO NUMERO
Congresso Nazionale
Programma dei lavori e modalità di iscrizione
Editoriale
Le ragioni di un Congresso. Simone Oggionni
Notizie
Notizie in breve dall’Italia, da Israele e dal mondo. Ludovica De Benedetti
Analisi e commenti
- Il 27 gennaio, quest’anno
Colloquio con Emanuele Fiano
- Israele dopo il cessate il fuoco: e ora?
Colloquio con Roberto Della Rocca
- In Europa spira il vento delle peggiori destre
Intervista a Ivan Scalfarotto
- “Genocidio” vs “Antisemitismo”: la guerra delle parole. Intervista Marino Sinibaldi
- Antisionismo, antisemitismo e altri pregiudizi a sinistra. Claudia Mancina
- Camminare sul filo: riconoscere il conflitto e costruire la pace. Alessandra Tarquini
- Ricordando Furio Colombo – 1931-2025 – di Piero Fassino
Dall’Associazione
- Il Congresso visto da Bologna. L. Alessandrini
- Il Congresso visto da Milano. G. Albertini
- Il Congresso visto da Firenze. M. Pierini
- Il Congresso visto da Roma. V. Caracciolo
- Il Congresso visto da Torino. L. De Benedetti
Letture e riletture
Saul Meghnagi
Rassegna stampa
Simone Santucci
Redazione
Contatti
SINISTRA PER ISRAELE – CONGRESSO NAZIONALE
Roma, 8 e 9 febbraio 2025
PROGRAMMA DEI LAVORI
Sabato 8 febbraio
Prima sessione
18:30 19:00
- registrazione partecipanti
- Costituzione del tavolo di presidenza
e degli organismi congressuali
19:00 19:20
- Intervento di Piero Fassino
19:20 22:00
- interventi degli iscritti;
- discussione sugli emendamenti allo
Statuto e alle tesi congressuali (*)
22:00
- fine prima sessione
(*) gli emendamenti a Tesi e Statuto devono essere
- o inviati a sinistraxisraeleroma@gmail.com
entro le 24:00 di giovedì 6 febbraio - o consegnati alla presidenza
entro le ore 19:00 di sabato 8 febbraio
Domenica 9 febbraio
Seconda sessione
9:00 9,30
- registrazione partecipanti
- accrediti stampa
9:30 10:00
- relazione di Emanuele Fiano
10:00 12:00
- interventi ospiti, in presenza e da remoto
coordina: Lia Quartapelle
12:00 14:00
- interventi degli iscritti
14:00 15:00
- pausa pranzo
Terza Sessione
15:00 16:00
- interventi degli iscritti
16:00 17:00
- votazione delle tesi e dello statuto,
- elezione di presidente, comitato nazionale,
organi di garanzia e revisori
17:00
- chiusura congresso
Per partecipare al Congresso occorre
essere iscritti a “Sinistra per Israele”.
Per iscriversi compilare il modulo alla pagina
www.sinistraperisraele.com/aderenti/
EDITORIALE
Simone Oggionni
Per ogni comunità politica il congresso è un passaggio importante. Sinistra per Israele l’8 e 9 febbraio concluderà a Roma, con l’assise nazionale, un lungo percorso di avvicinamento che nei mesi scorsi ci ha visto fare quello per cui siamo nati molti decenni fa: pungolare la sinistra italiana, proponendo e praticando un punto di vista equilibrato sul conflitto israelo-palestinese.
In effetti se la sinistra italiana non avesse nei confronti di Israele un problema, e talvolta un pregiudizio, non ci sarebbe bisogno di noi. Al contrario, purtroppo, i problemi e pregiudizi non solo non sono scomparsi ma, dopo il 7 ottobre e questi quindici lunghissimi mesi di guerra a Gaza, sono cresciuti.
Capisco l’obiezione: i pregiudizi precedono i fatti, i giudizi nascono invece sulla base di essi. E il posizionamento contrario a Israele di gran parte della sinistra italiana è motivato dai fatti, a partire dalla condotta del governo Netanyahu nella guerra di Gaza.
A questa altezza si colloca la rinnovata urgenza di un nostro impegno.
Nel mettere ordine, anche solo cronologico, ai fatti: perché il peggiore pogrom antisemita dalla fine della Seconda guerra mondiale, il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas, non può essere messo tra parentesi.
Nel separare la critica (necessaria) al governo Netanyahu da una (inaccettabile) ostilità complessiva verso lo Stato di Israele, la sua storia, le sue istituzioni democratiche, i suoi cittadini e persino gli ebrei ovunque collocati nel mondo, destinatari invece di un montante antisemitismo globale.
Nel calibrare, nei toni e ancor prima negli argomenti, la critica al governo Netanyahu, affermando che si può provare orrore per le sofferenze causate dal conflitto a Gaza — come noi facciamo, con un’angoscia martellante — senza equipararle alla Shoah, senza operare analogie storiche improvvide, senza utilizzare stilemi narrativi («le vittime di ieri sono i carnefici di oggi») e categorie («il genocidio», «le deportazioni di massa») che hanno come unico effetto, e spesso come scopo, quello di banalizzare la Storia, oltraggiare la memoria, ferire i sopravvissuti e i loro eredi.
Nel dire, ancora, che si può invocare una alternativa a questa insopportabile politica di guerra, di cui la pratica degli insediamenti e l’annessione de facto della Cisgiordania sono parte integrante, senza solidarizzare, magari inconsapevolmente, con il progetto terroristico di Hamas e con i suoi utili idioti che in alcune piazze chiedono la distruzione, dal «fiume al mare», dello Stato di Israele.
Occorre essere consapevoli che il conflitto arabo-israeliano e israelo-palestinese è stato sin dall’inizio ed è tuttora un coacervo di contraddizioni, nel quale si scontrano — come abbiamo scritto inequivocabilmente nelle nostre tesi congressuali — non un torto e una ragione bensì due ragioni ineludibili. Come è una ragione, infatti, il diritto di Israele a esistere e vivere in sicurezza nei propri confini, così è una ragione ineludibile l’aspirazione del popolo palestinese a un proprio Stato indipendente, che finalmente nasca e prosperi in sicurezza nei propri confini.
Ecco il motivo per cui aggiorniamo il nome dell’associazione, dopo quasi settant’anni dalla sua nascita. Quel complemento, «due popoli, due Stati», ribadisce un punto: siamo collocati laddove senza ambiguità dovrebbero riconoscersi l’intera sinistra italiana e tutte le forze che, nel nostro Paese e ovunque, hanno a cuore la pace e una soluzione giusta e definitiva del conflitto.
Il problema è come rimettersi in cammino verso quell’obiettivo. Il cessate il fuoco dopo quindici mesi è soltanto il primo passo: tardivo, incerto, sottoposto quotidianamente a un’alea di incertezza ed esposto ai molti sabotatori che sperano che il processo si interrompa sul nascere. La difficoltà oggi è precisamente nel compiere nuovi avanzamenti senza rompere un equilibrio che rimane fragilissimo. Si tratta di ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi; di procedere al ritiro progressivo dell’esercito israeliano dal corridoio Filadelfia; di garantire il regolare afflusso degli aiuti umanitari al popolo palestinese; di avviare un piano di ricostruzione della Striscia con il coinvolgimento della comunità internazionale. E poi consolidare un dialogo, dentro un negoziato in cui sia possibile ipotizzare un futuro — come sostiene Yair Golan, capo dei Democratici israeliani — di separazione e convivenza. Più di questo non diciamo, non abbiamo la pretesa di «mettere le brache al mondo» e, ancora meno, di insegnare alla sinistra israeliana (o palestinese) come comportarsi.
Il nostro orizzonte è riprendere lo spirito di Oslo, contribuire in minima parte a ricreare un clima favorevole alle ragioni della pace e della convivenza nel campo politico nel quale militiamo, la sinistra.
Va da sé: è un compito complicato perché il vento che soffia e governa oggi il mondo — dall’Italia all’Europa, dagli Stati Uniti al Medio Oriente — è un vento di destra. Di una destra nuova e, purtroppo, antichissima. Di Musk e della fiamma.
Per la sinistra, per noi, questo sembra il tempo di una lunga e penosa ritirata. E tuttavia forse è nella ritirata, nella condizione di minoranza, che è possibile costruire e correggere la postura, l’impostazione strategica. Pronti a incidere già oggi nella complessa tela della politica internazionale e pronti domani ad assumere nuove responsabilità di iniziativa e di governo. Vale in Italia e ancora di più in Israele, dove le forze democratiche e della sinistra, mentre sono impegnate nella lotta politica contro il governo Netanyahu, devono iniziare a individuare interlocutori nel campo palestinese e al di fuori di esso, pianificando una strategia di pace, convivenza e sicurezza.
Il congresso di Sinistra per Israele sia allora un’occasione. Per le grandi ambizioni che abbiamo e anche, nel nostro piccolo, per noi stessi. Per valorizzare il perimetro delle cose che ci uniscono e la pluralità delle nostre sensibilità e appartenenze politico-culturali e partitiche. Per interloquire senza paura e pregiudizi con chi non è d’accordo e nutre diffidenze. Questo è il senso del nostro congresso e del nostro agire.
NOTIZIE
Notizie in breve dall’Italia, da Israele e dal mondo
Ludovica De Benedetti
ITALIA
4 gennaio: Una ricerca condotta dall’associazione “Setteottobre” pubblica i dati preoccupanti sui fenomeni di antisemitismo in Italia: dalle analisi condotte nell’ultimo anno i post a sfondo antisemita pubblicati in Italia sono stati 268.320, gli atti antisemiti sono cresciuti del 400%, mentre il 94% degli ebrei italiani racconta di aver subito atti di antisemitismo.
8 gennaio: Cecilia Sala libera dopo 21 giorni in cella in Iran. Rientra in Italia a Ciampino nel primo pomeriggio: accolta, oltre che dalla famiglia, dalla presidentessa del consiglio Giorgia Meloni, dal ministro degli esteri Antonio Tajani, e dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri.
10 gennaio: Chef Rubio condannato a pagare 30 Mila euro all’UGEI (Unione Giovani Ebrei Italiani) per incitamento all’odio antisemita sui social.
12 gennaio: Mohammad Abedini Najafabadi, l’ingegnere iraniano bloccato a Malpensa lo scorso 16 dicembre, viene scarcerato e torna in Iran. Il ministro della Giustizia Nordio aveva chiesto la revoca degli arresti in quanto non sarebbero emerse prove del supporto ai terroristi né alcun elemento sulle accuse a lui rivolte.
18 gennaio: Il Sindaco di Bologna, Matteo Lepore, accogliendo una proposta del Presidente della Comunità ebraica Daniele De Paz, espone, dalla finestra di Palazzo D’Accursio a Bologna, anche la bandiera israeliana e la bandiera della pace accanto alla bandiera palestinese.
20 gennaio: Sotto un post pubblicato su Facebook dal cinema Raffaello di Modena, per annunciare la proiezione del documentario di Ruggero Gabbai dedicato a Liliana Segre, in occasione della Giornata della memoria, sono apparsi diversi commenti di insulti, anche antisemiti, nei confronti della senatrice a vita.
22 gennaio: Arrestato un cittadino marocchino di 30 anni dalla Digos in provincia di Napoli. Il giovane è indiziato di avere aderito all’ISIS e di essersi adoperato in attività di apologia e diffusione di materiale multimediale “ascrivibile al contesto – anche di addestramento – dell’organizzazione terroristica”, circostanza confermata da esternazioni di “progettualità violente” contro la comunità ebraica di Napoli.
25 gennaio: A due giorni dalla Giornata della Memoria il corteo pro-pal a Roma si apre con uno striscione con la scritta: “giornata della memoria, fuori i genocidi dalla storia”. E accanto un manifesto: “Gerusalemme aeterna caput palestinese”. In un appello sui social, i Giovani palestinesi d’Italia, avevano già dichiarato: “Quest’anno mentre ricordiamo la Shoah, è fondamentale guardare anche alla Palestina e ai contesti dove l’imperialismo occidentale ha prodotto morte e devastazione attraverso i propri progetti coloniali” e aggiunto che “La causa palestinese prosegue fino alla liberazione totale della Palestina dal fiume al mare”.
26 gennaio: Divisioni fra le comunità ebraiche in vista della giornata della memoria: dopo l’annuncio della Comunità ebraica di Milano che non sarà alla cerimonia del 27 mattina a Palazzo Marino, l’Anpi nazionale e l’Unione delle Comunità Ebraiche fanno un appello per una presenza alle iniziative pubbliche sulla Shoah. A Bologna Daniele De Paz, presidente della Comunità ebraica, afferma che “Le polemiche intorno al Giorno della Memoria non esistono”, ma su questo gli ebrei della città appaiono divisi, infatti Or ‘Ammim, la Comunità ebraica progressiva, diserta e non promuove le iniziative “in polemica con il Comune”. Una decisione criticata dallo stesso De Paz.
27 gennaio: Nell’Anniversario della Liberazione di Auschwitz, il Giorno della Memoria, a Milano, Alexandro Palombo ha reso omaggio con un murale a Edith Bruck, una degli ultimi testimoni italiani della Shoah, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti.
ISRAELE: la guerra e la situazione interna
2 gennaio: Estesi attacchi di Israele verso Gaza e Libano.
3 gennaio: Lancio di razzi dalle aree umanitarie di Gaza verso Israele.
4 gennaio: Manifestanti contro il governo si radunano a Tel Aviv per chiedere un cessate il fuoco immediato per permettere il rilascio degli ostaggi.
7 gennaio: 112 membri delle famiglie dei rapiti presentano una petizione all’Alta Corte contro il governo israeliano e il primo ministro Benjamin Netanyahu, accusando lo Stato di aver violato due leggi fondamentali “abbandonando i nostri cari nei tunnel di Hamas”.
8 gennaio: Trovati nella Striscia di Gaza i corpi senza vita di Youssef Ziyadne, 53 anni, e di suo figlio Hamza Ziyadne, 22, entrambi rapiti dal sud di Israele il 7 ottobre del 2023 e che finora erano ritenuti in vita.
15 gennaio: Raggiunto un accordo per il cessate il fuoco fra Israele e Hamas. L’accordo prevede la liberazione di 33 ostaggi israeliani e 737 prigionieri palestinesi entro i primi 42 giorni. Tra gli aspetti più significativi dell’accordo c’è anche il ritiro progressivo delle truppe israeliane. L’intesa prevede anche una seconda fase, che dovrebbe iniziare a marzo, qualora le condizioni stabilite nella prima fase siano rispettate. Questa includerà la liberazione di tutti gli ostaggi israeliani ancora vivi, principalmente soldati maschi, in cambio di ulteriori detenuti palestinesi. Inoltre, Israele si impegnerà a completare il ritiro dal corridoio Filadelfia. La terza fase dell’accordo, i cui dettagli restano ancora vaghi, potrebbe prevedere la consegna dei resti degli ostaggi deceduti e l’avvio di un piano di ricostruzione della Striscia di Gaza sotto supervisione internazionale e il possibile dispiegamento di una forza di pace, con una durata prevista tra i tre e i cinque anni.
18 gennaio: Il governo Israeliano approva l’accordo per il cessate il fuoco a Gaza. L’accordo è passato con 24 voti favorevoli e 8 contrari fra cui quello del Ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir, del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e degli esponenti dei loro due partiti (Likud e Otzma Yehudit). Gli oppositori dell’accordo possono presentare un ricorso all’Alta Corte di Giustizia, anche se è improbabile che la corte intervenga.
19 gennaio: Il Ministero degli Esteri del Qatar conferma l’inizio di un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Nel primo giorno dell’accordo, vengono liberate Romi Gonen, Emily Damari e Doron Steinbrecher dopo oltre 15 mesi nelle mani di Hamas. In cambio dei tre ostaggi israeliani circa 95 detenuti palestinesi vengono rilasciati dalle prigioni israeliane. Il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, si dimette, insieme ad altri due ministri del suo partito nazional religioso, per protestare contro l’accordo di cessate il fuoco a Gaza.
20 gennaio: Il primo ministro Benyamin Netanyahu annuncia la nuova operazione militare in Giudea e Samaria – nome biblico della Cisgiordania – chiamata Muro di Ferro, che sarà «un’operazione militare estesa e significativa per sradicare il terrorismo a Jenin». Obiettivo dell’operazione militare è neutralizzare il cosiddetto ‘Battaglione Jenin’, composto da miliziani affiliati a gruppi terroristici come Hamas e la Jihad islamica palestinese. Hamas, in risposta, lancia un appello per una mobilitazione generale in Cisgiordania. “Invitiamo le masse del nostro popolo in Cisgiordania e la sua gioventù rivoluzionaria a mobilitarsi e a intensificare lo scontro con l’esercito di occupazione”, si legge in una nota di Hamas. L’obiettivo deve essere quello di ”sventare la vasta aggressione sionista contro la città di Jenin e il suo accampamento”.
23 gennaio: Centinaia di civili palestinesi lasciano il campo profughi di Jenin, in Cisgiordania, dopo che Israele ha avviato una vasta offensiva militare. Le persone fuggite affermano che l’esercito israeliano ha ordinato loro di andarsene dalle proprie case, minacciando che sarebbero state distrutte o che loro sarebbero stati coinvolti nelle operazioni militari. L’esercito israeliano smentisce di aver messo in atto un’evacuazione formale.
24 gennaio: Israele chiede agli Stati Uniti altri 30 giorni per ritirarsi dal Libano meridionale. In base ai termini del cessate il fuoco con Hezbollah del 27 novembre, l’esercito israeliano deve lasciare tutte le sue posizioni nel Libano meridionale alle Forze armate libanesi entro il 26 gennaio.
25 gennaio: Liberate da Hamas con uno show a Gaza City le soldatesse ventenni Karina Ariev, Daniella Gilboa e Naama Levy e la diciannovenne Liri Albag dopo 477 giorni di prigionia a fronte del rilascio di 200 detenuti palestinesi dalle carceri israeliane. Il governo israeliano accusa Hamas di aver violato l’intesa, che prevedeva prima la liberazione di tutte le donne civili in ostaggio ancora in vita. In particolare Tel Aviv lamenta la mancata consegna di Arbel Yehud che avrebbe dovuto far parte dello scambio odierno. A fronte della violazione, le Forze di Difesa Israeliane (IDF) avvertono che non rispetteranno la clausola dell’accordo che prevedeva il ritiro dalla metà settentrionale del corridoio di Netzarim nel settimo giorno del cessate il fuoco. Ai palestinesi non sarà quindi consentito tornare nel Nord della Striscia di Gaza tramite la strada costiera finché Yehud non sarà restituita. Fonti di Hamas assicurano che la donna è viva e in buona salute e verrà liberata il prossimo 1° febbraio in quanto, avendo svolto un addestramento presso le forze spaziali israeliane è stata ritenuta una militare.
26 gennaio: Attacchi israeliani nel Libano meridionale provocano 24 morti e 134 feriti secondo quanto riferito dal Ministero della Salute libanese. Le forze israeliane, infatti, non si sono ritirate dalle zone meridionali del Paese, come era invece previsto in base all’accordo di cessate il fuoco. Stati Uniti e Libano annunciano che l’intesa è prorogata al 18 febbraio.
27 gennaio: Il governo israeliano e Hamas concordano di attuare un ulteriore rilascio di ostaggi giovedì, quando saranno liberati Arbel, la soldatessa Agam Berger e un altro rapito; durante la trattativa Hamas ha consegnato a Tel Aviv la lista degli ostaggi da liberare: sono vivi 25 su 33. In cambio, le forze israeliane acconsentono al passaggio dei gazawi attraverso il corridoio di Netzarim – che divide in due la Striscia – permettendo loro di tornare nella parte settentrionale dell’enclave. Hamas riferisce che 300.000 civili sono tornati nel nord nella prima giornata di apertura del valico.
29 gennaio: rilasciate Arbel Yehud, 29 anni e Agam Berger, 19 anni. E Gadi Moses, 80 anni. Israele protesta duramente con il Qatar per l’esibizione delle tre ragazze da parte di Hamas.
1° febbraio: dopo 484 giorni sono liberate Ofer Calderon, 54 anni, Keith Siegel, 65 anni, e Yarden Bibas, 35 anni. Restano ancora prigionieri 82 rapiti, 23 dei quali dovrebbero essere rilasciati prossimamente: solo 15 sono, di questi, i vivi.
MONDO
1° gennaio: L’autorità Nazionale Palestinese (ANP) vieta l’attività del network televisivo Al Jazeera nel territorio della Cisgiordania che controlla. Dal 5 di dicembre le forze di sicurezza dell’ANP stanno conducendo un’operazione militare in Cisgiordania contro i gruppi di miliziani che controllano il campo profughi di Jenin, tra cui la Jihad Islamica e Hamas.
9 gennaio: Elon Musk partecipa a uno Space (diretta audio su X) con Alice Weidel, leader del partito tedesco di estrema destra Alternative für Deutschland (Afd). Quando Musk chiede se i media associno Adf al nazismo la Weidel risponde che “Hitler era un comunista e si considerava un socialista. Il più grande successo dopo quell’epoca terribile della nostra storia è stato quello di etichettare Adolf Hitler come di destra e conservatore, ma lui era esattamente l’opposto. Non era un conservatore, non era un libertario, era un comunista, un socialista, e noi siamo l’opposto”.
20 gennaio: Nel discorso di insediamento il presidente Donald Trump afferma che i prossimi quattro anni saranno “i migliori della storia”, in cui “fermeremo l’invasione al confine” e “le guerre in Ucraina e in Medio Oriente” per “evitare la terza guerra mondiale”. Assicura, inoltre che già da lunedì, dopo il giuramento, “agirò velocemente” per affrontare tutte le crisi con cui sono alle prese gli Stati Uniti, mettendo “fine al declino americano”, per ripristinare l’american dream.
23 gennaio: Durante la sessione plenaria del Parlamento Europeo viene approvata una risoluzione sulla disinformazione e la falsificazione della storia con cui la Russia giustifica l’invasione dell’Ucraina che, al quattordicesimo paragrafo, mette sullo stesso piano i simboli del nazismo e dei regimi comunisti sovietici e vieta entrambi. Molte le critiche, anche di europarlamentari italiani verso questo passaggio.
26 gennaio: Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump afferma di star valutando un piano per “ripulire” Gaza, chiedendo a Giordania ed Egitto di accogliere i palestinesi nel tentativo di favorire la pace in Medio Oriente. “Stiamo parlando di un milione e mezzo di persone, e noi ripuliamo tutto”, afferma Trump ai giornalisti, dicendo che la mossa potrebbe essere “temporanea” o anche “a lungo termine”.
27 gennaio: Nel Giorno della Memoria, reali e capi di Stato, tra cui il presidente della Repubblica Mattarella, partecipano ad Auschwitz alla cerimonia per gli 80 anni dalla chiusura del campo di concentramento nazista. Il Papa: «Mai negare l’orrore della Shoah, debellare l’antisemitismo».
ANALISI e COMMENTI
Il 27 gennaio, quest’anno.
colloquio con Emanuele Fiano
Massimiliano Boni
Emanuele, nel 2025 ricordiamo gli ottant’anni dalla liberazione del lager di Auschwitz. Vorrei cominciare questa intervista chiedendoti di ricordare tuo padre, Nedo Fiano, uno dei pochissimi sopravvissuti ebrei italiani alla Shoah.
Il ricordo che più mi viene in mente in questi giorni è il carattere solare di mio padre, nonostante il dolore interiore che non lo ha mai abbandonato, soprattutto per il distacco da sua madre. Mio padre è sempre stato un uomo che ha risposto, anche nei momenti più difficili della sua vita, con un sorriso largo, aperto, di chi non ha mai smesso di progettare il futuro. Anche io, che non sono capace di essere come lui, nei momenti più difficili, come quelli che abbiamo vissuto in questi mesi, conservo la sua immagine solare e affabile, che mi dà conforto.
Quest’anno le celebrazioni che avrebbero dovuto incentrarsi sul ricordo di quello che accadde in Europa fra il 1938 e il 1945 a circa sei milioni di ebrei, uccisi dai nazi fascisti insieme a dissidenti politici, omosessuali, malati, rom, testimoni di Geova, sono stati caratterizzati invece dalla polemica politica che alcune frazioni radicali, soprattutto a sinistra, ne hanno fatto: mi riferisco all’equazione fra la guerra Gaza e la Shoah. Cosa pensi a riguardo?
Intanto suggerisco a tutti un grande equilibrio. Ciò che diciamo, e ciò che facciamo, ha effetti sulla cultura e sulla società in cui stanno crescendo le nuove generazioni. Detto questo, sono contrario a paragonare la drammatica guerra, condotta da Israele a Gaza in risposta al devastante pogrom del 7 ottobre, alla Shoah. Penso che l’ebraismo italiano debba invece dare un contributo alla chiarezza, e alla capacità di analisi della realtà in cui viviamo. Per questo, ritengo che le istituzioni ebraiche non debbano mai sottrarsi al confronto, e anzi debbano parteciparvi spiegando, ad esempio, le differenze evidenti tra le diverse vicende storiche.
Le incomprensioni fra il mondo ebraico italiano e il mondo di sinistra nascono da lontano. Quest’anno alcune comunità ebraiche, come quella di Milano, alla quale appartieni, hanno rinunciato a partecipare alla commemorazione della liberazione di Auschwitz, lamentando che il clima politico non lo consentisse. Credi che sia stata una scelta corretta?
Il contrasto esploso nelle ultime ore, sfociato nella decisione della comunità ebraica di Milano di non partecipare alla commemorazione del Giorno della Memoria organizzato presso il comune dall’Anpi con alcune scolaresche, nasce dalle tensioni accumulate in questi mesi. Da sempre lavoro perché ci sia unità tra coloro che, conservando la conoscenza storica e la memoria, si pongono sullo stesso lato dell’antifascismo e della tutela della Costituzione. Purtroppo ci sono stati, nel corso di questi 15 mesi, anche nella sinistra italiana e nelle organizzazioni antifasciste errori gravi.
Quali?
Penso alla comparazione storica tra la guerra a Gaza e alla Shoah, o all’uso di parole pesanti e sbagliate. In generale, abbiamo visto più volte come la legittima critica ad un governo possa trascendere nella deriva ideologica che porta ad atteggiamenti antisemiti; allo stesso modo, è successo che da alcuni si è dato vita a un istintivo e inconscio desiderio di trasformare le vittime in carnefici. Ma davanti a questi errori, molto gravi, ritengo che l’unica risposta sia non sottrarsi all’impegno, continuare a svolgere il lavoro prezioso che le comunità ebraiche svolgono tutto l’anno, spiegando cosa accadde allora e, se richiesti, spiegare anche cosa sta accadendo oggi. Dobbiamo resistere alla tentazione di chiuderci nel nostro guscio e pensare che qualsiasi critica allo stato di Israele sia una forma di antisemitismo.
Si può ricucire questo strappo?
È possibile. Chiedo per questo alle varie organizzazioni, a cominciare dall’Anpi, come sottolineato anche dal sindaco Sala, di rendersi consapevole della tensione accumulata in questi mesi dalle comunità ebraiche, frutto innanzitutto del tremendo attacco del 7 ottobre, il più forte ricevuto da Israele dal giorno della sua nascita, il più luttuoso dalla fine della Shoah. Per molti ebrei, in Israele e nella diaspora, quel fatto ha prodotto la rinascita di un sentimento che si pensava abbandonato, di paura per la fine degli ebrei e di Israele. Voglio ricordare, infatti, che nello statuto di Hamas e tuttora è predicato l’obiettivo dello sterminio degli ebrei. Detto questo, non penso che l’Anpi sia un’organizzazione antisemita. Come ho detto all’inizio, occorre utilizzare le parole con grande attenzione. Mi riferisco alla parola genocidio, anche se non dimentico il profondo dramma della popolazione civile a Gaza e delle migliaia di morti civili che la guerra ha prodotto. Allo stesso modo, da parte ebraica occorre utilizzare con attenzione la parola antisemitismo. Certo oggi l’antisemitismo rinasce in modo violento, e va combattuto; ma per farlo al meglio occorre saper distinguere e soprattutto fare fronte comune con le organizzazioni antifasciste.
Qual è il tuo giudizio sulla fase politica attuale in Medio Oriente, con Israele che ha siglato 2 fragili tregue con Hezbollah e Hamas e Netanyahu che probabilmente è convinto di essere sopravvissuto all’ennesima crisi?
Non è possibile fare previsioni. Certo la tregua è una buona notizia e, se mi consenti una battuta, se Israele e Hamas sono riusciti a realizzare una tregua ben sarà possibile che all’interno del mondo democratico e antifascista si possa raggiungere una forma di intesa tra chi oggi si contrappone l’uno all’altro. Tornando a Israele, non so dire della sorte futura di Netanyahu. Nell’ultimo periodo si è certo rafforzato, però penso che quando finalmente si tornerà al voto, la democrazia israeliana sceglierà non solo in riferimento a questa guerra, ma ad altri fattori. Vedi la situazione economica, le speranze e le paure di tutto un popolo. Semmai, in termini più generali, credo che anche in Israele, come in altre democrazie, ci sia un drammatico problema di leadership.
Hai una lunga esperienza parlamentare e attualmente ti candidi a guidare Sinistra per Israele che va a Congresso l’8 e il 9 febbraio. In questo ruolo, che azioni politiche ritieni necessarie per affrontare il tema del pregiudizio che si esprime verso Israele e soprattutto per arginare il ritorno dell’antisemitismo che si registra nella società italiana?
Io penso che Sinistra per Israele, fin dalla nascita, ormai sessant’anni fa, si pone tra l’incudine e il martello; a maggior ragione oggi, dopo l’attacco del 7 ottobre e la reazione di Israele. Però noi siamo per nostra natura dalla parte di chi difende senza se e senza ma il diritto di Israele a esistere e a difendersi, una posizione difficile rispetto a quella parte della sinistra italiana che critica le azioni di Israele. Dall’altra parte, noi difendiamo allo stesso modo, senza se e senza ma, il diritto del popolo palestinese ad avere un proprio stato, attirando le critiche di chi, tra gli amici di Israele, non appoggia lo stesso diritto. Nonostante tali difficoltà, consapevoli del momento storico in cui viviamo, continuiamo a riconoscerci in un progetto politico chi realizzi quell’obiettivo, dei due popoli per due Stati.
Vasto programma, potrebbe obiettarsi.
Quando mi si dice che oggi tale progetto è tramontato perché irrealizzabile, rispondo che, da un lato, Rabin strinse la mano ad Arafat, che fino a poco tempo prima era considerato un terrorista autore di omicidi di innocenti; dall’altro lato, Arafat ha stretto la mano al capo di un esercito che, per i palestinesi, era considerato il maggiore nemico. Come diciamo nelle nostre tesi congressuali, il futuro ha un cuore antico. A noi spetta il compito di favorire l’incontro tra due nemici. Non so chi potrà emergere dalla realtà della società palestinese come futuro leader, so che, per quanto riguarda Israele, emergerà dalla scelta degli elettori, come avviene in ogni democrazia. Resta per Sinistra per Israele il caposaldo: lavorare per due popoli e per due Stati. Sono al tempo stesso consapevole che non può essere un’affermazione vuota, il che significa che tale accordo dovrà prevedere la restituzione di gran parte dei territori occupati, come ad esempio prevede il piano Olmert, e garantire la sicurezza dello Stato d’Israele, che non può avere ai propri confini organizzazioni terroristiche. Ma significa anche, in termini più generali, pensare a un diverso funzionamento delle organizzazioni internazionali, che hanno dimostrato ampiamente tutti i loro limiti. Penso, ad esempio, alla risoluzione 1701 dell’Onu, che avrebbe dovuto garantire una fascia di sicurezza al confine tra Israele e il Libano, e che ha dimostrato il suo totale fallimento. Insomma, c’è la necessità in Italia di svolgere un lavoro politico a sinistra per sciogliere le varie contraddizioni, impedire la distorsione della memoria e lo sviluppo dei pregiudizi.
Israele dopo il cessate il fuoco. E ora?
Intervista a Roberto Della Rocca
Massimiliano Boni
Roberto, mentre stiamo realizzando questa intervista Hamas ha cominciato a rilasciare i primi ostaggi israeliani in cambio di centinaia di detenuti palestinesi. Israele però denuncia il mancato rispetto degli accordi e la tensione rischia di salire in qualsiasi momento. Quanto è fragile l’equilibrio raggiunto con la tregua?
Occorre capire che quando si analizza il modo di agire del fondamentalismo islamico, sia quello di Hezbollah che quello di Hamas, è difficile potersi affidare ad analisi oggettive, come quelle che siete abituati a sviluppare in occidente. Con il fondamentalismo, infatti, è possibile qualsiasi cosa e anche il suo contrario. Con una battuta, potrei risponderti che solo un veggente può sapere cosa accadrà nel futuro. Se invece mi chiedi un’opinione personale, di un uomo che conosce a fondo Israele e che ha imparato a studiare anche il comportamento dei fondamentalisti islamici, la mia impressione e che da un lato Hamas abbia interesse a rispettare i termini dell’accordo, e che dall’altro la pressione dell’amministrazione Trump sia stata così forte su Netanyahu da costringerlo ad accettare un accordo che aveva sempre negato a Biden. In questa fase siamo dunque al primo passaggio, che prevede il rilascio di circa 30 ostaggi, di cui almeno 6 o 7 in realtà dei cadaveri, compresa, io temo, la famiglia Bibas. Trascorsi i primi 16 giorni si parlerà della seconda fase, che prevede il ritiro completo dell’esercito israeliano da Gaza, in cambio della consegna dei restanti 50 o 60 ostaggi, di cui forse appena la metà ancora in vita.
E dopo?
Dopo l’incognita è totale. Anche la fase due è molto incerta. Sebbene mi dispiaccia ammetterlo, le possibilità che questa tregua si rafforzi e si sviluppi dipendono soprattutto da Trump. L’uomo più in difficoltà in questo momento è Netanyahu, perché da un lato non può fare a meno del sostegno americano, e dall’altro deve cercare di ricucire con gli estremisti del suo governo, Ben Gvir e Smotrich, che sono contrari a ogni forma di tregua.
Quale sarà l’azione che secondo te promuoverà Trump per far rispettare gli accordi?
Ripeto che non possiamo essere sicuri di nulla. Detto questo, confido che Trump continuerà a esercitare una pressione fortissima su Israele. Vedi, lui già si immagina premiato con il Nobel della pace, cosa possibile se riuscirà a realizzare una qualsiasi forma di pace in Medio Oriente e in Ucraina. Diciamo che oggi Medioriente è il suo laboratorio, con cui si sta mettendo alla prova per sperimentare se è davvero bravo come ha promesso.
Stavi accennando alla difficoltà politica di Netanyahu.
È tra due fuochi. Sappiamo che è un gran giocoliere, ma riuscirà a stare ancora in bilico fra Trump e la destra estremista del suo governo? Di Trump ha bisogno, non solo sul piano militare, ma anche per portare a compimento i patti di Abramo, con uno storico accordo con l’Arabia Saudita. D’altra parte, non può permettersi di perdere l’appoggio di Smotrich e Ben Gvir. Alcune settimane fa ha allargato la maggioranza includendo Gideon Saar, portando la sua maggioranza a 68 voti su 120; tuttavia, se gli 8 deputati di Ben Gvir e Smotrich lasceranno la maggioranza, ecco che Saar diventerebbe l’ago della bilancia, ed è noto che lui pensa di potersi sostituire a Netanyahu come leader del Likud. Io non credo che ci riuscirà mai, perché Gideon Saar non ha la stoffa del leader, ma non è escluso che possa tentare un’imboscata. In altre parole, in questo momento lo scacchiere prevede che ci siano più giocatori: Netanyahu, i suoi alleati di governo, Hamas, l’amministrazione americana. Come vedi, le variabili sono troppe per capire ora quale sarà la fine della partita.
Come reagisce Israele a questa grande incertezza?
Innanzitutto stiamo osservando la grande messinscena di Hamas nel momento in cui rilascia gli ostaggi, un chiaro segnale rivolto ai gazawi e alla Cisgiordania, il tentativo di dimostrare ancora di possedere una forza, che però non deve essere così è evidente come vorrebbero farci credere, visto che più o meno il 90% di Gaza è stato distrutto. È vero però anche che i circa 15.000 soldati di Hamas uccisi durante la guerra sono stati già rimpiazzati da nuove leve, certo tutte molto giovani e inesperte e tuttavia capaci in breve tempo di rinfoltire le fila di Hamas. Il mio giudizio è che la situazione in cui ci troviamo è un enorme problema creato da Netanyahu. Se, invece di ostinarsi in questa guerra, avesse subito avviato colloqui con gli americani, l’ANP, la Giordania e l’Arabia Saudita, oggi probabilmente avremmo già delle zone di Gaza in mano a forze civili e militari internazionali, che avrebbero estromesso Hamas. Invece Netanyahu si è sempre rifiutato di percorrere la strada politica perché ricattato dai suoi alleati di governo. Perciò sono molto pessimista sulla situazione attuale. Occorre rendersi conto che Netanyahu ha distrutto Israele, e che la gestione della guerra, dal punto di vista strategico, è stata catastrofica.
Per esempio?
Pensa alla questione del corridoio Philadelphia, che divide Gaza dall’Egitto. Per sei mesi non è stato un obiettivo militare, poi lo è diventato all’improvviso, solo per avere un pretesto per continuare una guerra e non sedersi al tavolo delle trattative.
Quanto è reale la possibilità della caduta del governo e le elezioni anticipate?
Io credo che si arriverà alla scadenza naturale della legislatura, ossia al settembre del 2026; le elezioni saranno evitate in tutti i modi.
Qual è la posizione di Yair Golan e dei democratici sul futuro di Gaza e su Israele?
La sinistra, di cui faccio da sempre parte, è innanzitutto favorevole a istituire una commissione d’inchiesta che faccia emergere le responsabilità dell’esercito, dei servizi segreti e anche del governo. Tale commissione però è del tutto osteggiata dal governo, il quale sa che il giorno che essa dovesse cominciare a operare e a esprimere dei giudizi, sarebbe costretto a dimettersi.
Nel dibattito israeliano si parla oggi della nascita di uno stato palestinese?
Anche se non è un tabù parlarne, di fatto non è un argomento all’ordine del giorno, perché le urgenze sono altre. Direi piuttosto che assistiamo a una situazione piuttosto paradossale: se l’idea di far nascere uno stato palestinese accanto a uno stato israeliano è oggi ai minimi termini, al tempo stesso aumenta la consapevolezza nella società civile e nell’elettorato che non è più possibile ignorare o procrastinare il problema palestinese, e che esso al contrario va risolto, perché non è più possibile convivere con tale problema.
Sul piano politico che giudizio dai della situazione?
Occorre rendersi conto che dei tanti fronti aperti contro Israele, quello interno è il più temibile. Oggi in Israele si combatte contro l’attuale governo, un nemico subdolo, che gestisce il potere ed è nemico della democrazia, come avevamo visto nell’anno precedente al 7 ottobre. Netanyahu vorrebbe impiantare in Israele un modello di democrazia come quello in Ungheria e, tra breve, temo anche in Italia: non più una democrazia, piuttosto una democratura. Oggi la polizia è già diventata di fatto una polizia politica. Con le dimissioni del capo di Stato maggiore dell’esercito, Halevy, si tenterà di fare lo stesso anche con le forze armate. L’ultimo tassello è quello della giustizia, dove si gioca la partita vera. Se Netanyahu e i suoi riescono ad approvare la riforma giudiziaria, allora la democrazia sarà davvero in pericolo, e tutti i democratici israeliani dovranno mobilitarsi per difenderla.
“Genocidio” versus “Antisemitismo”.
La guerra delle parole che combattiamo dal 7 ottobre
Intervista a Marino Sinibaldi
Massimiliano Boni
Tre anni di guerra in Ucraina, oltre 16 mesi di guerra a Gaza: le guerre ci hanno cambiati nel nostro leggere la realtà?
Sì e no; ci hanno cambiato troppo e troppo poco. Troppo, sul piano del linguaggio pubblico, che mi sembra ormai molto militarizzato. Viviamo una fase polarizzata, in cui parole come “genocidio” o “antisemitismo” hanno perso la loro connotazione originaria, per diventare bandiere dietro cui schierarsi, senza alcuna comprensione delle argomentazioni altrui. Naturalmente, credo che si possa parlare oggi di un rischio di genocidio a Gaza, così come è concreto il rischio di antisemitismo nelle nostre società, ma quello che contesto è l’uso ideologico di queste parole.
Cosa intendi?
Oggi il discorso è così ingabbiato e militarizzato che se, per esempio, io nego che a Gaza sia in corso un genocidio, allora vengo automaticamente accusato di essere complice del genocidio. Dall’altro lato, se dico che una critica anche molto dura a Israele non equivale a essere antisemiti, vengo a mia volta accusato di esserlo. Le parole oggi sono utilizzate per dividere e paralizzare il dibattito pubblico. Personalmente, ad esempio, mi trovo molto in difficoltà nell’utilizzarle, proprio perché avverto il rischio costante di cadere vittima degli schieramenti opposti.
Dov’è che invece le guerre a tuo avviso non ci hanno sufficientemente cambiato?
Mi sembra che facciamo ancora fatica, sul piano politico, a comprendere la realtà in cui ormai siamo immersi. Soprattutto a sinistra, comprendo l’estremo disagio, che è anche mio personale, ad accettare uno scenario di guerra, soprattutto per chi, come quelli della mia generazione, hanno sempre vissuto in un orizzonte di pace. Eppure oggi non abbiamo ancora compreso che il presente ci obbliga a riflettere sui cambiamenti in corso. Pensa ad esempio alla cultura pacifista, nella quale io stesso mi riconosco, che fa grande fatica a riconoscere questo cambiamento.
Se osserviamo l’uso del linguaggio, a me pare che anche la nostra società sia scesa in guerra: la guerra delle parole. Tu parlavi di “genocidio” e “antisemitismo”, ma potrei aggiungere anche “apartheid”, “sionismo”, “colonialismo”. L’uso delle parole radicalizza il confronto e lo trasforma in scontro, tu dici. Allora ti chiedo: per cosa stiamo combattendo?
La situazione attuale non nasce con la guerra in Ucraina o quella a Gaza. A me sembra che già all’epoca della pandemia ci sia stata una svolta. Ricorderai che a quel tempo nel dibattito pubblico si è assistito a una deformazione del linguaggio. Il meccanismo che abbiamo visto era quello che imponeva di schierarci: schierarci subito, anche senza le dovute conoscenze, schierarci da una parte e poi mantenere la posizione. Invece dal dibattito sull’opportunità dei vaccini siamo stati costretti a dire la nostra anche senza avere informazioni sufficienti. Questo ha fatto sì che molti si sono schierati da una parte come se fossero in trincea – ecco che ritorna la metafora bellica! – e da lì hanno preteso di continuare la discussione senza ascoltare le ragioni altrui. Io sono a favore dei vaccini, e sono rimasto colpito da come i “no vax” utilizzassero di volta in volta argomenti diversi per mantenere la stessa posizione, assolutamente refrattaria al confronto. Lo dico anche con dispiacere, perché questa conflittualità si è sviluppata grazie all’uso dei social, che ha consegnato ad ogni individuo un’enorme potenzialità espressiva. Il mio dispiacere è che questa potenzialità, che poteva servire a un progresso democratico dell’intera società, si sta trasformando in qualcosa di diverso, un modo per radicalizzare la propria posizione e sottrarsi a qualsiasi confronto.
Dal 7 ottobre 2023 tutti gli indici invece segnalano un aumento del fenomeno. Liliana Segre, del resto, vive sotto scorta da anni. La sinistra non è in ritardo nel leggere questo fenomeno?
Fermo restando quello che ho detto prima, sulla militarizzazione di alcune parole, quello che dici è vero. Oggi in molti minimizzano il rischio dell’antisemitismo. Tra questi però distinguerei: i peggiori lo fanno perché, in effetti, sono degli antisemiti; i migliori, per così dire, sono invece quelli che minimizzano il problema perché temono di confrontarsi con una realtà sgradevole: sono come il malato che nega la malattia perché ne teme le conseguenze. Oggi molti di noi fanno fatica ad ammettere che possa esistere una cosa così orribile come l’antisemitismo, soprattutto a ottant’anni dalla Shoah, che è stata l’esito finale di un antisemitismo coltivato a lungo. La difficoltà a riconoscere l’antisemitismo deriva anche da quel che avviene in Israele, dove il modello suprematista di Netanyahu ha fatto sì che l’esigenza di criticare quella deriva porta a minimizzare la presenza degli antisemiti che si uniscono al coro delle critiche.
Come si può combattere questo antisemitismo oggi?
Facciamo fatica a dirci che il pregiudizio contro gli ebrei non è superato così come facciamo fatica, a sinistra, a riconoscere che in certe condizioni la guerra di difesa è necessaria. La sinistra ha vissuto questa difficoltà già in passato, al tempo della guerra in Jugoslavia, e di nuovo la sta vivendo per l’Ucraina. Così è anche per l’antisemitismo, che in molti facciamo fatica a riconoscere, ad ammettere che ci sia. Eppure il pregiudizio non se n’è mai andato. Pensa qui a Roma, dove sono cresciuto, e dove la comunità ebraica c’è da oltre 2000 anni; eppure in questa città è presente un certo fastidio per gli ebrei, che emerge nel linguaggio comune, negli stereotipi, nelle battute tra amici. La parola “rabbino”, per esempio, ancora oggi è utilizzata come un’offesa. C’eravamo illusi che potevamo confinare questo pregiudizio alla semplice goliardia, ma dopo il 7 ottobre abbiamo scoperto che la guerra a Gaza ha scongelato questo “DNA primitivo” che ci portavamo dentro e ha scatenato un nuovo odio, un odio che ottant’anni fa portò allo sterminio.
La destra è da sempre abituata a parole identitarie, la sinistra sembra invece priva di una propria narrazione del mondo. La difficoltà a trovare le parole giuste nel campo progressista è una chiave per comprendere le sconfitte politiche a sinistra di questi anni?
Condivido in parte l’analisi. Indubbiamente il linguaggio della destra è semplice, ma il problema è che la realtà non è semplice: è complessa. Perciò il linguaggio della destra è falso, perché inquadra la realtà in uno schema semplicistico; e in quanto falso è anche pericoloso. Pretendere di ingabbiare la realtà in un recinto, nei confini di idee banali, è sempre una forma di violenza. E poi vorrei segnalare anche un altro aspetto del pensiero di destra.
Quale?
È lo stesso elemento evidenziato nell’opera di Scurati che produce tanto fastidio nella destra attuale. Mi riferisco alla rapidità con cui il pensiero di destra cambia le proprie bandiere. La destra è un pensiero che si adegua sempre alla direzione del vento che soffia in quel momento. Guarda al fatto che oggi la destra si dica amica di Israele: mi sembra un esempio evidente dell’opportunismo di questo pensiero, anche per una ragione intellettuale.
E cioè?
L’ebreo, come sottolinea in un piccolo ma importante libro di Amos Luzzatto di alcuni anni fa, “Il posto degli ebrei”, o anche Anna Foa nei suoi tanti scritti, è portatore di una diversità nella società in cui vive. L’ebreo è per definizione il rappresentante di una minoranza, e quindi la destra fa da sempre un’enorme fatica a comprendere e accettare gli ebrei, perché in generale alla propria radice non tollera le diversità, ossessionata com’è dall’unità e dalle identità. Infatti, storicamente, la destra gli ebrei non li tollera, avendo cercato anzi di sterminarli.
Resta il problema dell’incapacità della sinistra di leggere la realtà oggi.
Se posso spezzare una lancia a favore della sinistra potrei dire che, essendo i nostri tempi estremamente complessi, non solo la sinistra, ma un po’ tutti facciamo fatica a interpretare la realtà. Inoltre, la sinistra si porta dietro una arretratezza ideologica che viene dal passato. Io l’ho visto, come ti dicevo prima, nella fatica che si fa oggi a difendere gli ucraini, anche per un antico retaggio di simpatia verso l’ex Unione Sovietica. La stessa arretratezza si manifesta nei giudizi che si danno su tutte le guerre, in particolare quella che si combatte a Gaza. La sinistra fa fatica ad accettare un mondo non pacificato, e quindi tende a schierarsi automaticamente dalla parte che percepisce come quella più debole. Infine, la sinistra oggi si deve confrontare con ulteriori problemi. Poiché nella sua missione c’è quella di porsi dalla parte degli ultimi e dei più deboli, oggi è in difficoltà tra la necessità di difendere l’immigrato e i più poveri, che dagli immigrati si vedono scalzati. Ma pensa anche al problema della transizione ecologica, che pone in conflitto l’equilibrio del pianeta e la tutela dei più poveri. Con queste contraddizioni oggi la sinistra deve confrontarsi e deve elaborare gli strumenti necessari per farlo.
La letteratura può essere uno modo per tornare a costruire un linguaggio comune? In Israele le voci di Grossman, Keret, Nevo si fanno sentire per denunciare i rischi che corre la democrazia israeliana. Amos Oz ci ha lasciato un testamento spirituale di una lucidità quasi profetica. Nel mondo palestinese ci sono voci che riflettono sul perché ancora non esiste uno Stato di Palestina?
Partirei da una constatazione: da molti decenni assistiamo ad un fenomeno che ha piuttosto dell’incredibile. Mi riferisco all’eccellenza della letteratura israeliana che ha saputo sfornare talenti come Amos Oz, David Grossman, Abraham B. Yehoshua, ma anche Edgar Keret ed Eskhol Nevo. È un fenomeno quasi incomprensibile, tanta grandezza e potenza espressa da un paese così piccolo. Questo, per contro, ha alterato anche la nostra capacità di percezione di una realtà pur presente, anche se minore oggettivamente, quella della letteratura palestinese. In parte c’è anche il nostro punto di vista, occidentale e, direbbe qualcuno, “colonialista”, che ci fa sentire più vicini gli autori israeliani. E naturalmente non possiamo escludere l’argomentazione che un popolo oppresso fa fatica ad esprimersi. Tuttavia, ritengo che tali motivazioni siano insufficienti. Detto questo, va anche aggiunto che alcuni esempi possono farsi: penso a “La ribelle di Gaza” di Asmaa Alghoul e Sélim Nassib, o a “Una mattina a Jenin” di Susan Abulhawa, oppure al poeta palestinese Mahmoud Darwish. Resta però la questione: i palestinesi devono affrontare quello che per loro è un problema, ossia di come rappresentarsi al mondo.
Quest’anno festeggeremo gli 80 anni della Costituzione. Al governo c’è una leader che proviene da una storia politica che fatica a riconoscersi in pieno nelle radici antifasciste della Carta. Ottant’anni sono anche lo spazio che divide tre generazioni, tempo in cui la memoria degli avvenimenti si perde o si deteriora. Come possiamo fare della memoria una guida nel prossimo futuro, e resistere al tentativo di modificare i nostri tratti identitari?
Direi che questo è un aspetto decisivo dei tempi che viviamo. Tra l’altro il Giorno della Memoria ormai da due anni si intreccia pericolosamente con la guerra a Gaza, subendo alterazioni che in parte pure comprendo, ma che rischiano di deteriorare ulteriormente la memoria. Più in generale, il fatto è che oggi viviamo in un’epoca in cui sta finendo la geopolitica erede della Seconda guerra mondiale; in questa crisi del modello in cui siamo vissuti per generazioni cade anche il tema della tutela della memoria. Sarei invece più cauto circa il rischio che la memoria si perda semplicemente per lo scorrere del tempo: oggi, grazie alla tecnologia, abbiamo abbondanti strumenti che ci permettono di conservare la memoria. Inoltre, ricordo che in passato, cioè in un tempo molto più vicino del nostro a quei fatti, la memoria della Shoah non era coltivata come oggi perché non c’era la sensibilità che noi oggi abbiamo, grazie anche agli ultimi testimoni che a lungo hanno raccontato; lasciami ricordare qui la grandezza di Liliana Segre. Ma siccome viviamo il nostro tempo, non voglio sottrarmi alla domanda. In effetti il genocidio di cui oggi Israele è accusato in molti casi sottende la volontà di liquidare l’eredità della Shoah, in altre parole simula un atteggiamento antisemita. Quello che posso dire è che la memoria non esiste in sé, ma solo se viene coltivata e difesa. Importante a mio avviso è conservare la discussione nello spazio pubblico. Questo è il nodo che dobbiamo sciogliere. Se il presente interviene costantemente sul passato e lo legge alla luce di quel che accade oggi, il nostro compito è evitare che il presente si sovrapponga al passato e lo alteri.
In Europa spira il vento delle peggiori destre
Intervista a Ivan Scalfarotto
Massimiliano Boni
Onorevole Scalfarotto, dopo oltre 15 mesi di guerra da un paio di settimane è entrata in vigore una tregua temporanea tra Israele e Hamas. Gli sviluppi futuri sono tuttavia ancora incerti. Qual è il suo giudizio su questo conflitto così lungo?
La notizia della tregua ha chiaramente generato un sollievo collettivo, ma non bisogna cadere nella trappola del facile trionfalismo. Anche il rilascio degli ostaggi è stato e sarà conflittuale, anche per la sproporzione delle richieste di rilascio da parte dei palestinesi, a testimoniare quante complicazioni siano legate a questo conflitto ormai così duraturo. Le condizioni affinché la tregua tenga sono precarie e la strada per la pace è impervia. Finché sarà Hamas a gestire quel territorio, la minaccia per Israele esistenziale non verrà meno. L’unica soluzione possibile per questa vicenda è il riconoscimento – inderogabilmente reciproco e contemporaneo – dello stato di Israele e di uno stato di Palestina, ma purtroppo non vedo ancora significativi movimenti diplomatici significativi in questa direzione.
Dal 20 gennaio negli Usa c’è una nuova amministrazione. Con Trump alla Casa Bianca che effetti, secondo lei, potremo avere nell’area mediorientale?
Molti commentatori ritengono che la scelta di ritardare la tregua, da parte di Netanyahu, sia correlata all’insediamento di Trump: del resto la base dell’accordo è la stessa alla quale l’amministrazione Biden aveva lavorato otto mesi fa. Il ruolo degli Stati Uniti è dunque innegabile e il nuovo Presidente non ha certamente perso tempo ad assumersi gli onori di questa facilitazione. Ma il contributo di Trump per arrivare a una pace stabile sarà tutto da vedere. Il cambio della guardia alla Casa Bianca avrà conseguenze su tutto l’ordine internazionale, per come lo conosciamo, dalla fine del secondo conflitto mondiale. In politica estera Trump ci ha già abituati a trattare altri stati come vassalli, in linea con la teoria delle “sfere di influenza”: anche il suo intervento nell’area mediorientale seguirà probabilmente questa visione delle cose. In ogni caso, è certo che dovrà fare i conti anche con la complessità delle vicende di quella delicata area del mondo.
E per quanto riguarda il destino di noi europei? Teme un’affermazione delle destre in Germania e Francia?
In Europa sta spirando il vento della peggior destra. È una destra feroce, apertamente nostalgica delle peggiori dittature del secolo scorso e sostenuta da un’oligarchia di plutocrati che detengono risorse pari a quelle del PIL di paesi di media grandezza. L’insopportabile ingerenza di Musk nelle elezioni tedesche non può essere equiparata alla libera espressione di un comune cittadino: Musk gestisce piattaforme ed enormi flussi di informazioni, ha un potere di lobbying e pressione sulla politica che gli deriva non solo dalle sue ricchezze, ma ora anche dal suo ruolo nell’Amministrazione americana. Questo riguarda non soltanto Germania, Francia o Austria, perché sono tutte le democrazie liberali in Unione Europea a essere minacciate da movimenti che disprezzano i diritti civili e le libertà individuali. Personaggi come Kickl in Austria e Weidel in Germania hanno una carica eversiva che fa presa sull’opinione pubblica: propongono il modello democratico liberale come obsoleto e inefficiente. Temo dunque le destre estreme, rabbiose e populiste, ma anche quelle che con retorica surrettizia manipolano la storia e i valori a proprio piacimento, e in questo senso rappresentano un pericolo serio per le nostre democrazie.
Venendo all’Italia, dal 7 ottobre abbiamo assistito a cortei inneggiare alla liberazione “totale” della Palestina, e i comportamenti ostili a Israele e agli ebrei sono aumentati (come nel resto d’Europa). Anche il Giorno della Memoria è stato riletto per denunciare la guerra a Gaza. Ritiene che oggi nel nostro paese ci sia un allarme antisemitismo?
Il 7 ottobre stata una data assolutamente tragica per la storia recente sotto vari aspetti: per quello che è successo in Israele, vero, ma anche per le decine di migliaia di morti a Gaza usati da Hamas come scudi umani. Ed è stata tragica anche per la potente reviviscenza dell’antisemitismo da sempre latente nel nostro paese e non solo. Ho sentito questa Giornata della Memoria se possibile con ancora maggiore commozione, rispetto alle precedenti. Ricordare la tragedia della Shoah dovrebbe risultare non solo doloroso ma sconcertante, destabilizzante, per l’enormità del male che è stato compiuto. Ma a questo 27 gennaio si lega un sentimento di allerta: certamente perché si moltiplicano i simpatizzanti di partiti che si richiamano apertamente alla nostalgia del nazionalsocialismo, in un’atmosfera di piena normalizzazione di questi movimenti politici.
E guardando più in particolare a sinistra, c’è un problema di pregiudizio antiebraico, secondo lei?
Non parlerei di un aperto pregiudizio antiebraico nella nostra sinistra. Esiste però un antioccidentalismo e un terzomondismo mai sopito che rende Israele – unica democrazia della regione – irrazionalmente inviso al mondo progressista. A questo si aggiunge il fatto che la sinistra più movimentista e radicale fa molta fatica a sostenere principi che, secondo me, sono irrinunciabili. Lo vediamo bene nel dibattito sulla guerra in Ucraina, in cui molti esponenti della sinistra si dichiarano pronti a sacrificare la libertà delle persone e la democrazia in quel paese in nome di un pelosissimo pacifismo di facciata. In questo quadro, il risultato è che abbiamo appaltato la difesa pubblica di Israele agli eredi di coloro che firmarono le leggi razziali e aiutarono a rastrellare il ghetto di Roma. La ritengo un’infamia che resta sulla nostra coscienza di donne e uomini di sinistra. Se non c’è un aperto pregiudizio antiebraico, insomma, esiste purtroppo un approccio ideologico che porta a dimenticare che l’idea di emancipazione e libertà che ha dato vita allo Stato di Israele è un’idea che appartiene intimamente a una visione del mondo progressista.
Sinistra per Israele va a congresso nazionale l’8 e 9 febbraio. A suo avviso quale può essere il ruolo dell’associazione nel dibattito pubblico e politico, oggi?
La funzione dell’associazione è proprio questa: ricordare in primo luogo a tutti che Israele è una democrazia liberale, l’unico paese della regione in cui mio marito e io potremmo vivere in libertà e sicurezza: un modello e un patrimonio prezioso la cui difesa dovrebbe costituire un imperativo. Testimoniare poi che la società israeliana è una società dinamica e plurale, con un mondo progressista ricco e vivace che vuole tornare maggioritario e che necessita di sostegno anche dall’estero nel suo lavoro contro le destre, anche estreme, che oggi governano il Paese. Ma soprattutto far sapere a tutti che il sogno realizzato del popolo ebraico di costruirsi una patria dopo millenni di vessazioni e discriminazioni è stato e resta una delle poche utopie umaniste, di giustizia e libertà, realizzate della storia. Una sinistra che ripudia Israele, secondo me, semplicemente non può definirsi tale.
Antisionismo, antisemitismo e altri pregiudizi a sinistra
Claudia Mancina
La guerra di Israele contro Hamas e gli altri gruppi terroristi di derivazione iraniana mette a dura prova la sinistra, in Italia così come in altri paesi: di fatto in tutti i paesi democratici.
Sul tema le contraddizioni della coscienza progressista, in tutte le sue componenti, sono antiche. Da una parte la inevitabile e doverosa solidarietà col popolo quasi annientato dai nazisti, e il ricordo di Auschwitz liberata dai sovietici. Dall’altro la tradizionale ma sempre viva diffidenza verso le capacità finanziarie degli ebrei (qui la sinistra converge con la destra, e ambedue ritrovano quasi inconsciamente i sentieri dell’antigiudaismo cattolico), visti come esponenti di punta del capitalismo, e la ancor più grande diffidenza verso la costruzione politica e militare dello stato di Israele. Si è creduto di risolvere questa contraddizione distinguendo antisionismo da antisemitismo: “non siamo antisemiti, siamo antisionisti”. Distinzione spericolata, che ignora il ruolo di Israele anche per gli ebrei della diaspora che, pur restando italiani, o tedeschi, o americani, sentono con lo stato di Israele un legame speciale, ben diverso da quello che per esempio un italoamericano può sentire con il paese di origine dei suoi genitori. Israele non è solo un’origine; è anche un approdo, una promessa di riparo dalle persecuzioni e dalla vittimizzazione. Una promessa che dovrebbe essere garantita dalla risoluzione ONU del 1947, ma non lo è e non lo è mai stata. In gran parte del mondo democratico la stessa esistenza di Israele non è accettata. Sembra che, togliendo alla figura dell’ebreo la rassicurante veste di vittima indifesa, il fatto che gli ebrei abbiano conquistato la statualità, e quindi la difesa militare che ne è parte essenziale, appaia come qualcosa di intollerabile. Israele viene visto come una nuova esperienza coloniale, come una occupazione illecita di terre, come una violenza nel corpo della storia, che l’orrore della Shoah non basterebbe a giustificare. Qui si innesca la distinzione tra antisionismo e antisemitismo, una distinzione che non regge né sul piano concettuale né sul piano fattuale. Infatti le migliaia di manifestazioni antisraeliane e propalestina che si sono succedute, a cominciare dalle università americane e in tutti i paesi democratici, da quando è cominciata la guerra a Gaza, hanno chiaramente travalicato questa distinzione, traducendosi in attacchi verbali quando non fisici ad ebrei. L’antisionismo diffuso nega il diritto di Israele ad esistere e dunque a difendersi dagli attacchi. Il massacro del 7 ottobre, una delle azioni terroristiche più orribili che si siano mai viste, viene derubricato a gesto di resistenza; la guerra dell’esercito israeliano, che certamente è molto dura (e si può discutere se questa durezza sia stata eccessiva) viene accusata addirittura di essere un genocidio, forzando il significato della parola per sfruttarne la grande carica emotiva. Si diffondono numeri di civili morti dati da Hamas, dimenticando che Hamas ha costruito migliaia di chilometri di tunnel sotto le case, le scuole, gli ospedali, di fatto e consapevolmente usando i civili come scudi umani. Hamas ha come obiettivo esplicito quello di eliminare la presenza degli ebrei dalla Palestina: chi la considera una organizzazione di resistenza non può nascondersi dietro la maschera dell’antisionismo. Per tutto ciò, non è possibile considerare ciò che sta avvenendo nelle università, nelle scuole, nei giornali, nei media dei paesi democratici, come un semplice ritorno di antisemitismo.
C’è qualcosa di più. Qualcosa che forse c’è sempre stato, ma era celato sotto il ricordo della Shoah. Ernesto Galli della Loggia ha suggerito che ci sia stata una cesura nella memoria della Shoah, una cesura che ha fatto sì che non ci sia più una remora morale a odiare gli ebrei. E ha fatto sì che il vecchio, direi tradizionale, antisemitismo assuma una forma nuova, nutrendosi di antioccidentalismo e identificando Israele come un avamposto dell’Occidente, e addirittura come uno stato coloniale. Un antioccidentalismo che nasce e si sviluppa nelle università americane, dove trova terreno fertile negli studi coloniali e nello sviluppo, ormai consistente, di una cultura woke, che rifiuta il confronto democratico e lo sostituisce con il conflitto tra gruppi identitari impermeabili, con l’esclusione di ogni tentativo di dialogo e con la demonizzazione del dissenso. Sarà molto difficile combattere in maniera efficace questa costellazione di idee antioccidentali; ma combatterle è necessario, sostenendo il diritto di Israele a difendersi e tuttavia – se lo riteniamo – criticandone il governo. Perché un popolo non può essere identificato col suo governo. Così a noi, da qui, spetta indicare i veri errori di Netanyahu, che non hanno niente a che fare con il genocidio e, a mio parere, neanche con crimini di guerra. Ma hanno a che fare con l’abbandono della prospettiva dei due Stati, che, per quanto di difficilissima realizzazione, resta l’unico orizzonte che può fare sperare in una futura riconciliazione. Il governo israeliano pensa forse di riprendere la guerra dopo la prima fase della tregua, ma il ritorno degli sfollati a migliaia e migliaia lo renderà impossibile.
Meglio sarebbe stato non lasciare ad Hamas la gestione organizzativa di questa fase, attraverso la quale è facile immaginare che il gruppo terroristico si stia rafforzando e rigenerando, lucrando da una parte sulla distribuzione degli aiuti, dall’altra sull’odio e il risentimento. Prosciugare l’odio – almeno nelle prossime generazioni – dovrebbe essere l’obiettivo del governo israeliano, ma non sembra che sia questo il pensiero di Netanyahu.
Camminare sul filo: riconoscere il conflitto e costruire la pace
Alessandra Tarquini
Riconoscere l’esistenza di due ragioni contrapposte è un esercizio difficile. Il diritto di Israele ad esistere e a condurre una vita in pace e quello del popolo palestinese ad avere una patria autonoma, sono legittimi e sono alla base di uno dei conflitti internazionali più difficili della seconda parte del Novecento. Entrambi derivano dal principio di autodeterminazione dei popoli affermato dal Presidente americano Wilson dopo il primo conflitto mondiale e sancito dalla Carta delle Nazioni Unite nel 1945.
Spesso ricordiamo che Sinistra per Israele è nata dopo la guerra dei Sei giorni quando i rapporti fra l’una e l’altro erano entrati in crisi. Si afferma che da allora le relazioni cambiarono perché Israele occupò una porzione di territorio quasi sei volte più grande di quello indicato dall’Onu nel 1947. I palestinesi divennero il simbolo della lotta contro l’imperialismo, l’espressione di quel terzomondismo che costituì una delle piattaforme politiche della sinistra e della protesta giovanile di tutto il mondo. In realtà, non è vero che la guerra dei sei giorni segnò uno spartiacque, come spesso si ripete. Lo fu senza dubbio nelle relazioni fra Israele e i suoi nemici, perché la politica dei palestinesi cambiò e perché gli scenari internazionali modificarono il mondo. Non lo fu nelle relazioni fra la sinistra e gli ebrei.
Pochi anni dopo la nascita dello Stato ebraico, accolto con entusiasmo da tutti i partiti, socialisti e comunisti divennero dichiaratamente filoarabi. Addirittura, negli anni Cinquanta, di fronte al risorgere dell’antisemitismo in Urss e nelle democrazie popolari, e alla condanna di molti ebrei accusati di cospirazione sionista, il Psi e il Pci sui loro giornali difesero l’operato del Cremlino. Di fatto, solo il Psi di Nenni al governo espresse una politica amica dei laburisti israeliani, fondatori e classe dirigente dello Stato nato nel 1948. Le logiche della guerra fredda e l’ostilità verso un paese amico degli americani ebbero la meglio. E del resto, indipendentemente da Israele, una sorte simile toccò alla memoria dell’antisemitismo. Fino al processo contro Adolf Eichmann nel 1961, la sinistra partecipò a quel processo di rimozione collettiva del genocidio degli ebrei. Si aprì allora una finestra per sconfiggere l’indifferenza dominante, ma fu uno spiraglio che si chiuse di nuovo negli anni Settanta. Di Shoah si tornò a parlare alla fine degli anni Ottanta.
Il Pci non aveva mai voluto avere rapporti con i laburisti israeliani. Iniziò a costruirli alla metà degli anni Ottanta quando si diffuse nel Partito un diverso modo di considerare Israele, il sionismo e la questione ebraica. Nell’ottobre del 1986 il viaggio di Giorgio Napolitano rappresentò una nuova fase di questa storia. All’Università di Gerusalemme, il futuro presidente della Repubblica ricostruì i rapporti fra i comunisti italiani e Israele non omettendo le ragioni di conflitto, motivando il tradizionale sostegno all’Olp, ma anche mostrando che il suo Partito mostrava una nuova disponibilità. Nel frattempo, Bettino Craxi era ormai uno degli alfieri della causa palestinese, amico personale di Yasser Arafat, inviso a buona parte della comunità ebraica italiana. Da parte sua, ricordando il quarantesimo anniversario della nascita di Israele, nel 1988, il quotidiano il «Manifesto» paragonò lo Stato ebraico al regime nazionalsocialista, come aveva fatto in occasione di tutti i conflitti arabo-israeliani. Su «Rinascita», invece, uscì uno speciale con il titolo Israele, il futuro di due popoli. Nel 1991 «l’Unità» intervistò Furio Colombo, autore del volume Per Israele. L’aveva scritto – così dichiarò – per rendere il dovuto omaggio alle ragioni «misconosciute, omesse, dimenticate». È morto pochi giorni fa. Era stato fra i principali artefici dell’istituzione della Giornata della Memoria, primo firmatario della relativa proposta di legge. Dunque, da sempre ascoltiamo diverse sinistre e diverse storie.
Poi arrivò Oslo e tutti sperarono che la leadership palestinese e i laburisti israeliani, sotto l’egida della Presidenza Clinton, avessero posto le basi, per una soluzione pacifica. Sappiamo che non andò così e che dal 2000, dal rifiuto degli accordi proposti dal premier Barak e rifiutati da Arafat, abbiamo assistito ad una discesa nel buio che ha visto da un lato l’occupazione sistematica della Cisgiordania; la vittoria di una destra radicale non priva di elementi islamofobi e razzisti, e dall’altro, a Gaza lasciata dagli israeliani, nel 2006 il gruppo terroristico di Hamas ha vinto le elezioni con un colpo di Stato. Hamas ha dichiarato di voler eliminare Israele e ha provato a farlo il 7 ottobre 2023 nel più grande massacro antisemita compiuto dopo la Seconda guerra mondiale, con uno stupro di massa senza precedenti.
E allora come non comprendere quanti in Israele e fuori diffidano della soluzione due popoli e due Stati? E, per le ragioni opposte, come non vedere che la politica israeliana ha reso impossibile la nascita di una Cisgiordania palestinese? In Italia e in Europa, un’Europa assente, ascoltiamo voci diverse. L’unica possibile è quella che riprenda il filo da dove si è interrotto, da Oslo. Quella di una sinistra che combatte la destra israeliana, ma che è anche diversa da quanti in questi mesi hanno accusato Israele di genocidio, come hanno sempre fatto, esprimendo posizioni in cui il confine fra antisionismo e antisemitismo è inesistente. Rabin diceva: «combatteremo il terrore come se non ci fosse la pace, faremo la pace come se non ci fosse il terrore».
Ricordando Furio Colombo – 1931-2025
Piero Fassino
Non è davvero semplice rappresentare in un articolo giornalistico lo spessore culturale, politico, umano di una personalità come Furio Colombo che ci ha lasciato pochi giorni fa al termine di una lunga vita spesa con intensa passione civile, alta qualità intellettuale, rigore morale e rara poliedricità.
Nato in una famiglia ebraica crebbe in quella Torino che nel corso del ‘900 è stata la città di Antonio Gramsci, Piero Gobetti, Vittorio Foa, Primo Levi. Laureatosi in giurisprudenza, mosse i suoi primi passi professionali come dirigente dedito alla formazione del personale in quella eccellenza tecnologica, produttiva e sociale, unica nel panorama del capitalismo italiano, creata da Adriano Olivetti.
Ma fu ben presto attratto dal mondo a cui avrebbe dedicato l’intera sua vita: la comunicazione e il giornalismo. Agli albori della televisione fece parte di quella straordinaria leva di giovani intellettuali – Andrea Barbato, Gianni Vattimo, Liliana Cavani, Angelo Guglielmi e Umberto Eco, a cui Furio era legato da un rapporto personale direi simbiotico – a cui Fabiano Fabiani affidò il compito di dare ai servizi giornalistici della RAI un profilo culturale e pedagogico alto. Lì Furio Colombo profuse intelligenza, curiosità, passione civile realizzando rubriche culturali e reportage di straordinaria ricchezza informativa, dalla guerra in Vietnam al conclave per l’elezione del Papa, dalla rivoluzione studentesca a Berkeley ai ghetti di Harlem e Atlanta, dalla tournée dei Beatles in India alle campagne elettorali dei Kennedy, contribuendo così a sprovincializzare l’Italia e a far entrare il mondo nelle case di milioni di italiani.
Spedito da Olivetti in America, divenne la sua seconda patria, dove incontrò la amata Alice e nacque Daria. E in America la sua attività di corrispondente giornalistico si allargò a nuove esperienze. Presidente di Fiat America e rappresentante personale dell’avvocato Agnelli negli States, direttore per tre anni dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, titolare di corso alla Columbia University, collaboratore di prestigiose istituzioni culturali e sociali, tessendo una fitta rete di relazioni con personalità di ogni mondo della società americana.
Ma la sua creatività culturale non si esauriva nel giornalismo. Ricchissima è la sua produzione di libri spesso onorati con prestigiosi premi letterari.
Componente del Gruppo ‘63 il cenacolo intellettuale che innovò il panorama letterario italiano. Contribuì alle sceneggiature di alcuni dei film più famosi di Francesco Rosi, Giuliano Montaldo e Ettore Scola. Amico di Joan Baez e autore dei testi di alcune tra le più note sue canzoni.
Impegni intellettuali che sempre intrecciò con intensa attività di editorialista della Stampa, della Repubblica, dell’Espresso, direttore de L’Unità, portandola a 100.000 copie dopo una profonda crisi, e infine fondatore del Fatto Quotidiano che poi lasciò per dissensi sulla linea editoriale. E con Umberto Eco contribuì alla nascita della Nave di Teseo, una delle più dinamiche case editrici del nostro Paese.
Visse e praticò questa sua intensissima attività culturale con forte passione civile e politica. L’America gli aveva trasmesso il valore della democrazia, dei diritti, della società multiculturale, del pensiero liberal e di qui discendeva il suo impegno in tante battaglie di progresso e di civiltà. Ricordo l’entusiasmo con cui accolse la candidatura parlamentare che gli offrii e che lo vide per tre legislature Deputato e Senatore dei DS, dell’Ulivo e del PD, dedicandosi nella Commissione Esteri al cruciale tema dei diritti umani, ma anche promuovendo disegni di legge ispirati alla promozione dei diritti e della cultura, come le sue proposte sulla istituzione dell’avvocato del minore, sugli incentivi all’acquisto di opere di giovani artisti, sulla riorganizzazione degli Istituti italiani di cultura, sulla istituzione dei centri regionali di terapia del dolore. Era un uomo libero, vivendo i valori in cui credeva con grande determinazione, come anche testimonia il dissenso che, con lealtà, espresse ogni volta che le decisioni proposte entravano in conflitto con i suoi convincimenti.
Fu tra i fondatori di Sinistra per Israele, dedicando libri e scritti importanti al rapporto tra ebraismo e sinistra, battendosi per una soluzione di pace che riconoscesse i diritti di entrambi i popoli che vivono in quella terra e spendendosi in mille iniziative di contrasto all’antisemitismo e all’antiebraismo. Un impegno generoso che culminò nella promozione, come primo firmatario, della legge per l’istituzione della Giornata della Memoria. Legge approvata all’unanimità, che sollecitò l’ONU a proporre analoga decisione al mondo intero.
Chi, come me, ha avuto la enorme fortuna di averlo come amico vero e sincero, in una assidua frequentazione pubblica e privata, non potrà mai dimenticare l’attenzione con cui curava i rapporti personali, la capacità di ascolto di ogni interlocutore, la generosità pedagogica con cui si confrontava con i giovani, la curiosità intellettuale di chi sa che anche nella persona più distante c’è un pezzo di verità da scoprire e comprendere.
Ci ha lasciato, ma rimane in ciascuno di noi il segno forte delle tante cose che ci ha insegnato, della ricchezza umana che ci ha trasmesso. E ci porteremo negli occhi e nel cuore quel sorriso radioso e aperto con cui accompagnava il suo dire e il suo agire.
Così oggi lo ricordiamo, con nostalgia e immensa gratitudine.
Piero Fassino ricorda Furio Colombo alla Camera
Il Congresso Nazionale di Sinistra per Israele
Il Congresso visto da Bologna
Luca Alessandrini
Il Congresso nazionale di Sinistra per Israele è un’occasione importante per diversi motivi. Si tratta del primo momento di riflessione complessiva sull’associazione dopo molti anni nei quali presenza e operatività non erano certo venuti meno, ma si era proceduto, per dire così, col pilota automatico, confermando una testimonianza e un ruolo.
L’attacco del 7 ottobre 2023 portato da Hamas contro Israele e, tout-court, contro gli ebrei ha portato ad un mutamento e ad un’accelerazione formidabili. Israele, nella rappresentazione diffusa, da vittima è divenuto carnefice, e – incredibilmente ma non casualmente – prima ancora di intervenire militarmente nel territorio di Gaza. È stato scritto da più di un osservatore e da più di uno studioso: come se la tragedia del 7 ottobre anziché suscitare sdegno e ripulsa avesse agito da fattore liberatore di posizioni antisraeliane e financo di sentimenti antiebraici. Da quel momento la consapevolezza dell’accaduto il 7 ottobre stesso e il giudizio sulla natura politica e religiosa di Hamas sono scomparsi per lasciare il campo ad una valanga contro Israele che prendeva le mosse dalla denuncia della conduzione delle operazioni militari e giungeva a giudizi corrivi sulla storia del sionismo e culminava nella messa in discussione della legittimazione stessa dello Stato. Tutto ciò in un profluvio di commenti, invettive, manifestazioni che assumevano anche stilemi propriamente antisemiti.
In questo frangente si è posto – o meglio è ritornato in evidenza – il tema del rapporto tra la sinistra, italiana e mondiale, e lo Stato di Israele. E ciò in una doppia veste: quella di partiti istituzionali impacciati, che non possono schierarsi con l’estremismo antisraeliano, ma che non desiderano nemmeno essere equiparati alla destra occidentale, completamente allineata al governo Netanyahu per motivi geostrategici e per motivi squisitamente politici, riconoscendolo a pieno titolo parte del mondo delle destre sovraniste; e quella dei movimenti di piazza, studenteschi e giovanili, ma anche appelli e dichiarazioni di professori universitari e di intellettuali.
Contestualmente, l’esigua ma significativa associazione Sinistra per Israele ha conosciuto nuova presenza e nuova forza. Se ha dovuto misurarsi – per usare un eufemismo – con situazioni tese e accese, nell’incalzare del dibattito politico e delle notizie dal Medio Oriente, ha anche riscoperto adesioni e partecipazioni di grande valore. In una parola, in quindici mesi Sinistra per Israele ha avuto una nuova – e quanto più intensa! – vita.
Il Congresso nazionale, dunque, costituisce l’appuntamento necessario e imprescindibile per fare il punto sul piano politico e organizzativo e rilanciare l’associazione su basi solide e condivise, perché apertamente discusse. Per gli aspetti organizzativi, l’ondata di nuove adesioni registrata in particolate a partire dalla presentazione del nostro Manifesto Dal 7 ottobre alla pace all’inizio della scorsa primavera, rende necessario un nuovo livello di articolazione dell’associazione, non solo dal punto di vista quantitativo, ma anche qualitativo, per rendere possibile la partecipazione alla discussione teorica e alla mobilitazione politica un numero assai più ampio di persone, in molti casi portatrici di culture e esperienze di spessore. È necessario adeguare la struttura alla nuova situazione, con forme democratiche per la formazione della decisione politica, dibattito plurale, efficienza e efficacia, garantendo trasparenza e controllo. Si potrebbe obiettare che tali requisiti sono vivi e hanno sempre albergato nella nostra associazione, ma ora che si ha un’ampia partecipazione e attività è importante dare un segno di cosa è giusto.
Tuttavia, è la dimensione politica che si intende sviluppare al massimo grado collegialmente, tale non può che essere lo scopo del Congresso.
Occorre sottolineare che il nome stesso dell’associazione contiene significati ineludibili. Essere di sinistra comporta l’assunzione del conflitto come parte costitutiva della politica, nella lettura dei fenomeni, nell’azione, nella propria vita interna. Il senso comune di destra ha svilito il termine conflitto riducendolo alla stregua di scontro, tendenzialmente violento, da evitare o da reprimere, mentre il conflitto è la vita stessa, attraversa le società. La sua negazione è stata parte essenziale della costruzione dei regimi autoritari totalitari, che trasformavano i conflitti in guerra e schiacciavano una delle parti, basti pensare al fascismo italiano di fronte ai conflitti del lavoro, di genere, religiosi, linguistici, mentre le costituzioni antifasciste, dopo il 1945 hanno considerato e previsto il conflitto non già come un aspetto inevitabile della vita sociale, ma come elemento vitale, produttivo. Perché il conflitto, se condotto in forme realmente democratiche, produce mediazione politica, che è tutt’altra cosa del compromesso. Anche in questo caso la subcultura di destra propone i rapporti politici come vile scambio nel quale ogni parte, obtorto collo, deve rinunciare a qualcosa e il più forte o il più furbo, ottiene di più; al contrario, la mediazione politica è la costruzione di una prospettiva terza alla quale concorrono le parti in conflitto, non un generico embrassons-nous, ma un confronto continuo, anche aspro ma leale, alla ricerca di nuovi equilibri.
Tale è l’aspettativa per il Congresso, se vi sono motivi di conflitto, e non possono che esservi, l’essere un’associazione di sinistra sarà occasione di praticare la mediazione, guardando avanti e cogliendo da ogni posizione, da ogni opinione motivi di riflessione e di costruzione di una prospettiva politica e di impegno comune.
La questione politica oggetto del Congresso è assai ricca e complessa e si sviluppa – userei questa immagine – su diversi crinali. Si prendono le mosse da un grande e profondo rispetto per Israele e le sue istituzioni, ma al tempo stesso si conduce una critica libera e severa delle scelte politiche del suo governo e dei partiti, perché, come recita il nostro nome, siamo per Israele e siamo di sinistra. Se tale assunto può apparire ovvio se non banale, in realtà non è privo di spazi interpretativi che possono condurre a letture anche molto diversificate, come peraltro si è visto nel dibattito dell’ultimo anno. Una delle ragioni sta nella considerazione che per rispettare e difendere l’esistenza stessa dello Stato di Israele occorre misurarsi con la sua storia e, particolarmente oggi, essere in grado, non per le capacità individuali dei singoli – presenti e straordinarie nella nostra associazione – ma nella dimensione pubblica, di proporre una interpretazione aperta. Solo la disponibilità alla critica può consentire di mantenere la più ferma intransigenza circa la legittimità e la stessa esistenza dello Stato di Israele. È questione storica, ma anche questione politica, raramente, come nel caso di Israele, le due questioni sono indissolubilmente connesse. Parimenti, la condanna delle politiche del governo Netanyahu non può limitarsi alla conduzione della guerra, giacché si pongono due questioni, entrambe enormi: l’una, la guerra in quanto tale; l’altra, le concezioni dello Stato e del suo futuro che sottendono alle politiche delle destre israeliane. Se le forme della guerra in Gaza e in certa misura in Siria sono inaccettabili, occorre considerare che essa era inevitabile. Un’affermazione tanto grave non discende dall’idea che vi siano guerre giuste, le culture politiche di sinistra e liberaldemocratiche hanno rifiutato in via definitiva questa categoria negli anni delle resistenze europee, scelta poi inverata nelle costituzioni antifasciste, eppure erano anni nei quali si conduceva una guerra durissima. Dunque, la guerra può essere inevitabile, ma non è mai giusta. Non solo, anche la guerra inevitabile avrebbe dovuto essere evitata in forza della politica. Troppo lungo se non inutile ricordare qui quanto la politica abbia accumulato fallimenti e consumato colpevoli assenze in Medio Oriente, quando non ha soffiato sul fuoco. I crimini di Netanyahu e del suo governo non sono avere intrapreso una guerra di difesa, ma le modalità con le quali l’ha sviluppata e la mancanza di prospettive politiche – o almeno di prospettive politiche trasparenti – circa la conclusione delle operazioni militari, gli obiettivi, gli equilibri e le strategie del dopo la cessazione dell’intervento armato.
Un altro crinale sul quale si muoverà il Congresso sarà tra la contingenza delle notizie sugli sviluppi della guerra, su nuove dichiarazioni e prese di posizione, e la riflessione sulla storia politica recente di Israele. Anche in questo caso, non è né immediato, né scontato reperire un punto di equilibrio.
E ancora, tra la necessità per la quale siamo nati, di rappresentare le ragioni di Israele in una sinistra che pare averne dimenticati i fondamenti, e la debolezza generale del pensiero di sinistra e della sua consistenza in termini di azione politica in Italia e in Israele. Questione enorme, che affonda le sue radici mezzo secolo fa, nella crisi degli anni Settanta del Novecento, ma che dovrebbe stare al fondo di ogni riflessione e azione politica che intenda proporsi di sinistra.
Si pone inoltre la grande questione del sionismo. Esso è questione storica, e vi sarebbe spazio per discutere delle sue origini e dei suoi fondamenti, che dovrebbero esser particolarmente cari agli italiani e alla sinistra per le strette connessioni col Risorgimento. Tuttavia, si tratta di una questione storica che attraversa il presente e la politica, riflettere su sionismo e, nel nostro caso, su sionismo e Risorgimento significa affrontare il tema della nazione, di cosa debba intendersi con questo termine, e di stato nazionale. Il sionismo, come il Risorgimento italiano, ha elaborato un’idea democratica di nazione, in quanto tale aperta e inclusiva, patto legale tra i cittadini, l’opposto della concezione di nazione che si afferma nell’età degli imperialismi e viene portata a sistema dai fascismi, una nazione chiusa, esclusiva, su base razzistica. La Resistenza italiana, in questo come in altri campi autentico compimento del mandato risorgimentale, ha ricostruito la concezione di nazione democratica e di Stato nazionale, ma oggi, la crisi della politica e la crisi della democrazia stessa rimettono in questione i modi di intendere la nazione. Se il sionismo è centrale su tale tema cruciale, esso ha avuto declinazioni anche di altra natura, seppure a lungo minoritarie, che non possono essere eluse, non già per giustificarle, ma per capire le dinamiche del pensiero politico in Israele e su Israele. Non a caso Sinistra per Israele ha espresso il Laboratorio Rabin quale centro di iniziativa di studio, di elaborazione teorica e di divulgazione alta.
Sul tavolo non manca il tema del mondo palestinese, i territori occupati della Cisgiordania e Gaza. La scelta radicale di Sinistra per Israele per l’opzioni due Stati per due popoli, intransigentemente assunta, impegna l’associazione a lavorare su più fronti. Innanzitutto, lo scetticismo di chi ha cessato di credere in questa possibilità, quindi cosa debba intendersi per Stato. Infatti, la convivenza e l’autonomia dei due Stati implica che questi siano democratici, nazionali e non su base etnica. Occorre altresì che si definiscano soggetti politici democratici e autorevoli in grado di condurre all’obiettivo. Ma altrettanto importante è la capacità – squisitamente politica – di leggere il passato non soltanto per i torti e le violenze subite, ma per elaborare prospettive di futuro.
Infine, si pone la questione dell’antisemitismo. È diffusa la vulgata – più esatto sarebbe il termine propaganda – secondo la quale chi critica Israele è accusato di antisemitismo per zittirlo con un marchio d’infamia. Per quanto sia volgare e strumentale tale asserzione, si rende necessario impugnare il tema. Nessuno può permettersi di accusare altri di essere antisemiti a cuor leggero, ma non si possono eludere i dati sulla diffusione dell’antisemitismo, dati raccolti con criteri e parametri trasparenti e raffinati. E parimenti, non si può eludere il fatto che troppo spesso la critica a Israele assume le forme e le immagini dell’antisemitismo e della giudeofobia. Stereotipi di antica data riemergono quando si parla di Israele, anche a sinistra. Occorre riflettere su come affrontare l’antisemitismo diffuso, sapendo che non si tratta di un compito né di breve momento né facile, sia per le sue radici profonde plurisecolari, sia perché, come ha affermato Georges Bensoussan, esso pertiene alla sfera della passione piuttosto che a quella della ragione, ed è pertanto particolarmente laborioso e difficile superarlo, non essendo sufficiente una spiegazione razionale.
Il Congresso di Sinistra per Israele affronterà le questioni poste, lo farà in modo plurale ma unitario, dialettico ma senza fratture. Sarà un laboratorio politico e un laboratorio della politica della sinistra.
Il Congresso visto da Milano
Giorgio Albertini
Negli spazi di via De Amicis, che da decenni ospitano le riunioni di SpI, si è svolta giovedì 16 gennaio l’assemblea precongressuale della sezione milanese presieduta da chi scrive. I lavori si sono aperti con una quarantina di partecipanti iscritti che hanno ascoltato un mio breve rendiconto sullo sviluppo dell’associazione nell’ultimo anno e sulle attività nazionali. È quindi intervenuta la tesoriera Donatella Capirchio che ha relazionato sullo stato dei tesseramenti, dei finanziamenti e della necessaria ristrutturazione del sito. Entrando nel vivo del dibattimento, il Presidente Nazionale Lele Fiano ha introdotto generosamente il tema della serata relativo soprattutto alle tesi congressuali allargando il commento, con uno sguardo generale, alla situazione politica in continuo cambiamento in Medio Oriente e alla necessità di un nostro lavoro quotidiano non solo per contrastare le derive anti israeliane e anti semite -a sinistra ma non solo- ma anche, per quanto ci è possibile, di farci promotori di dialogo tra i contendenti del conflitto. L’on. Lia Quartapelle ha riferito ampiamente lo stato dei rapporti internazionali della nostra associazione in relazione ad una possibile futura creazione di un network di partiti e associazioni di area socialista e progressista che condividono i nostri scopi e nello specifico alla partecipazione di invitati esteri al Congresso nazionale.
Luciano Belli Paci è intervenuto rafforzando l’approfondimento sulle tesi e allargando il discorso alla situazione paradossale dello sguardo strabico di parte della sinistra in relazione ai grandi conflitti di oggi, Ucraina e Gaza, richiamando la necessità cogente di lavorare su tale insostenibile contraddizione.
Si è aperto quindi il dibattimento con gli interventi attenti e puntuali dei soci tra gli altri di Marco Krivacek, Giancarlo Gazioli, Daniele Bonifati, Martino Kahan, Yosef Jona, Martin Eber, Fabio Lopez e Marco Cavallarin.
Tra le molte idee segnaliamo l’esigenza di creare più stretti rapporti con l’associazionismo sensibile ai nostri temi, con l’Hashomer Hatzair e con quelle parti del mondo ebraico che non si sentono sincrone alla monolitica acriticità verso il governo israeliano dei rappresentanti delle comunità, nello specifico di quella milanese.
Ci siamo quindi salutati con l’auspicio di una degna affluenza di soci della nostra sezione all’imminente Congresso nazionale di Roma.
Il Congresso visto da Firenze
Marco Pierini
Il congresso di Sinistra per Israele avviene in un momento di enorme trasformazione dei rapporti tra il mondo progressista e lo Stato ebraico: l’atroce massacro del 7 ottobre, le tante vittime e le enormi sofferenze di Gaza, il crescente antisemitismo nelle società occidentali, l’emergere di una sinistra sempre più sorda dinanzi alle necessità reali di Israele, una destra israeliana sempre più radicale e aggressiva e sempre meno democratica, un fronte palestinese in convulsione e dominato dall’islam politico e dalla pratica terroristica e un mondo arabo in ricomposizione sono tutti fattori che impongono una riflessione lucida e coraggiosa allo stesso tempo. È con la consapevolezza di questa sfida titanica che Sinistra per Israele decide di celebrare il suo congresso nazionale: un congresso rifondativo, dettato dalla volontà di ricordare alla sinistra italiana che abbandonare Israele alla destra costituisce un tradimento dei propri valori storici e che è proprio in questo momento che c’è l’urgenza di riconoscere le due ragioni, i due diritti che vivono in Israele e in Palestina.
Il primo: Israele come Stato ebraico e democratico, nato nello spirito del sionismo come movimento di liberazione nazionale degli ebrei, ha il diritto e il dovere di esistere e di prosperare senza la minaccia del terrorismo, senza la minaccia delle guerre per procura, in pace con i suoi vicini e senza che il diritto collettivo ebraico all’autodeterminazione sia messo costantemente in discussione.
Il secondo: i palestinesi hanno diritto di autodeterminarsi, hanno diritto a un proprio Stato che accetti di vivere in pace con Israele, senza occupazione militare, senza insediamenti israeliani che ne pregiudichino l’integrità, al riparo dalla violenza dei gruppi estremisti israeliani ma anche libero dall’ideologia del massimalismo e del terrorismo.
E se è vero che, proprio mentre le scrivo, queste cose appaiono lontane, offuscate dagli opposti estremismi, è altrettanto vero che è obbligo morale per la sinistra italiana, europea e occidentale il perseguirle con ogni mezzo e con il coraggio che una sfida così scomoda richiede. Non è tuttavia questa l’unica ragione per cui celebrare il congresso di Sinistra per Israele diviene un’urgenza di questo tempo. Accanto alle motivazioni politiche che accompagnano la nostra iniziativa sul Medio Oriente, sui rapporti con Israele e con i palestinesi, è ormai improrogabile una sfida alla sinistra sui temi dell’antisemitismo e della “questione ebraica”.
on accettiamo che il rapporto con l’ebraismo sia rimosso dall’orizzonte ideale della sinistra, che gli ebrei siano rimossi dall’interlocuzione con i partiti progressisti, che si tollerino più o meno esplicite manifestazioni di antisemitismo e che per convenienza ci si nasconda dietro il paravento della critica allo stato d’Israele. Sinistra per Israele si batte contro le politiche di occupazione e di annessione del governo Netanyahu nei territori palestinesi e sostiene i partiti e le associazioni israeliane che da due anni scendono in piazza contro le politiche dell’attuale maggioranza di governo. Utilizzare l’espediente della “genocide inversion” per risolvere i conti in sospeso dell’Occidente con la Shoah e accusare gli ebrei di essere come i propri carnefici, sostenere che Israele sia uno Stato illegittimo, attaccare i sopravvissuti della Shoah, scendere nelle piazze in cui si incita alla violenza contro gli ebrei, ignorare i pericoli a cui le comunità ebraiche sono sottoposte non ha niente a che vedere con la critica alle politiche dello Stato d’Israele, ed è arrivato il momento che la sinistra – la nostra sinistra – abbia il coraggio di dire parole chiare, di ristabilire rapporti con le comunità, di estirpare il pregiudizio. Non perché non ve ne sia, di antisemitismo a destra, ma perché il pregiudizio anti-ebraico di destra e la falsa alleanza della destra con Israele non sono buone scuse per non fare pulizia in casa propria.
Da questo punto di vista, la classe dirigente della sinistra ha la responsabilità di guidare e non inseguire i sentimenti viscerali che albergano da questa parte del campo politico, col coraggio di indicare a tutti – soprattutto ai più giovani, a chi fa militanza nelle associazioni studentesche e nelle giovanili dei partiti di sinistra – che la via della pace si costruisce riconoscendo i diritti di entrambi i popoli e avendo cura e conoscenza del peso della storia che sta alle spalle del rapporto tra politica europea e mondo ebraico, per non commettere antichi errori, per avere il senso della storia in cui siamo immersi, per costruire un futuro di pace e reciproco riconoscimento.
Questo è lo spirito con cui ci avviciniamo all’appuntamento del congresso e queste sono le urgenze che viviamo come motore del nostro impegno politico, convinti ora più che mai che serva sostenere chi – in Israele e in Palestina – vuole archiviare questo violento gioco a somma zero in cui prosperano gli estremismi.
Il Congresso visto da Roma
Valentina Caracciolo
A Roma l’8 e il 9 febbraio il Congresso nazionale, impegno e orgoglio.
Mentre scriviamo, la tregua è stata dichiarata e le prime soldatesse vengono rilasciate. Difficile descrivere l’emozione per quanto sta accadendo. La tregua è fragile e il dolore accumulato in questi mesi, dalle famiglie degli ostaggi ma anche da chi guarda da lontano con occhi partecipi, è gigantesco. Così tanto per cui sarebbe facile entrare a far parte di una delle tante tifoserie che nei due anni dal 7 ottobre ’23 hanno impiegato molto fiato per discutere senza discernimento. Sarebbe facile anche di fronte alle scene di tragica esultanza da parte di soldati di Hamas mascherati e armati fino al collo.
Eppure la scelta di aderire e impegnarsi con Sinistra per Israele, in particolare qui a Roma dove le dinamiche e i meccanismi di confronto e discussione spesso deflagrano in maniera più evidente che altrove, ha a che fare proprio con la capacità e lo sforzo di cercare un confronto non solo aperto, civile, fuori dalle opposte tifoserie appunto, ma basato innanzitutto su dati e fatti reali.
Il 15 dicembre scorso SxI Roma ha tenuto il suo congresso cittadino, che ha votato il nuovo coordinamento per dare alla associazione una organizzazione sul territorio che sia efficace e funzionale alla realizzazione degli obiettivi che ci si è dati. Una discussione qualificata e qualificante, durata alcune ore, come nella successiva assemblea degli iscritti del 19 gennaio, nel corso della quale sono state esaminate e discusse le tesi alla base del nostro congresso nazionale dell’8 e 9 febbraio prossimi.
Roma ha la grande responsabilità, e onore soprattutto, di organizzare in particolare la logistica del Congresso. Che ha la sua fondamentale importanza, in considerazione della delicata fase politica e il contesto non “sereno”, usando un eufemismo.
Un dato interessante, per altro, è che la sede dei lavori è collocata in quartiere nel quale è presente una Comunità forte e attiva, e due delle tre Sinagoghe del Municipio II. A questo proposito, è bello anche sottolineare come dalla collaborazione tra l’Amministrazione Municipale e la Comunità sia in fase di realizzazione un progetto molto importante: il Municipio II sarà il primo nella città ad avere un suo eruv, come a Venezia e New York.
A proposito di antisemitismo, uno dei temi che spesso emerge dal confronto e nelle iniziative è non solo la questione dell’antisemitismo in sé e l’alibi che spesso traspare nella discussione di dichiararsi antisionisti (e non antisemiti), ma anche la necessità non più rinviabile di lavorare per cambiare il linguaggio che si usa quando si discute di Israele e Palestina, e soprattutto della guerra che si protrae da dopo il 7 Ottobre. Genocidio, in particolare, è una parola delicata, che ha un tragico significato preciso; una parola, soprattutto, che se usata in malo modo rischia non solo di accusare Israele di nefandezze che vanno ben oltre i crimini di guerra, ma soprattutto di ridimensionare l’orrore del genocidio degli ebrei, dei rom, degli omossessuali nel secolo scorso.
“Noi nasciamo per diffondere conoscenza e spirito critico, capacità di rispettare le idee degli altri – ha scritto la professoressa Alessandra Tarquini, storica e studiosa di ebraismo e antisemitismo a proposito di ruolo degli intellettuali e delle Università, ma riteniamo che la citazione si presti bene a descrivere il nostro impegno – e di assumere un punto di vista forte e credibile perché fondato sul sapere. Per questo, anche di fronte al peggior governo della storia di Israele, condannato a subire il giudizio del suo popolo, che dopo ottanta anni vive oggi una catastrofe, prendiamo posizione e combattiamo contro l’antisemitismo intorno a noi”.
Sinistra per Israele a Roma è impegnata anche su un altro importante obiettivo, e il Congresso può essere una grande occasione, cioè aprire un dialogo, e renderlo costante, con le realtà sociali e politiche della città, dall’associazionismo laico e cattolico alle forze politiche che si collocano nel perimetro della sinistra cittadina. Un quadro anche variegato nelle posizioni, da non dare per scontato. E certo, faremo anche la nostra parte nel rapporto e nel sostegno alla sinistra israeliana, ai nuovi Democratici nati dalla fusione di Meretz e Partito Laburisti. Una trasformazione della quale forse abbiamo discusso ancora poco.
Dal 3 febbraio del 2024, giorno in cui Sinistra per Israele Roma è ri-partita, abbiamo fatto molta strada. Gli oltre 100 iscritti ad oggi sono frutto di un lavoro faticoso ma appassionante, e di un impegno e un desiderio di impegno diffuso tra le persone che evidentemente sono molte più di quelle che possiamo pensare presi, tanto spesso, da un clima di ostilità e di mancanza di obiettività nel discutere una questione tanto delicata come il Medio Oriente.
Il Congresso visto da Torino
Ludovica de benedetti
Il 23 gennaio si è costituita a Torino, presso il Polo del ’900, la sezione di Torino e Piemonte di Sinistra per Israele (SxI). L’evento ha visto circa 50 partecipanti e ha registrato l’adesione all’Associazione di altre 20 persone per un totale, ad oggi, di 38 iscritti. Un segnale positivo e incoraggiante per il rafforzamento di Sinistra per Israele sul territorio, in un momento storico in cui la complessità del quadro socio-politico del Medio Oriente e la preoccupante crescita dell’intolleranza e dell’antisemitismo anche in Europa e in Italia richiedono una riflessione profonda e condivisa.
L’incontro è stato aperto e moderato da Piero Fassino, che ha ribadito il ruolo e la missione di Sinistra per Israele come associazione laica e progressista, costituita da ebrei e non ebrei, che si batte per una pace giusta e duratura fondata sul reciproco riconoscimento dello Stato palestinese e di Israele e sulla convivenza pacifica fra i due popoli.
Fassino ha richiamato le principali sfide che Sinistra per Israele intende affrontare, individuando tre obiettivi prioritari: promuovere il processo di pace basato sulla soluzione dei due popoli e due stati, sia attraverso un dibattito nella società italiana, sia favorendo dialogo con realtà israeliane impegnate per la pace; contrastare le letture ideologiche e i pregiudizi che semplificano o distorcono la realtà del Medio Oriente, riducendo Israele alle sole azioni del governo Netanyahu; lottare contro ogni forma di antisemitismo, antisionismo e antiebraismo, fenomeni in crescita.
Un tema particolarmente urgente emerso nel corso della discussione è stato proprio il preoccupante aumento di episodi di intolleranza e antisemitismo, anche a livello locale. Fenomeno aggravato da un clima di polarizzazione politica e culturale, dove narrazioni unilaterali tendono a criminalizzare Israele, ignorando le complessità storiche, culturali e sociali del conflitto mediorientale. L’antisemitismo moderno si manifesta non solo in forma diretta, ma anche attraverso stereotipi e pregiudizi che banalizzano il conflitto israelo-palestinese. Per affrontare queste problematiche, sono state avanzate diverse proposte, tra cui l’organizzazione di attività di sensibilizzazione e campagne informative – in primo luogo verso il mondo studentesco e universitario – e il rafforzamento delle collaborazioni con altre associazioni e realtà del territorio e la creazione di spazi di dialogo aperti e plurali.
Un altro punto centrale del dibattito ha riguardato la necessità di favorire una maggiore consapevolezza all’interno della sinistra italiana, spesso divisa sul tema del Medio Oriente e di promuovere un dialogo più ampio e inclusivo con giovani, scuole e università, dove talvolta si riscontrano posizioni estremiste e una conoscenza limitata della storia e della complessità del contesto mediorientale. Un’educazione più informata e approfondita può contribuire a decostruire stereotipi e a formare una generazione più consapevole e aperta al dialogo.
Nell’incontro è stata sottolineata l’importanza di strutturare Sinistra per Israele a livello territoriale, con la costituzione di sezioni nelle principali città italiane, per rafforzare l’azione politica e culturale dell’associazione. La nascita della sezione piemontese vuole essere un segnale chiaro e forte: esiste una sinistra che non rinuncia a perseguire le ragioni della convivenza e del dialogo, opponendosi sia alle radicalizzazioni ideologiche che al cinismo politico di chi strumentalizza il sostegno a Israele per meri fini elettorali. A questo fine, il rafforzamento dell’impegno sui territori è fondamentale per costruire una rete capillare che sia in grado di affrontare le sfide poste dall’antisemitismo e dalla polarizzazione del dibattito politico.
Per Sinistra per Israele, il futuro passa dalla capacità di unire azioni locali e riflessioni globali, con un approccio che coniughi pragmatismo e valori ideali. Solo attraverso una partecipazione sempre più ampia sarà possibile decostruire l’antisemitismo e riaffermare i valori della giustizia sociale, della convivenza pacifica e della solidarietà, costruendo una piattaforma che sappia dare voce a una sinistra che crede nella pace e nella convivenza attraverso il dialogo, il riconoscimento reciproco e la cooperazione.
Sezioni territoriali
Bologna | luc.alessandrini@gmail.com |
Firenze | sinistraperisraelefirenze@gmail.com |
Genova | ariel.dellostrologo@gpdlex.com |
Milano | sinistraxisraelemilano@gmail.com |
Roma | sinistraxisraeleroma@gmail.com |
Torino | sinistraxisraeletorino@gmail.com |
LETTURE & RILETTURE
Saul Meghnagi
Con questo numero la Newsletter inaugura una nuova rubrica. Essa si propone di presentare idee, suggestioni, indicazioni utili al dibattito in corso sul conflitto in Medio Oriente e all’analisi che guida l’azione di “Sinistra per Israele”. Intende farlo utilizzando pubblicazioni recenti e meno recenti, per porre domande su problemi complessi. Non si tratterà quindi di recensioni, pur suggerendo letture ritenute importanti.
“La fine di Israele è cominciata. Si sono incrinati i pilastri che finora hanno sostenuto questo Paese persino al di là di persuasioni, dissensi e giudizi negativi. Quei pilastri erano l’opinione pubblica dell’Occidente, il cambiamento del mondo islamico, il sostegno americano, l’imminenza – o almeno la realistica speranza – di una qualche forma di pace o di convivenza con la Palestina. Opinione pubblica dell’Occidente non vuol dire sostegno e amicizia. Vuol dire constatazione e accettazione del fatto che Israele esiste, come il Bangladesh, come Timor Est.” (Colombo, 2024, p.33)
Sono queste le parole di Furio Colombo, in un libro, recentemente ripubblicato, “La fine di Israele” (Baldini+Castoldi, Milano 2024, prima edizione Il Saggiatore, Milano 2007). Il testo – che precede di molti anni pubblicazioni attuali dai titoli simili – è mosso da motivazioni diverse da quelle di altri lavori più recenti, centrati prevalentemente sulle politiche e sulle azioni di Israele. L’Autore denuncia, con severità e amarezza, le responsabilità della sinistra rispetto al futuro dello Stato ebraico.
Furio Colombo stabilisce un legame significativo tra la sinistra antifascista e la nascita di Israele, assumendo una posizione inequivocabile: le molte guerre mosse dai paesi arabi non avevano altro scopo che “la cancellazione di Israele”, parallela a una “catena di guerre mediatiche fortunate che dura ancora, perché …l’invenzione odiosa della lobby ebraica – che domina il mondo e fomenta le guerre – era stato seminato, raccolto e distribuito a cura del fascismo e del razzismo di tutta Europa, penetrando a fondo soprattutto gli strati popolari meno raggiunti dalla conoscenza della storia […] la sinistra del mondo, la sinistra europea e – con vera passione – la sinistra italiana, dai militanti più convinti ai più tiepidi, ha abbracciato l’immagine, e interiorizzato la persuasione di una guerra coloniale di ebrei organizzati e potenti…” (Colombo pp.41 – 42)
’analisi, sofferta, dell’autore porta a concludere, – come accennato, diciassette anni fa – che la sopravvivenza, auspicabilmente pacifica, di Israele sia legata a due conflitti, uno dipendente dalle dinamiche proprie del confronto politico militare, l’altro ideologico e culturale. La situazione odierna è certo diversa da quella di allora. Riflettere sulle parole di Colombo – di fronte alla durezza degli eventi iniziati con il 7 ottobre 2023 – è, tuttavia, importante per coloro che vogliono difendere il diritto di Israele a esistere, pur criticando l’operato del suo governo attuale.
Lo fanno Marcello Flores e Giovanni Gozzini (“Perché la guerra”, Laterza, Bari, 2024) scrivendo, in modo chiaro: “A noi sembra…un errore l’equiparazione di Israele a un settler colonialism, il colonialismo tipico degli imperi europei e degli Stati Uniti ai danni dei nativi…perché…esiste comunque una precedente presenza ebraica nella regione (Gesù Cristo, per non dire altro) …” (Flores Gozzini, 2024, p.81).
Scrivono i due autori, non riferendosi al solo Medio Oriente: “…ogni guerra è un processo politico, che implica due cose: la formazione di una scelta collettiva tra vertici governativi e vertici militari…e la mobilitazione di decine di centinaia di migliaia di uomini, convinti a rischiare la pelle attraverso incentivi, sanzioni, racconti più o meno immaginari…” (Flores Gozzini, 2024, p.16)
I soldati – sottolineano – non sono né eroi senza paura né serial killer. “Al di là di ogni retorica e propaganda, il sentimento di gran lunga dominante in un conflitto armato è la paura.… Ogni guerra…si appoggia e fa leva su un “richiamo della foresta” efficace nel convincere e mobilitare personalità fragili, protette dal conformismo e dal senso di appartenenza, quindi autoritarie, bisognose di nemici e poco disposte al confronto” (Flores Gozzini 2024, p. 21).
La modalità con cui discutere del conflitto in corso tra israeliani e palestinesi impone, per tutto ciò, una disamina di tutte le variabili e le posizioni delle forze in campo. Tale disamina è complicata, ma necessaria: la sinistra, con tutti i democratici, può dare il proprio contributo se non opera, esclusivamente, scegliendo una posizione di schieramento, ma discutendo – con attenzione e sensibilità – alla sofferenza, al dolore, alle memorie, alle paure, alle ferite recenti e remote di tutte le parti in campo, oltre a quello delle realtà comunitarie e culturali, anche nel nostro Paese, legate all’una o all’altra delle forze che si combattono.
F. Colombo La fine di Israele (Baldini e Castoldi, 2024, euro 18) |
M. Flores-G. Gozzini Perché la guerra (Laterza, 2024, 20 euro) |
RASSEGNA STAMPA
Simone Santucci
Si ringrazia Radio radicale per la collaborazione
nell’aiutare a far conoscere la Newsletter di SxI
- I rischi dell’accordo con Hamas
(Il Foglio, 13.1.25) - I curdi cercano un’alleanza con Israele
(Haaretz, 14.1.25) - Edith Bruck su Furio Colombo
(Radio radicale, 14.01.25) - Confronto A. Foa-G. Segre
(La Stampa, 15.1.25) - Ritorno al kibbutz
(Corriere della sera, 16.1.25) - Accordi di Abramo e Gaza
(Piero Fassino su Formiche) - M. Walzer sulla tregua
(Corriere della sera, 17.1.25) - Intervista a Edith Bruck
(Corriere della sera, 19.1.25) - I ritardi del sindaco Lepore a Bologna
(Il Foglio, 21.1.25) - ANP contro Hamas in Cisgiordania
(Repubblica, 23.1.25) - Insulti e minacce a Liliana Segre, rinuncia alla visita al memoriale (open, 23.1.25)
- Intervista a Sari Nusseibeh
(Repubblica, 24.1.25) - Intervista a Luciano Belli Paci
(Repubblica, 25.1.25) - L’amarezza di Liliana Segre
(Huffington post, 25.1.25) - Intervista a Emanuele Fiano
(Il Giorno, 26.1.25) - Intervista ad Ariel Dello Strologo
(Repubblica, 27.1.25)
ERRATA CORRIGE
Nello scorso numero di gennaio (Newsletter n°8) nell’intervista a Mario Giro,
il riferimento alla II Guerra Mondiale va inteso alla I Guerra Mondiale.
Ci scusiamo per il refuso con i lettori e l’interessato.
REDAZIONE
Massimiliano Boni direttore editoriale | Giorgio Albertini copertina e illustrazioni | Victor Magiar editing, impaginazione e diffusione |
In redazione
Alessio Aringoli, Donatella Capirchio, Ludovica De Benedetti,
Piero Fassino, Emanuele Fiano, Anna Grattarola, Fernando Liuzzi,
Simone Oggionni, Simone Santucci, Lia Tagliacozzo.
CONTATTI
https://www.sinistraperisraele.com/
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