La Newsletter Speciale Congresso
NUMERO SPECIALE
Editoriale
• L’orrore dei bambini straziati da Hamas non zittisca la sinistra.
Emanuele Fiano
Analisi e commenti
• Oltre il cessate il fuoco.
Piero Fassino
• Vivere nel caos e nella follia.
Manuela Dviri
• Il PD si batta contro i radicalismi e per il riconoscimento di due popoli per due Stati.
Intervista a Walter Verini
• Un gruppo ebraico all’interno della SPD.
Intervista ad Abraham De Wolf
• Per Israele, quindi per la pace con i palestinesi.
Intervista a Jon Pearce
Speciale Congresso Nazionale
• Intervento di Emanuele Fiano
• Intervento di Piero Fassino
• Intervento di Daniel Cohn-Bendit
• Intervento di Yair Golan (Democrats – Israele)
• Intervento di Bernard Sabella (Autorità Nazionale Palestinese)
• Messaggio di saluto dell’Ambasciatore di Israele
• Testimonianza Donatella Capirchio
• Testimonianza Samuele Vianello
• Testimonianza Maurizio Melani
• Testimonianza Anna Segre
• Risoluzioni approvate dal Congresso: gli Organi
• Risoluzioni approvate dal Congresso: lo Statuto
• Risoluzioni approvate dal Congresso: le Tesi
Letture e riletture
Saul Meghnagi
Rassegna stampa
Simone Santucci
Redazione
Contatti
EDITORIALE
Emanuele Fiano
Riproduciamo in questa pagina l’articolo di Emanuele

Fiano con cui il 22 febbraio 2025 si è inaugurato
il blog di Sinistra per Israele sull’Huffington Post.
EDITORIALE
Emanuele Fiano
Riproduciamo in questa pagina l’articolo di Emanuele
Fiano con cui il 22 febbraio 2025 si è inaugurato
il blog di Sinistra per Israele sull’Huffington Post.
L’orrore dei bambini straziati da Hamas non zittisca la sinistra.
“Entrò non visto il gran Priamo, e standogli accanto strinse fra le sue mani i ginocchi d’Achille” Così ha inizio nell’Iliade il brano in cui Priamo, umiliandosi di fronte al nemico Achille, richiede il corpo del figlio Etore, ricordando al nemico assassino suo padre, per intenerirlo, invocando pietà, per permetergli di riavere le spoglie del figlio amato e perduto da onorare. A quel Priamo ho pensato, immaginando il padre dei fratellini Bibas. La pietà per i morti, l’onore delle spoglie. Fondamenti di civiltà. Che sono apparsi perduti in questi giorni.
Così in queste ore, di tremendo spettacolo, di pornografia della morte inscenata da Hamas, di esibizione delle bare nere di bambini e della loro madre, anzi non la loro madre, come ultimo insulto, come stabilito dall’Istituto di medicina legale israeliana, ma di una sconosciuta, ad accompagnare i bambini, lì in quel circo di morte, dove a bambini palestinesi innocenti viene ordinato di assistere allo spetacolo dei bambini nemici uccisi e ostentati, pietà invece l’è morta.
Non sarebbe potuta essere più scioccante la conclusione della prima fase della tregua tra Israele e Hamas; atroce conclusione di una guerra già atroce. Sono giorni tremendi dunque, dove ogni speranza appare sepolta, dove l’odio devasta e la tregua appare una parentesi breve destinata a finire in un conflitto infinito. Ma è ora, non può che essere ora, che chi ha nella mente un pensiero di pace, di progresso e giustizia, deve aggrapparsi a quei valori per costruire un percorso, un lavoro di incontro.
È ora che vorrei sentire la voce possente della sinistra mondiale, che non sento, denunciare senza tregua la disumana ferocia di Hamas, il suo osceno spettacolo contrario alla civiltà. Vorrei sentire la sinistra dichiarare che non potrà essere Hamas protagonista del governo di Gaza e della pace, dopo che per mesi, legittimamente, il fronte progressista nel mondo ha denunciato le migliaia di vittime e la distruzione della guerra di Gaza e prima quelle del pogrom del 7 Ottobre.
Solo uno sguardo capace di individuare, in quella terra di sangue, che due diritti si scontrano, e non un diritto ed un torto, può dare un suo contributo alla pace,solo la capacità di informare ogni azione politica esterna, a questo equilibrio, può essere una vera protagonista di pace.
Anche per questo, secondo me, il riconoscimento dello Stato di Palestina, prodotto non dallo sviluppo di una trattativa tra le parti in causa, ma come posizione unilaterale di uno Stato terzo vale sostanzialmente nulla nello sviluppo del conflitto, e anzi rende unicamente come simbolo identitario di chi lo approva, cioè vale per sé e non per gli sventurati di quella guerra, il che dovrebbe far riflettere, oggi, a maggior ragione, di fronte alla dimostrazione di forza e ferocia di Hamas, per ragionare,su quale significato assuma confermare la formula, che io ancora oggi confermo, e a cui in molti da sempre ci appelliamo; due popoli due Stati.
In un mondo in cui una nuova destra, agguerritissima e miliardaria, populista, e dissacrante, sta galoppando dietro a Trump e Musk, quando anche forze che dovrebbero far parte dello schieramento progressista si distaccano dalla linea contro Putin e a favore dell’Ucraina, e mentre la sinistra mondiale appare in difficoltà estrema (democratici americani, Spd,sinistra riformista francese, sinistra israeliana solo per fare un esempio) chi come noi da anni si occupa di contribuire a realizzare condizioni di pace in Medio Oriente, da si nistra, ha forse acquisito uno sguardo diverso. Più lungo, più incline a riconoscere anche gli errori della propria parte oltre che a contrastare unicamente quelli della parte avversaria.
ANALISI e COMMENTI
Oltre il cessate il fuoco
Piero Fassino

L’organizzazione che presiedo, Sinistra per Israele, crede nel dovere di organizzare sempre occasioni e prese di posizioni che raccolgano insieme i due fronti, che li facciano parlare; è quanto abbiamo realizzato per primi dal 7 Ottobre 2023, nel nostro recente congresso, a cui hanno partecipato Yair Golan, segretario dei Democratici in Israele e Bernard Sabella rappresentante dell’ANP presso il Consiglio d’Europa. Bisogna far parlare le parte. Come la storia dimostra, solo questo può servire. Noi crediamo che la sinistra, le tante sinistre, se davvero vogliono, come noi vogliamo convintamente, che un giorno nasca lo Stato di Palestina accanto allo Stato di Israele, dovrebbero agire per costruire un dialogo, per esserci oggi e domani, a fianco degli uni e degli altri. Mai per dare l’impressione di riconoscere una parte sola. Per non trovarci mai più come Priamo ad invocare pietà per il corpo di suo figlio dopo che la tra gedia si è già compiuta. Nonostante ripensamenti, battute di arresto, forzature strumentali, reciproche minacce, il cessate il fuoco a Gaza per ora regge, la liberazione degli ostaggi procede (anche se con tempi esasperanti), l’inoltro degli aiuti umanitari è quotidiano e con dimensioni rilevanti, il rientro della popolazione palestinese ai loro domicili è costante (anche se la grande quantità di edifici distrutti dalla guerra impone un piano di emergenza che offra a ogni famiglia un ricovero). Nulla tuttavia va dato per scontato e dunque occorre che la comunità internazionale mantenga una pressione perché le prime due fasi previste dall’accordo – essenzialmente dedicate allo scambio degli ostaggi con detenuti palestinesi e alla riduzione della presenza militare di Israele – vengano applicate pienamente. Il punto non risolto tutavia è cosa accadrà nella terza fase quando dovranno essere definiti il piano di ricostruzione di Gaza e chi lo gestirà. Sarà un passaggio dirimente perché la soluzione che si darà a Gaza influirà anche sulla soluzione definitiva di pace e sulla prospettiva di “2 Stati per 2 Popoli”.
Se è positivo che Abu Mazen abbia dichiarato la disponibilità dell’ANP ad assumere la guida della Striscia, non mancano molti interrogativi: sarebbe l’ANP in grado di garantire una guida sicura a Gaza? Hamas la contesterebbe organizzando una lotta all’ANP o l’accetterebbe opportunisticamente per poter riorganizzare le proprie strutture decimate dalla guerra? O addirittura proporrebbe una gestione comune (come evocato da una dichiarazione Al Fatah-Hamas di qualche tempo fa)? E in ogni caso quale sarebbe l’atteggiamento del governo Netanyahu di fronte ad assetti che, direttamente o indirettamente, vedano una presenza di Hamas? Per contenere i rischi di una nuova spirale di tensioni e conflitti, l’accordo di cessate il fuoco prevede un ruolo di garanzia della comunità internazionale, senza tuttavia definirne i caratteri. Si è evocato un ruolo dei paesi arabi “moderati” (Egito, Giordania, Arabia Saudita,5 Emirati) guidati da Riyad. Alcuni Paesi europei, tra cui anche l’Italia, hanno manifestato disponibilità’ a concorrere a misure di sicurezza. Altri hanno evocato un ruolo delle Nazioni Unite, anche se sono note le diffidenze israeliane nei confronti del Palazzo di Vetro. Su queste diverse ipotesi è piombata come una bomba la proposta di Trump di trasformare Gaza in una “Abu Dhabi mediterranea”, evacuando l’intera popolazione palestinese per ricollocarla nei Paesi arabi. Ipotesi immediatamente rigettata non solo dalla popolazione palestinese, ma dalla gran parte della comunità internazionale, in primis proprio da tutti i Paesi arabi che si riuniranno a Il Cairo tra pochi giorni per contestare quella proposta e avanzare un loro piano di pace. Le soluzioni per Gaza conducono necessariamente al tema centrale: quale pace e quale prospettiva per la creazione di uno Stato palestinese. Netanyahu e l’attuale maggioranza di destra fino ad oggi hanno rifiutato quella prospettiva. Nonostante i colpi inferti ad Hamas e ad Hezbollah, finora non appaiono segni che il governo israeliano intenda aprirsi a un diverso orientamento. Peraltro il massacro del 7 ottobre e 15 mesi di guerra – e perfino le modalità belliciste con cui Hamas esibisce la liberazione degli ostaggi – hanno prodotto nella società israeliana, perfino in una parte di coloro che per anni si sono battuti per una soluzione di convivenza, la paura che una volta creato lo Stato palestinese, ne prendano la guida Hamas e i gruppi radicali. Timore non infondato alla luce della fragilità dell’ANP e del radicamento di Hamas a Gaza e in Cisgiordania.
Il rischio dunque è che, al di là del cessate il fuoco, una ipotesi di soluzione condivisa non ci sia. Anche qui è perciò indispensabile un’iniziativa internazionale che sblocchi l’impasse e riapra la strada a un percorso di pace. E un ruolo centrale lo possono avere ancora una volta i paesi arabi “moderati” guidati dall’Arabia Saudita, gli unici in grado di offrire una doppia garanzia: ai palestinesi che avranno finalmente il loro Stato; a Israele che più nessuno metterà in discussione la sua esistenza e la sua sicurezza. D’altra parte l’annuncio che l’incontro tra Trump e Putin avverrà in Arabia Saudita rende evidente quanto Riyad sia oggi crocevia essenziale per i processi di pace. Naturalmente nel ridefinire gli assetti del Medio Oriente altri protagonisti incideranno. Importante è se la sconfita di Hezbollah, la elezione del presidente Aoun e la formazione di un nuovo governo consentiranno la stabilizzazione del Libano. Così come decisivi saranno gli sviluppi della situazione siriana dopo l’abbatimento della dittatura del clan Assad. E naturalmente peserà il posizionamento dell’Iran, oggi più debole per le sconfitte di Hamas e Hezbollah, ma anche per il manifestarsi di una riduzione di consenso interno. Sullo scacchiere mediorientale agiscono poi altri significativi attori: la Turchia che non fa mistero di contendere all’Arabia Saudita la leadership del mondo sunnita; la Russia che, perso il caposaldo siriano, sarà sollecitata a ridefinire la propria proiezione mediterranea; la stessa Cina non indifferente a ciò che accade in una regione di cerniera tra l’Asia e l’Africa, continenti strategici per Pechino. E naturalmente decisivo sarà il posizionamento degli Stati Uniti: Biden e Blinken si erano fortemente spesi per arrivare alle tregue in Libano e a Gaza ed evitare la regionalizzazione del conflitto. Quale sarà ora l’ateggiamento di Trump? In questo scenario anche l’Unione europea è chiamata ad agire, uscendo da una condizione di afasia, del tutto contradditoria con il fatto che la UE è il principale finanziatore dell’ANP e il principale partner commerciale di Israele. E, attraverso i Paesi UE coinvolti, il principale contributore della missione Unifil. Un peso a cui non è corrisposto fin qui un ruolo nella costruzione di soluzioni di stabilità e pace. Eppure la prossimità geografica, l’intensità di relazioni in ogni campo, l’interesse comune alla stabilità del Mediterraneo e del Vicino Oriente impongono all’Europa un ruolo attivo e protagonista che non può essere delegato ad altri. È tempo dunque che anche l’Europa si metta in gioco
Il PD si batta contro i radicalismi e per il riconoscimento di due popoli per due Stati.
Intervista a Walter Verini di Massimiliano Boni

Perché hai scelto di iscriverti a Sinistra per Israele proprio ora?
Innanzituto perché c’era l’appuntamento congressuale. In generale, da sempre sostengo l’idea di due Stati per due popoli, che significa il diritto alla sicurezza per Israele e il diritto ad una patria per il popolo palestinese. Inoltre, nella mia vita e nel mio impegno politico istituzionale e poi anche come parlamentare eletto nella mia regione, l’Umbria, ho sempre fatto l’esperienza della marcia della pace Perugia-Assisi, che nella sua che nella sua essenza voleva raggiungere proprio quell’obiettivo, anche se poi c’è stato un periodo in cui a volte non mi sono riconosciuto con un’impostazione a mio avviso non equilibrata nel leggere il conflitto mediorientale. Ma l’elemento fondamentale è stata la ripresa dell’antisemitismo, anche prima del 7 ottobre. Che richiede una risposta forte che tutti dobbiamo dare. Insomma, l’insieme di questi elementi mi ha portato a partecipare al Congresso e ad iscrivermi. È importante un’associazione come Sinistra per Israele, che si batte a sinistra per la sicurezza dello Stato ebraico e per la nascita di uno stato palestinese, passando per una critica molto dura la politica del governo Netanyahu. Dopo oltre 16 mesi di guerra adesso c’è una fragilissima tregua. Quali prospettive immagini per il futuro?
Come tutti anche io sono molto preoccupato per la fragilità di questa tregua. Non dimentichiamo, infatti, che ci sono ancora forze potenti, non solo Hamas, ma anche l’Iran, che fanno della distruzione di Israele il loro obiettivo. Il 7 ottobre è stato il più grande massacro di civili israeliani, che sono stati colpiti in quanto ebrei con una logica che ricorda quella della Shoah. La reazione del governo Netanyahu è stata inaccettabile, con effetti intollerabili anche per chi, come me, sostiene il diritto di Israele alla difesa. Non si ammazzano migliaia di bambini e di civili, anche se nella striscia erano evidenti le presenze visibili e sotterranee dei terroristi di Hamas, principali nemici dei diritti del popolo palestinese. Tuttavia, la risposta dell’esercito israeliano, per quanto crudele, non può essere paragonata alla Shoah, o a un genocidio. Di genocidi, nel Novecento ce ne è stato uno. Se proprio volessimo fare una similitudine penserei al Rwanda, ma il male assoluto sono stati i campi, Auschwitz. Per venire alla tua domanda, per intervenire a Gaza ci sarebbe bisogno di un quadro internazionale profondamente diverso da quello attuale. Penso ad un’azione multilaterale, guidata da un’America equilibrata ed equilibratrice, non da un pericoloso presidente come Trump; con il contributo di una Russia non più guidata da un criminale autocrate, e con il sostegno di una Cina che non sia animata dal solo desiderio di espansione economica e finanziaria. Ci vorrebbe anche un soggetto che attualmente è del tutto assente: l’Europa.
La proposta di Trump di trasformare Gaza in un resort di lusso è solo provocatoria, o, sommata a quella su Ucraina e alla proposta di sanzionare la CPI, ci sta mostrando un progetto più ampio?
È ormai evidente che Trump non si limita a fare affermazioni del tutto sbagliate, ma che si prepara anche a realizzarle. Guarda ad esempio i discorsi di odio e il disprezzo nei confronti degli immigrati. Oggi assistiamo al rischio concreto di un abbattimento dei presidi delle democrazie liberali. Le dichiarazioni su Gaza non solo sono gravissime in sé, ma ancor di più perché si accompagnano a un’azione di delegittimazione degli istituti e delle organizzazioni internazionali, che si vorrebbero sostituire con oligarchie finanziarie, tecnologiche che rappresenterebbero un pericoloso dominio antidemocratico.
Organizzazioni internazionali che però non hanno dato prova di funzionare molto bene.
Certo, non mi nascondo che anche queste, a partire dall’ONU, hanno bisogno di essere profondamente riformate, ma quando a delegittimarle è una destra oligarchica come quella espressa da Trump, è evidente che il progetto è quello di spezzare quegli istituti che avevano consentito il ripristino delle democrazie dopo la Seconda guerra mondiale. In altre parole, Trump punta a sostituirsi al sistema delle relazioni internazionali esistenti per mezzo di una oligarchia che abbia il controllo dell’innovazione digitale e tecnologica. Se poi consideriamo che le democrazie, così in pericolo e infragilite, rappresentano appena l’8% della popolazione mondiale, allora possiamo comprendere quanto sia forte il rischio che vengano indebolite ulteriormente.
Come può la sinistra proporsi in modo alternativo a questa destra?
La sinistra è da tempo in crisi in tutto il mondo. Oggi la sinistra è molto in ritardo rispetto ad alcuni temi, perché in passato non ha saputo leggere i cambiamenti che si stavano profilando. All’inizio della globalizzazione ha visto nel mondo solo le potenzialità positive, sottovalutando il lato oscuro: mi riferisco all’accumulo ristretto delle ricchezze e alle conseguenti disuguaglianze che hanno portato al progressivo impoverimento di oltre un miliardo di persone. Per oltre mezzo secolo sapevamo di contare su alcune sicurezze: il poter acquistare una casa, il vivere del nostro lavoro, l’essere curati da un sistema pubblico efficiente, ricevere un’educazione adeguata e ottenere una pensione al termine della carriera lavorativa. Negli ultimi trent’anni queste certezze si sono perse e così oggi ci governa l’incertezza. La precarietà. Mi chiedi della sinistra: io penso che debba riflettere sul fatto che Trump abbia vinto grazie al voto popolare. La crisi della democrazia si misura anche in questo: nel forte astensionismo e nel fatto che i più deboli e i più poveri si sentono riconosciuti dalla destra oligarchica di cui parlavo prima, che specula sulle insicurezze sociali e le paure, fornisce risposte populiste, pericolose.
Quindi, che fare?
La sinistra dovrebbe ripartire da pensieri e parole che tengano insieme esigenze concrete e lo sguardo verso il futuro, senza paura. Occorre pensare al futuro senza darne una lettura difensiva. Questo significa immaginare nuove forme di lavoro, e forme di difesa per quello che c’è oggi. Un’attenzione alla formazione, una cura particolare all’innovazione ambientale e digitale. La garanzia dei diritti fondamentali a favore dei più fragili, la tutela della salute. E poi c’è il tema della sicurezza, che anche la sinistra deve saper declinare. Non dobbiamo lasciare che a parlare di sicurezza siano solo quelli di destra. Dobbiamo impegnarci per la lotta al degrado sociale e alla dispersione scolastica; per illuminare di luce fisica e sociale quartieri e periferie, e insieme sostenere anche una maggiore tutela dalla parte delle forze dell’ordine, un controllo del territorio adeguato.
In Italia la guerra ha provocato continue proteste contro Israele, gesti e slogan antisemiti e una nuova campagna BDS. Abbiamo un problema di antisemitismo in Italia? Dopo il 7 ottobre, ma anche negli anni precedenti, abbiamo visto le minacce esplicite agli ebrei, e gli attacchi alle sinagoghe in alcune parti d’Europa. Soprattutto nelle università abbiamo spesso assistito a una equiparazione tra Netanyahu, il suo governo, che io condanno duramente, e l’intero Stato di Israele, addirittura con gli ebrei in qualsiasi parte del mondo vivano. Questa enorme confusione in realtà è alimentata da un pregiudizio antisemita. Dobbiamo dunque reagire.
Spesso certi slogan sono stati ascoltati a sinistra.
Non mi nascondo che anche a sinistra ci siano degli estremismi inaccettabili. E che la radicalizzazione delle posizioni nuoce non soltanto agli ebrei, ma anche ai musulmani, alimentando, da destra, l’islamofobia. Dobbiamo dunque uscire da questa guerra contrapposta e cercare di favorire la multiculturalità e l’inclusione. Invece a sinistra si fa a volte molta confusione, non solo su Gaza. Pensa alla guerra in Ucraina, dove mi sembra evidente che Putin abbia in realtà attaccato i nostri valori, quelli su cui poggia la democrazia. I nemici dell’Occidente oggi non stanno certo in Israele, ma ad esempio dove le donne vengono uccise, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti imprigionati; penso ad esempio all’Iran. Detto questo, credo che non si debba neanche drammatizzare la situazione. Il pericolo dell’antisemitismo è certamente presente, ma oggi, per fortuna, vedo anche un paese che ha gli strumenti per contrastarlo efficacemente, soprattutto finché avremo come esempio una figura come quella di Sergio Mattarella.
Sei senatore del Pd, che in questi mesi ha soprattutto evidenziato le responsabilità di Netanyahu. All’interno del tuo partito molti esponenti, nazionali e locali, si caratterizzano per posizioni molto dure. Il Pd è sufficientemente oggettivo e informato nella lettura delle dinamiche mediorientali?
Il partito democratico, come noto, è un partito plurale, dove al suo interno convivono diverse sensibilità. Certo, anche dentro il Pd talvolta osserviamo stereotipi che hanno origini lontane. Forse causati dall’esigenza, come si diceva una volta, di non avere “nemici a sinistra”, cioè non farsi scavalcare dalle frange più radicali. Anche nel mio partito dunque sono presenti qua e là posizioni stereotipate. Il PD, secondo me, deve continuare a sostenere la sicurezza di Israele e battersi perché si realizzi uno Stato palestinese, senza cedere nulla nella lotta all’antisemitismo.
Ritengo, ad esempio, che non si debba partecipare a manifestazioni in cui non ci sia una netta e chiara condanna dell’antisemitismo. Va detto che la stessa segretaria del partito ha pronunciato parole chiare contro l’antisemitismo e questo è molto importante. E poi non dobbiamo dimenticare che il partito democratico è fortemente ancorato ai valori costituzionali, che nascono dalla lotta al fascismo e a ogni discriminazione razziale e di altra natura.
Vivere nel caos e nella follia

Ricapitoliamo gli avvenimenti degli ultimi giorni. Non di più, che non basterebbero le pagine di questa newsletter.
11 febbraio, martedì. Il gabinetto di sicurezza del governo israeliano si riunisce per un dibattito di quattro ore alla luce della minaccia di Hamas di ritardare il rilascio dei rapiti a causa – dicono – del rifiuto di Israele di iniziare a trattare sulla fase b dell’accordo che porterebbe alla fine della guerra e al ritorno di tutti gli ostaggi. La riunione avviene poco dopo l’annuncio del presidente Donald Trump che promette che si scatenerà l’inferno se “tutti gli ostaggi non saranno rilasciati entro sabato alle 12”. E quindi proprio a questo mira esattamente il governo. Noi normali esseri umani ci siamo subito chiesti chi sono “Tutti gli ostaggi”? i tre della fase uno che dovrebbero rientrare sabato? (gli stessi che Hamas minaccia che sabato non torneranno?) Tutti gli ostaggi della fase a dell’accordo? o anche quelli della b, cioè tutti gli ostaggi dal primo all’ultimo, fase a e fase b, vivi e morti?
Bibi adesso ha paura. Tutta la vita non ha mai detto e fatto nulla di chiaro, tutta la vita non ha fatto e detto nulla che non abbia poi smentito. Tutta la vita ha vissuto alla giornata. Ma mai prima ha avuto un boss come Trump, e con delle idee creative come quelle del nuovo presidente degli Stati Uniti.
“Altrimenti si apriranno le porte dell’inferno”, ha poi dichiarato Trump. Le porte dell’inferno, questo lo abbiamo capito senza grandi difficoltà, vuol dire ricominciare a combattere.
Facile a dirsi. Non combatteranno i figli dei ministri haredim, solidamente incollati alle loro poltrone al governo, né tantomeno quelli di Netanyahu, uno a Miami uno non si sa. Combatteranno i nostri figli. Anche i figli di chi non ha votato e mai voterà per questo governo.
Mercoledì. Ore 11. Per ricordarci cos’è la guerra, ci organizzano una prova del sistema allarmi. Funzionano perfettamente. La guerra, (ma forse il governo ha fatto in tempo a dimenticarlo) vuol dire morte e sangue e vuol dire correre mezzo addormentati, in piena notte, al rifugio. Vuol dire il ritorno dei missili degli houthi dallo Yemen, che già hanno annunciato che in caso la guerra ricominci, loro ci sono e torneranno alle loro antiche abitudini di missili notturni. Vuol dire che gli sfollati non torneranno alle loro case. Vuol dire la morte garantita di un numero imprecisato di ostaggi, di gazawi, di soldati. Di innocenti.
Per ottenere cosa? La fine di HAMAS e la vittoria finale, risponde la destra con Bibi. Cioè? Uccidere altri 10000 terroristi? Distruggere quello che è rimasto di Gaza? Richiamare tutti i riservisti? I nostri giovani sono stanchi dopo un anno e mezzo di guerra sulle loro spalle.
I parenti degli ostaggi reagiscono supplicando il governo di non fermare il corso del ritorno a casa degli ostaggi specialmente dopo aver visto come sono tornati quelli che sono stati liberati. Persino Trump, ricordano, sembra avere più pietà di Smotrich e Ben Gvir per i nostri cari. La fine della tregua sarebbe una condanna a morte per gran parte degli ostaggi ancora in vita.
Davvero questo governo crede, come sta affermando ora alla radio il ministro dello sport e della cultura Miki Zohar, che Trump costruirà la Riviera di Gaza e manderà gli abitanti della striscia a vivere in Egitto o in Giordania? Non hanno seguito la conferenza di Trump con re Abdullah, che imbarazzatissimo, ha promesso al presidente Trump di ospitare in Giordania ben 2000 bambini gazawi malati?
Anche gli egiziani sembrano piuttosto restii a dare vitto e alloggio ai gazawi. Il 27 febbraio si svolgerà al Cairo l’incontro della Lega Araba sul futuro di Gaza. Un diplomatico saudita ha dichiarato oggi a Al Arabiya News che sarebbero ben lieti di creare la Riviera di Gaza, ma lasciandoci dentro i gazawi.
Qui intanto non si pensa e non si parla che degli ostaggi. Gli ultimi liberati sono tornati emaciati, stanchi, hanno anche dovuto subire una grottesca cerimonia di saluto alla folla che li circondava. Lentamente e faticosamente stanno ora iniziando a raccontare ciò che hanno subito in prigionia, incatenati, rinchiusi in tunnel umidi e bui, nell’oscurità e al freddo, in certi casi senza neppure poter stare in piedi, in altri privati dell’acqua per bere o lavarsi, affamati, picchiati, perfino appesi a testa in giù. Raccontano anche chi hanno incontrato durante la loro prigionia. Con ogni nuova informazione cresce la disperazione e la paura e l’accusa al governo che aveva bloccato un accordo di scambio ostaggi-prigionieri nel mese di maggio. Avrebbe potuto succedere a ognuno di noi -ci diciamo- ognuno di noi avrebbe potuto essere rapito dal suo letto e diventare ostaggio di un folle terrorismo omicida e sadico, sepolti vivi nei tunnel di Gaza.
Per alleviare il senso di colpa di noi che dormiamo nei nostri letti, al caldo, nelle nostre belle case, non rimane che unirci alla protesta. C’è chi protesta alla knesset. Chi davanti alla casa dei ministri al governo.
C’è chi lo fa pregando alla piazza degli ostaggi ogni martedì, e chi lo fa tutte le sere davanti al ministero della difesa, e poi ogni sabato lo facciamo tutti insieme, tutti i gruppi della protesta e tutte le famiglie degli ostaggi vivi o morti. Mercoledì, durante una burrascosa discussione alla knesset, il padre di una soldatessa uccisa, Eyal Eshed, si è rivolto a Moshe Gafni del partito l’”ebraismo della torà” chiedendogli di guardarlo negli occhi.
Gafni ha risposto “no, non voglio”. 27 anni fa, era anche allora febbraio, Netanyahu si rifiutò di guardare me negli occhi.
Giovedì. Hamas annuncia ora che sabato libererà tre prigionieri. Tiriamo un sospiro di sollievo.
Netanyahu immediatamente annuncia che è fake news. Deve tranquillizzare il ministro Smotrich che chiede la guerra. Cosa gliene importa a lui di quei tre prigionieri le cui vite sono nelle sue mani? La sua più grande paura è perdere il potere, che si arrivi alla fine della guerra (con la fase b dell’accordo), e alla commissione d’inchiesta sul 7 ottobre.
Ma alla fine tutti i colpevoli ci dovranno guardare in faccia. Quel giorno arriverà. Deve arrivare. Solo allora potrà iniziare il risanamento di questo paese e finirà il caos, l’incubo e la follia. Ne abbiamo davvero abbastanza.
Un gruppo ebraico all’interno della SPD
Intervista ad Abraham De Wolf
Massimiliano Boni

Ci puoi spiegare cos’è il Juden SPD (Arbeitskreis jüdischer Sozialdemokratinnen und Sozialdemokraten)?
Siamo un gruppo riconosciuto (un gruppo di lavoro ufficiale) all’interno della SPD. La decisione formale è stata presa nel 2007 e abbiamo un seggio e il diritto di parlare e presentare mozioni alla conferenza del partito a livello federale. Come gruppo di lavoro non abbiamo diritto di voto, poiché i gruppi di lavoro sono troppo piccoli, ma i singoli membri vengono spesso eletti come delegati formali con diritto di voto. Negli ultimi anni abbiamo presentato alcune mozioni come gruppo di lavoro ebraico nella SPD, sempre con successo. Ci piace il nostro ruolo: prendiamo posizioni ben ponderate e studiate e quindi abbiamo influenza basata su argomentazioni.
Come lavorate?
Ufficialmente siamo un gruppo di lavoro del consiglio federale della SPD che ci fornisce finanziamenti e un assistente per le questioni organizzative. Ci incontriamo una volta all’anno e ogni due anni eleggiamo il nostro consiglio di gruppo. Abbiamo due relatori, una donna e un uomo; attualmente sono il co-relatore del gruppo. Durante l’anno comunichiamo con i nostri membri tramite Zoom e newsletter.
Di cosa vi occupate?
Israele non è la nostra preoccupazione principale, e nemmeno l’antisemitismo. Ma in tempi di crisi come ora, ovviamente lo diventa. In tempi normali ci occupiamo di questioni di etica ebraica in materia economica e sociale e anche del pensiero di importanti socialdemocratici ebrei, che hanno contribuito a formare il pensiero socialdemocratico, come Moses Hess, Hugo Sinzheimer ed Eduard Bernstein. Eduard Bernstein è stato un assistente di Friedrich Engels durante l’esilio in Inghilterra e un importante critico di Karl Marx per aver ignorato l’importanza dell’ascesa di una classe media. È stato il principale pensatore per la politica di riforma all’interno della SPD. Il suo testo sul sionismo è molto interessante. Nel 1928 Hugo Sinzheimer, considerato il padre del diritto del lavoro moderno, sviluppò un concetto di democrazia economica all’interno delle aziende e in materia economica insieme a Fritz Naphtali per l’Associazione dei sindacati tedeschi. Naphtali riuscì a fuggire in Palestina nel 1933 e in seguito fu nel governo di Ben Gurion. Quest’anno intendiamo confrontarci con i pensieri fondamentali di Hugo Sinzheimer sui temi della dignità umana e del diritto del lavoro, sulla democrazia economica e sull’etica ebraica in relazione alla tecnologia in un documento su come ci aspettiamo che la politica affronti l’intelligenza artificiale. Sinzheimer fu uno dei principali autori della costituzione tedesca del 1919 (mia moglie è la rabbina liberal di Francoforte e grazie al suo essere un membro attivo del nostro gruppo di lavoro abbiamo un’eccellente comprensione delle discussioni talmudiche e rabbiniche.) Stiamo anche attualmente redigendo un documento sull’UE e l’adesione dell’Ucraina. Abbiamo molti ex ucraini nelle comunità ebraiche tedesche. Questo documento lo porteremo nella SPD per la discussione.
Dopo l’attacco di Hamas contro Israele, lo scorso 7 ottobre 2023, la reazione del governo di Netanyahu ha suscitato numerose manifestazioni contro Israele in tutta Europa. Qual è stata la reazione in Germania?
Berlino ha una grande comunità di palestinesi e un piccolo numero di sostenitori di Hamas. Poiché Berlino è la capitale, sono stati in grado di attirare grande attenzione mediatica sulle loro proteste. La loro aggressione ha effettivamente danneggiato politicamente la “causa palestinese”, con arresti effettuati quasi ogni volta che manifestano. Stanno diventando sempre più pieni di odio e aggressivi, poiché è diventato così chiaro che hanno perso la guerra. Più importante è quali effetti la guerra a Gaza e le immagini televisive di distruzione totale stanno facendo all’interno della SPD e dei Verdi. La stragrande maggioranza è ancora con Israele, ma c’è un sentimento generale tedesco di non essere a favore dell’esercito. Questa è una reazione profonda ai nazisti e alla loro propaganda di guerra costante. Quindi i servizi televisivi su Gaza sono un problema emotivo ma non politicamente forte. Naturalmente capiamo tutti perché la Germania deve essere nella NATO e perché la guerra in Ucraina e per Israele è una questione di sopravvivenza.
L’organizzazione giovanile della SPD è fortemente pro Israele e gestisce ancora un centro per giovani politici tedeschi, israeliani e palestinesi interessati al dialogo. Si trova a Gerusalemme Est (Willy Brandt Center), il che rende un po’ difficile raggiungerlo in taxi da Gerusalemme Ovest. Questo centro, tra l’altro, è il motivo per cui la SPD è spesso presa di mira dagli israeliani di destra con calunnie politiche. I membri dell’attuale governo tedesco (fino alle elezioni) sostengono questo centro di dialogo.
Qual è la posizione dei principali partiti tedeschi su questa guerra?
Tutti i partiti rilevanti, tranne gli ex comunisti, sostengono Israele. L’estrema destra (AfD) è come gli evangelici negli Stati Uniti: vogliono che gli ebrei massacrino i musulmani, quindi sostengono Israele.
Il prossimo 23 febbraio la Germania avrà un nuovo Bundestag. L’AFD, secondo i sondaggi, sta aumentando molto i suoi numeri. C’è un pericolo reale per la democrazia tedesca?
Solo se i conservatori agiscono insieme all’AfD.
Non dimenticare che Hitler nel 1933 salì al potere solo perché i partiti conservatori decisero di formare un governo con i nazisti. I nazisti non avevano la maggioranza senza i partiti conservatori! I conservatori pensavano di poter controllare Hitler e usarlo contro i comunisti, i socialdemocratici e i sindacati, e rimettere gli ebrei al loro posto nella classe inferiore. Quindi per la Germania la domanda è come la CDU, i cristiano-democratici, reagiranno all’AfD. Siamo piuttosto scettici nelle comunità ebraiche in Germania. La maggior parte dei leader e dei membri dell’AfD sono ex membri della CDU (e gli elettori, ovviamente). La CDU ha sempre avuto un’estrema destra che è stata ignorata fuori dalla Germania, ma Angela Merkel li ha fermati e sono andati all’AfD.
La scorsa settimana era a Roma per il congresso nazionale di “Sinistra per Israele”. Secondo lei, quali sono i passi necessari per un vero cessate il fuoco e, in futuro, per un accordo stabile tra lo Stato di Israele e il popolo palestinese?
Spero si possa diffondere e far conoscere il mio intervento. Sono anche un fan di Yair Golan. Ho avuto il grande piacere di parlare con lui a Berlino qualche settimana fa sulla questione di come gestire Gaza. Ho una critica molto specifica di Avodà, poiché alcuni dei leader hanno perso la strada (politicamente), quindi sono contento che Avodà e Meretz si siano uniti. Inoltre leggo il Times of Israel per seguire cosa sta succedendo in Israele. E attraverso la famiglia di mia moglie ho ulteriori intuizioni.
Per Israele, quindi per la pace con i palestinesi
Intervista a Jon Pearce
Marco Pierini

Jon Pearce, lei è a capo della delegazione parlamentare dei Labour Friends of Israel (LFI), un’organizzazione all’interno del Partito Laburista composta da numerosi rappresentanti eletti che hanno a cuore l’esistenza di Israele come stato ebraico e democratico, sostenendo allo stesso tempo le aspirazioni nazionali dei palestinesi.
Quale consiglio darebbe a Sinistra per Israele?
Il mio consiglio è di riconoscere che, per noi che siamo nel centro-sinistra, il sostegno a Israele e a una soluzione a due stati è radicato nei nostri principi. Crediamo nell’autodeterminazione per ebrei e palestinesi; riconosciamo la posizione unica di Israele come la sola democrazia del Medio Oriente, e sosteniamo i diritti dei lavoratori, delle donne, delle minoranze etniche e sessuali, e una soluzione negoziata al conflitto israelo-palestinese. Questi sono principi progressisti e guidano il nostro sostegno a Israele e il nostro rifiuto dell’antisemitismo antisionista.
Abbiamo sentito parlare per molti giorni ora dell’idea di Trump di trasferire i gazawi fuori dalla Striscia. Cosa ne pensa LFI? E cosa pensa dell’attuale attuazione dell’accordo di cessate il fuoco?
LFI è stata molto chiara: siamo fortemente contrari alle parole del Presidente Trump sul futuro di Gaza. Dopo aver sofferto per 16 anni sotto il brutale dominio di Hamas, i gazawi dovrebbero poter tornare alle loro case il prima possibile. L’idea del presidente destabilizzerebbe seriamente i vicini di Israele e minerebbe le prospettive di una soluzione a due stati. Gaza e il suo popolo hanno bisogno di sicurezza, aiuti umanitari e ricostruzione, insieme a una nuova leadership disposta a promuovere la pace, la riconciliazione e la coesistenza con il popolo israeliano. Accogliamo anche il fatto che il governo laburista abbia riaffermato il suo impegno per una soluzione a due stati e abbia chiarito la nostra convinzione che non ci debba essere alcuno spostamento forzato dei palestinesi. Crediamo che l’accordo di cessate il fuoco debba essere attuato affinché possiamo liberare gli ostaggi e aumentare gli aiuti a Gaza. Dopo aver visto le immagini smunte ed emaciate di Or Levy, Ohad Ben Ami ed Eli Sharabi lo scorso fine settimana – e la grottesca consegna pubblica organizzata da Hamas – siamo profondamente preoccupati per gli ostaggi rimasti.
Negli ultimi anni, durante il mandato di Corbyn, il Partito Laburista è stato coinvolto in una grande crisi di antisemitismo. Come avete recuperato da quell’esperienza e qual è la situazione attuale?
Dopo il rifiuto definitivo di Corbyn da parte del popolo britannico nel 2019, LFI ha svolto un ruolo fondamentale nel sostenere l’incessante impegno di Keir Starmer per riportare il partito verso il mainstream politico, per garantire che i membri ebrei potessero tornare a casa nel partito, e per riportare il Partito Laburista alla sua posizione storica di sostegno a Israele e alla pace. Keir Starmer ha promesso di eliminare l’antisemitismo nel giorno in cui è stato eletto leader del Partito Laburista e ha mantenuto tale promessa con azioni decisive contro non solo gli antisemiti, ma anche coloro che giustificavano e negavano il problema. Ovviamente, come ha riconosciuto più volte lo stesso Primo Ministro, non possiamo mai abbassare la guardia e dobbiamo applicare una “politica di tolleranza zero” verso ogni caso di antisemitismo all’interno delle nostre fila.
Cosa sta facendo LFI per sostenere la visione di una soluzione a due stati per il conflitto israelo-palestinese?
Labour Friends of Israel sostiene una soluzione negoziata a due stati per due popoli; con Israele sicuro, protetto e riconosciuto all’interno dei suoi confini, che vive accanto a uno stato palestinese democratico, indipendente e vitale. Promuoviamo una visione di pace basata sulla coesistenza, sulla cooperazione e sul rispetto reciproco tra i popoli israeliano e palestinese. Sosteniamo iniziative politiche, economiche e della società civile per favorire la causa della pace e una soluzione a due stati. Crediamo che, insieme ai partner internazionali, la Gran Bretagna debba riconoscere lo stato di Palestina accanto allo Stato di Israele, come parte degli sforzi per contribuire a garantire una soluzione negoziata a due stati. Nel frattempo, e come aspetto cruciale per la creazione di uno stato palestinese, crediamo che la Gran Bretagna dovrebbe sostenere il processo di costruzione dello stato palestinese, inclusa una Autorità Palestinese riformata e rafforzata, e misure per rafforzare l’economia palestinese e aumentarne l’indipendenza economica. Difendiamo i costruttori di pace sia in Israele che in Palestina nel loro lavoro per raggiungere questi obiettivi vitali e lavoriamo con i nostri alleati politici e coi nostri partiti fratelli, e con tutti quegli israeliani e palestinesi moderati che riconoscono la necessità di dialogo, fiducia e compromesso per far terminare questo terribile conflitto. Chiediamo l’abbandono di ogni terrorismo, violenza e incitamento. Ci opponiamo a tutti i tentativi di demonizzare e delegittimare l’unico stato ebraico al mondo, e all’antisemitismo che li alimenta. È per questo che ci opponiamo fermamente alle richieste del movimento BDS di boicottare Israele. Tali richieste sono moralmente sbagliate, minano il processo di pace israelo-palestinese, alimentano l’antisemitismo e danneggiano la coesione sociale nel Regno Unito, e sono dannose economicamente sia per la Gran Bretagna che per il popolo palestinese. Incoraggiamo un maggiore riconoscimento internazionale delle molteplici minacce esistenziali che Israele affronta e cerchiamo maggiore solidarietà internazionale con gli israeliani per contrastarle. Sappiamo che il regime iraniano non solo sopprime brutalmente il proprio popolo, ma rappresenta un chiaro e presente pericolo per la sicurezza e la prosperità del Medio Oriente. Attraverso il Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche, Teheran finanzia, arma, addestra e dirige una rete di eserciti proxy – tra cui Hezbollah, Hamas, la Jihad Islamica Palestinese, gli Houthi e le milizie sciite irachene – impegnati nella distruzione di Israele e dei valori democratici liberali che difende. Per questo accogliamo le sanzioni che il governo laburista ha imposto sulle Guardie Rivoluzionarie Islamiche. In linea con il nostro impegno, il governo dovrebbe mettere al bando le Guardie Rivoluzionarie Islamiche il prima possibile. Infine, sosteniamo gli sforzi diplomatici per portare la pace tra Israele e i suoi vicini regionali, e stiamo con tutti coloro che lottano per i valori democratici liberali e i diritti umani in tutto il Medio Oriente.
Cosa pensa che dovrebbero fare i costruttori di pace in Europa e all’interno dei partiti progressisti e di centrosinistra per aiutare gli israeliani e i palestinesi sul campo?
LFI è impegnata a costruire dalla base, dalla società civile, una soluzione a due stati e una pace duratura tra israeliani e palestinesi. Dal 2016, guidiamo la campagna nel Regno Unito per un Fondo Internazionale per la Pace Israelo-Palestinese. Il Fondo Internazionale per la Pace Israelo-Palestinese – un concetto ideato dall’Alliance for Middle East Peace e promosso nel Regno Unito da LFI – riunirebbe e sfrutterebbe gli investimenti di Stati Uniti, Europa e mondo arabo per amplificare il lavoro importante, ma gravemente sottocapitalizzato, di costruzione della pace in Israele e Palestina. Questi progetti – che spaziano nei settori ambientale, tecnologico, giovanile e sanitario – sono già in corso ed è ripetutamente dimostrato che siano un vero fattore di cambiamento nell’influenzare il comportamento delle parti, promuovere l’empatia e la fiducia, e mettere in pratica il principio di risoluzione dei conflitti. La centralità di questo lavoro è dimostrata dagli Accordi del Venerdì Santo in Irlanda del Nord. Il Fondo Internazionale per l’Irlanda, che è stato istituito nel 1986 durante i giorni più oscuri dei Troubles, ha dato basi solide alla pace sia nel campo nazionalista che unionista. Ha giocato un ruolo fondamentale sia nel garantire l’accordo storico del 1998 che nel sostenerlo attraverso le inevitabili sfide che sono seguite. Ma mentre il Fondo Internazionale per l’Irlanda investiva 44 dollari per persona all’anno in progetti di costruzione della pace a livello di base, solo 3 dollari venivano investiti in azioni simili in Israele e Palestina. Siamo lieti che, nel dicembre 2024, il Primo Ministro abbia annunciato al pranzo annuale di LFI che la Gran Bretagna compirà un importante primo passo, con il Segretario di Stato per gli Esteri che ospiterà un ampio gruppo di paesi e istituzioni internazionali per una riunione inaugurale a Londra, nell’ottica di coordinare il sostegno alla società civile nella regione come parte del rafforzamento dei negoziati diretti verso una soluzione a due stati. Speriamo che i nostri amici e alleati in Europa sostengano questa importante iniziativa.
Vedi l’intervento di Emanuele Fiano
Vedi l’intervento di Piero Fassino
Vedi l’intervento di Yair Golan Democrats – Israele
Vedi l’intervento di Bernard Sabella rappresentante Autorità Nazionale Palestinese presso il Consiglio d’Europa a Strasburgo
Vedi l’intervento di Daniel Cohn Bendit
Vedi l’intervento di Abraham De Wolf
Messaggio di saluto dell’Ambasciatore di Israele
Egregio Segretario Emanuele Fiano,
Egregio Onorevole Piero Fassino,
Egregia Onorevole Lia Quartapelle,
Egregia Presidente Noemi Di Segni,
Autorità istituzionali presenti in sala,
Cari amici,
È per me un piacere inviare questo messaggio di saluto in occasione del Congresso Nazionale di Sinistra per Israele, un evento particolarmente importante e sentito, soprattutto in considerazione del periodo difficile che Israele – e tutto il mondo ebraico – vivono a seguito dell’attacco terroristico di Hamas dello scorso 7 ottobre 2023.
Come ho avuto già modo di dire all’amico Piero Fassino e agli amici di Sinistra per Israele che sono venuti a trovarci presso la nostra Ambasciata a Roma, sono profondamente convinto dell’importanza della Vostra organizzazione e del Vostro lavoro. Credo, infatti, che Sinistra per Israele svolga un ruolo di ponte quantomai necessario per far comprendere la reale natura di Israele, all’interno del mondo progressista italiano.
In questi mesi abbiamo assistito alla veemente ripresa di campagne di odio antisemita e antisionista, che destano notevole preoccupazione. Campagne fondate sul pregiudizio, ma anche, spesso, sulla mera ignoranza. Pochi, infatti, conoscono oggi la storia d’Israele o sono consapevoli del reale significato della parola “sionismo”. Pochi sanno che – come ben esplicitato nel vostro Manifesto – “il sionismo è stato il legittimo movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico”, che ha trovato nell’esperienza dei kibbutzim una delle sue più importanti espressioni concrete. E poche persone ricordano le affinità ideologiche che il sionismo ha avuto con il Risorgimento italiano.
Come sapete, recentemente si è raggiunto un temporaneo accordo di cessate il fuoco a Gaza. Israele ha sostenuto questo accordo, nonostante l’alto prezzo che ciò ha significato per tutti noi, al fine di liberare 33 degli ostaggi israeliani nelle mani dei terroristi. Mentre sono già in corso i negoziati per la seconda fase dell’accordo, mi preme ricordare che sono decine gli ostaggi israeliani che restano ancora nelle mani dei jihadisti a Gaza. Tra loro, i piccoli Kfir e Ariel Bibas, la cui sorte purtroppo non è chiara. Preghiamo per la salvezza di tutti loro e per la loro immediata liberazione.
Dopo la tragedia del 7 ottobre, per pensare di poter tornare a credere nella pace, è necessario il rispetto di alcune condizioni fondamentali che – anche in questo caso – sono ben espresse dal primo punto del Vostro Manifesto. È necessario riaffermare “come irrinunciabile il diritto di Israele a esistere, riconosciuto dai suoi vicini e a vivere in sicurezza nei propri confini”. Purtroppo, ad oggi, questo diritto continua ad essere attaccato costantemente, particolarmente dal regime iraniano e dai suoi alleati regionali, tra cui Hamas e le altre organizzazioni terroristiche palestinesi.
Come la storia d’Israele ha dimostrato, la nostra intenzione è quella di vivere in pace con tutti i nostri vicini. Per questo ci siamo ritirati dal Sinai per arrivare alla pace con l’Egitto, per questo abbiamo firmato la pace con la Giordania e per questo abbiamo fortemente sostenuto gli Accordi di Abramo che, grazie alla mediazione americana, hanno portato alla firma della pace con Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Marocco. Oggi, aspettiamo con ansia che questi Accordi si allarghino anche all’Arabia Saudita, con cui speriamo di firmare presto la normalizzazione delle relazioni diplomatiche. Sarebbe un passo storico non solo per Gerusalemme e Riad, ma per tutta la regione mediorientale.
Siamo consapevoli che ciò sarà possibile in un quadro che consideri anche le relazioni con la controparte palestinese, da inserire all’interno della cornice stessa degli stessi Accordi di Abramo, sinora purtroppo rigettati dall’Autorità Nazionale Palestinese.
Nel ringraziarVi nuovamente per il Vostro impegno e la Vostra amicizia verso Israele e il suo popolo, Vi auguro un buon Congresso. Come si suol dire in ebraico “beHazlachà”, ovvero che sia un evento di grande successo.
Grazie,
Jonathan Peled
Roma, 6 febbraio 2025
TESTIMONIANZA – DONATELLA CAPIRCHIO

Entusiasmante, impegnativo, stimolante, partecipato, pieno di voci, quasi una cinquantina di interventi in quattro ore e mezza dedicate (siamo disciplinati… senza esagerare), in accordo, in disaccordo, quanti astenuti? Qualcuno c’è sempre, le opinioni spaziano, ma non sul Presidente! La Commissione politica è infaticabile, accoglie, integra, riformula, rigetta (ma poi si vota!). Gli interventi degli ospiti in collegamento sono densi e puntuali, la platea è concentratissima a non perdere una parola, soprattutto quando le parole arrivano da mondi lontanissimi che qui cercano di ritrovarsi un po’ meno lontani. È il tema centrale, l’obbiettivo condiviso per cui tutti noi così diversi siamo qui, nell’impegno di una pratica politica che vuole far incontrare i discorsi, in una ricerca, sempre faticosa, a volte incerta quanto necessaria, di un punto di equilibrio, di pensabili scenari di pace verso l’obbiettivo a cui tendiamo, in cui crediamo: i due Stati per i due popoli, che vuol dire riconoscere la sicurezza una priorità per Israele e il diritto a vivere in uno Stato riconosciuto per i palestinesi (cit. il nostro Lele Presidente). Orgogliosi di essere insieme in Sinistra per Israele, con rinnovato impegno e tanti abbracci ci salutiamo, a rivederci presto alle prossime iniziative!
TESTIMONIANZA – SAMUELE VIANELLO

Il congresso è stato salvifico nella tragica desolazione causata dalla polarizzazione ideologica.
Abbiamo coraggiosamente sostenuto il diritto di Israele a difendersi, nei limiti e nelle modalità sancite dal diritto internazionale, e sottolineato il diritto del popolo palestinese ad autodeterminarsi in uno Stato democratico.
Questa lucida istanza, frutto dell’equilibrio del giudizio, è la più lontana possibile dai revisionismi storici, dalle manipolazioni dell’informazione e da ideologie sanguinarie. Questa coraggiosa analisi, non inquinata dall’equivalenza delle ragioni, pone un punto fermo rivolto al futuro. La speranza – HaTikvah – è di riuscire a offrire l’alternativa per una politica nonviolenta, che condanni da una parte l’uso illegittimo, dall’altra l’uso sproporzionato della forza; per l’avvenire di uno Stato palestinese liberato dal terrorismo, per un domani di sicurezza e progresso in Israele.
TESTIMONIANZA – MAURIZIO MELANI

Lo svolgimento e gli esiti del Congresso di ricostituzione di Sinistra per Israele sono stati un grande successo. Con il suo ampio dibattito e le tesi che a grandissima maggioranza in tutti i suoi punti sono state adottate con alcuni arricchimenti emendativi, l’evento ha chiaramente ribadito le linee di azione della nostra associazione in una fase di grandi e per molti versi preoccupanti sviluppi della situazione e degli equilibri in Medio Oriente e sulla scena mondiale.
Ad una ottima organizzazione si è unita nei contenuti la riaffermazione dei nostri obbiettivi, come indicati nel Manifesto del marzo scorso, rispetto ai quali occorre tenere dritta la barra essendo essi gli unici che possano portare ad una pace duratura e sostenibile nella regione e contribuire efficacemente alla lotta all’antisemitismo nella quale siamo tutti impegnati. Si è riaffermato che la sicurezza di Israele, la costituzione di uno Stato di Palestina indipendente e sovrano accanto ad esso, il necessario coinvolgimento dei paesi della regione che intendano convivere e cooperare con Israele, nonché della comunità internazionale ed in particolare dell’Unione Europea, sono indispensabili e tra loro indissolubili.
Accanto alla denuncia degli orrori di Hamas e delle organizzazioni jihadiste, netto è stato il rifiuto delle affermazioni di Trump sulla dislocazione della popolazione di Gaza, pericolose per la sicurezza e la stabilità nella regione e che stanno già mettendo a rischio la tregua e la prosecuzione della liberazione degli ostaggi. Ugualmente netto è stato il rigetto degli attacchi da parte della destra mondiale al multilateralismo e alle organizzazioni internazionali il cui ruolo, pur con le loro imperfezioni da superare, è essenziale nell’accompagnamento dei perseguiti processi di pace in Medio Oriente così come per la visione di un mondo retto da regole condivise e dalla cooperazione su problemi comuni e non dallo scontro tra contrapposti nazionalismi.
Questa riaffermata linea di equilibrio ci rafforza e ci dà credibilità e coerenza nel dialogo da affrontare nella sinistra, cui apparteniamo, e in generale nella società civile, in particolare nella sua componente giovanile, per sostenere i diritti di Israele assieme a quelli della Palestina, e con il mondo ebraico per il superamento di diffidenze aumentate con l’accentuarsi del conflitto.
Molti congressisti, portatori di sensibilità, storie personali ed esperienze diverse, ma accomunati dall’appartenenza ad una organizzazione che si definisce esplicitamente di sinistra, hanno manifestato le proprie posizioni e presentato emendamenti ai testi dello Statuto e delle tesi elaborati dalla Commissione politica che ha svolto un complesso lavoro di mediazione durante tutto il percorso congressuale sottoposto poi al voto degli iscritti presenti.
Si è trattato di un grande esercizio di partecipazione democratica centrato sulla visione che si ha del futuro di Israele, della regione, dell’autodeterminazione del popolo israeliano e di quello palestinese, del loro diritto a vivere in sicurezza reciproca e della loro collocazione in un contesto regionale oggetto di conflitti tra potenze dell’area, con le loro ambizioni egemoniche, e tra potenze esterne con intenzioni e capacità di usarle nel quadro delle loro rivalità e contrapposizioni a livello globale.
Accanto all’intervento introduttivo di Piero Fassino e alla relazione di Emanuele Fiano, di grande importanza sono stati gli interventi di ospiti non italiani. In particolare quello del leader del nuovo partito unificato della sinistra israeliana, Yair Golan. Egli ha espresso con chiarezza la priorità della sicurezza per Israele.
Come indicato in molti interventi questa è realizzabile, oltre che con un adeguato potere di deterrenza, con il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e il superamento di un odio ormai secolare tra le due comunità con le loro composite articolazioni interne. Odio amplificato dal trauma determinato nella società israeliana e nel mondo ebraico dal pogrom del 7 ottobre con la lunga e drammatica coda della detenzione degli ostaggi, e in quella palestinese dalle distruzioni e dalle decine di migliaia di vittime a Gaza. Dell’intensità delle sofferenze inflitte alla popolazione palestinese sono state riconosciute nelle tesi e in tanti interventi le responsabilità di Hamas, assieme a quelle per le modalità con cui è stata condotta la legittima reazione israeliana mentre si intensificavano le violenze dei coloni e di chi li protegge in Cisgiordania secondo un disegno di appropriazione di quel territorio perseguito ormai con poche ambiguità dall’attuale Governo israeliano del quale è stata netta la condanna espressa a grande maggioranza dal Congresso.
Importanti sono stati anche l’intervento complessivamente costruttivo ed equilibrato del rappresentante dell’ANP Bernard Sabella, accolto da un prolungato applauso, nonché quello di Daniel Cohn Bendit che ha sottolineato, come da me personalmente sostenuto in varie occasioni, che chi è per Israele, come siamo tutti noi, debba essere anche pro palestinese e viceversa, e che le bandiere israeliana e palestinese debbano essere esposte insieme nelle manifestazioni per la pace.
Vi è ora molto lavoro da fare, per quanto ci riguarda anche dal basso, in collegamento con analoghe organizzazioni in Italia e in altri paesi e con reti come Allmep e Jcall che perseguono e realizzano collaborazioni in tanti campi tra associazioni israeliane e palestinesi. Incoraggiante in questo ambito è la promozione da parte del Primo Ministro britannico Starmer di un fondo internazionale per il sostegno di attività dirette a perseguire la pace in Medio Oriente di cui ci hanno parlato il rappresentante del Labour Party John Pearce e il rappresentante di tali reti internazionali Giorgio Gomel.
Sono convinto che Sinistra per Israele, con la guida del Presidente eletto Emanuele Fiano e sulla base di quanto deliberato da questo Congresso, saprà operare con l’attiva azione di tutti coloro che tra noi lo vorranno per il perseguimento con successo delle finalità bene affermate nel suo Statuto.
TESTIMONIANZA – ANNA SEGRE
Una famiglia politica per uscire dal microcosmo.

Inizio con una confessione: finora la mia esperienza politica, se così si può definire, si era svolta quasi esclusivamente all’interno del mondo ebraico. Un contesto molto ristretto, ma che proprio per i suoi piccolissimi numeri dà la soddisfazione di percepire tangibilmente i risultati delle proprie azioni, e di trattare gli stessi temi di cui si discute nella società civile (antifascismo, democrazia, inclusione, parità di genere, ecc.) in una scala più gestibile.
Per quanto riguarda Israele, però, non è solo questione di scala. In ambito ebraico si danno per scontate cose che nel mondo esterno, e in particolare a sinistra, non sono scontate affatto, a cominciare dalla stessa legittimità dell’esistenza dello Stato. Per questo il rischio di fraintendimenti e strumentalizzazioni è altissimo. Noi ebrei della diaspora conosciamo Israele, ci siamo stati, alcuni di noi ci hanno anche vissuto per periodi più o meno lunghi, comunque quasi tutti abbiamo amici e parenti che ci abitano. In molte città italiane vivono studenti israeliani, alcuni dei quali si integrano con la comunità ebraica locale.
Se noi ebrei di sinistra ci occupiamo di Israele più di quanto ci occupiamo di altri luoghi caldi nel mondo è per vicinanza, non perché riteniamo che il conflitto israelo-palestinese sia quello nel cui ambito si commettono i crimini più efferati. Se critichiamo i governi israeliani più di altri è perché ci sentiamo emotivamente più coinvolti, non perché li consideriamo i peggiori del pianeta. E per noi è talmente ovvio che Israele può e deve continuare ad esistere che non sentiamo il bisogno di ribadirlo in continuazione.
Fuori dal mondo ebraico spesso non c’è conoscenza della realtà israeliana, non c’è empatia, non c’è voglia di capire, non c’è neppure una reale convinzione che l’esistenza di Israele sia necessaria o per lo meno opportuna; al limite la si accetta obtorto collo in termini di realpolitik.
Il 7 ottobre ha messo molti di noi bruscamente di fronte a questa realtà, facendoci sentire soli in contesti in cui mai avremmo immaginato di esserlo, con parenti e amici, nei nostri luoghi di studio e di lavoro, nelle istituzioni e nelle organizzazioni a cui apparteniamo. La natura del nostro legame con Israele viene spesso fraintesa. Se da un lato abbondano le confusioni tra ebrei e Israele (alimentate peraltro – dobbiamo riconoscerlo – anche da una parte consistente del mondo ebraico), dall’altro molti commettono l’errore opposto e immaginano o sognano ebrei diasporici che non hanno alcun legame, né culturale né affettivo, con lo Stato ebraico, e neppure con i suoi abitanti. Non capiscono il disagio degli studenti e dei docenti ebrei che sentono i loro compagni e colleghi giustificare gli orrori del 7 ottobre e definirli “resistenza”, oppure sentono gridare “Fuori i sionisti!” nelle loro scuole e università. Dichiarazioni di solidarietà, progetti indirizzati agli abitanti del sud e del nord d’Israele sfollati o a villaggi e kibbutzim colpiti il 7 ottobre messi in campo da organizzazioni e comunità ebraiche rischiano di essere interpretati erroneamente come atti di adesione alla politica di Netanyahu. Molti chiedono alle Comunità ebraiche diasporiche prese di distanza ufficiali da Israele e dal suo governo. Ma a quale titolo dovrebbero farlo? Vogliamo che Israele sia lo Stato etnico degli ebrei, come sognano Netanyahu e l’estrema destra israeliana, o vogliamo che sia lo Stato democratico in cui tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di religione come recita la Dichiarazione d’Indipendenza?
Questi sono i motivi per cui proprio adesso molti ebrei italiani, a cominciare dalla sottoscritta, hanno sentito il bisogno di trasferire il proprio impegno a favore di Israele come stato ebraico e democratico e della soluzione “Due popoli, due stati” nell’ambito di una famiglia politica più ampia, composta non solo di ebrei.
Per sgomberare il campo da ogni genere di equivoco sulla nostra identità, per lavorare in Italia da cittadini italiani, nell’ambito della politica italiana, delle scuole, delle università, delle organizzazioni, delle istituzioni, sentendoci meno soli, meno isolati.
Per questo, credo, hanno scelto di iscriversi a Sinistra per Israele e hanno partecipato al congresso molti ebrei italiani che sono stati e sono tuttora attivi in altri contesti più specificamente ebraici, dalle Comunità all’Ucei, dai movimenti giovanili ai gruppi ebraici di sinistra e per la pace attivi da decenni in Italia o nelle singole città (non li elenco per non rischiare di dimenticarne qualcuno).
Una famiglia politica unita che può agire con più efficacia dei singoli e dei gruppi ristretti nel diffondere un’informazione più corretta, nel favorire il dialogo, nel rispondere efficacemente alle iniziative di boicottaggio, ma anche nell’aiutare le Comunità e le istituzioni ebraiche a sfuggire alla tentazione, sempre più forte, di chiudersi in sé stesse rinunciando a confrontarsi con il mondo esterno.
Grazie a tutte e a tutti coloro che hanno partecipato al Congresso o si sono collegati a distanza, grazie a tutte e a tutti coloro che hanno scelto o sceglieranno di far parte di Sinistra per Israele.
Un congresso politico e non un convegno
Lia Tagliacozzo
Inequivoche le scelte a cominciare dalla prima delle mozioni votate: aggiungere al nome storico della associazione “Sinistra per Israele” la dicitura “due popoli per due stati” in continuità con l’impegno espresso nella relazione di apertura da Piero Fassino, storico leader dell’associazione, da decenni impegnato nel dialogo con la sinistra ebraica e con la sinistra tout court per tentare di ricucire rapporti che si strapparono all’indomani della Guerra dei sei giorni nel ‘67.
Uno strappo durato anni con alcuni momenti di dialogo più sereno ma che all’indomani dell’attacco di Hamas il 7 ottobre 2023 si è di nuovo lacerato lasciando parte della sinistra ebraica senza casa politica e parte della sinistra sorprendentemente priva di strumenti per reagire all’ondata di un nuovo antisemitismo – a volte, e solo a volte – mascherata da antisionismo. In ideale continuità con la linea precedente la riconferma di Emanuele Fiano alla presidenza (la cui relazione, di grande respiro e spessore, ha offerto le coordinate del dibattito ed è rintracciabile facilmente in altre pagine).
Sbrigate le prime pratiche formali – elezione della presidenza del Congresso e formazione delle commissioni – si è avviato un congresso ‘politico’, pragmaticamente orientato al ‘fare’, come ha sottolineato Fiano in più passaggi della relazione di domenica.
“Un congresso politico e non un convegno”: un’indicazione questa sobriamente diretta alle molte anime che dentro Sinistra per Israele si incontrano e dibattono.
La determinazione delle critiche al governo di Benjamin Netanyahu, sostenuto dalla destra israeliana suprematista e razzista, non incontra la stessa fermezza in tutti i partecipanti: la discussione sulle tesi ha visto quindi momenti di dibattito interessante nonostante la brevità dei tempi.
Con diverse sfumature anche le posizioni sulla temibile amministrazione Trump e il piano di fare di Gaza una riviera di lusso deportando la popolazione palestinese: posizione contro cui il congresso si è espresso con una condanna inequivoca.
Dal dibattito – cha ha inevitabilmente considerato la tragica guerra di Gaza con le sue migliaia di morti, il conflitto con Hezbollah, il coinvolgimento dell’Iran, le recenti evoluzioni in Siria con la caduta del regime, la recente elezione di Trump – è emerso un quadro di grande preoccupazione, segnato – come denunciato dall’Osservatorio sull’antisemitismo del CDEC – da un crescente antisemitismo, spesso nascosto dall’ambigua formula dell’antisionismo, usata soprattutto a sinistra, ovvero presso coloro che dovrebbero essere i naturali interlocutori dell’Associazione.
Di straordinario interesse la sessione internazionale – moderata da Marco Pierini – che ha riservato osservazioni di ampio respiro e ha generato non poco sollievo nato dalla consapevolezza di non essere soli nell’attuale panorama politico, una sensazione che ha marcato l’azione di questo primo anno di attività: Abraham De Wolf (SPD-AKJS), Jon Pearce (del Labour Party britannico) e in collegamento on line Daniel Cohn-Bendit (scrittore e saggista).
Ma soprattutto, per la prima volta in Italia dal 7 ottobre, la contemporanea presenza di Yair Golan, leader del partito “I Democratici” nato dalla fusione del Labour e del Meretz, e Bernard Sabella rappresentante ANP-Autorità nazionale palestinese al Consiglio d’Europa e membro dell’Olp.
Facile cercare cosa mancava nel suo intervento (per esempio qualsiasi riferimento ad Hamas o ai fatti del 7 Ottobre) non scontata invece l’accettazione della formula due popoli per due stati e due ragioni al vaglio della storia.
Anche nel caso dell’intervento di Golan fa effetto l’inevitabile insistenza sulla questione sicurezza: senza sicurezza – sostiene – nessun israeliano di alcuna parte politica – accetterà mai la pace. Altre strade sono impraticabili e impercorribili, la sicurezza è madre della pace: da Israele il messaggio è forte e chiaro e a sottolinearlo anche l’intervento di Cohn-Bendit.
Vedi l’intervento di Yair Golan
A tenere insieme il pragmatismo della politica e la capacità di visione il primo degli interventi della sessione internazionale, il tedesco Abraham De Wolf, co-speaker dell’organizzazione ebraica della SPD.
Quando si ragiona di politica bisogna avere come bussola, a partire dai propri principi, la capacità di analisi da un lato e quella di visione dall’altro: principi in base al quale è possibile incidere e contribuire a cambiare l’orizzonte delle opzioni date.
“Noi non accettiamo – ha detto – la costruzione di un nemico eterno”. Prosegue invitando a pensare alla Shoah – un tema poco nominato al congresso ma che pure sembrava sottostare a molte delle riflessioni e degli interventi – “Quello che è importante – ha proseguito – è guardare a cosa è accaduto dopo la Shoah: il mondo ebraico ha deciso che non c’è nessuna colpa collettiva ed è stata esattamente questa convinzione che ha consentito di ricostruire il mondo ebraico dopo la catastrofe. Non c’è nessuno nemico eterno e non c’è nessuna colpa collettiva: questa consapevolezza ha permesso alla vita ebraica di ricominciare e al sionismo di diventare reale invece che restare un sogno parzialmente messianico. È una lezione che dovremmo applicare anche alla situazione odierna perché l’altro aspetto fondamentale è che, se si interiorizza l’idea del nemico eterno, si accetta anche l’idea della guerra eterna. E questa è sempre e comunque una restrizione della dignità umana, dei diritti umani e civili e del tentativo di raggiungere la giustizia sociale che sono gli aspetti principali dell’ebraismo”. “Temi importanti – ha aggiunto – che non vengono enfatizzati abbastanza”. Anche l’ipotesi dei due stati oggi sembra essere una visione “messianica”, collocata in un futuro imprecisato e lontano eppure è fondamentale “individuare dei passi concreti. Il primo, appunto, è rifiutare la logica del nemico eterno che ha come corollario una mentalità antidemocratica. Non avere un nemico eterno apre alla possibilità di comunicazione con l’altra parte in conflitto. La pace non può nascere solo da un negoziato in Norvegia – spiega con un chiaro riferimento agli accordi di Oslo – perché la società non è stata in grado di seguirne l’evolversi e analogamente è stato facile, dall’alto, azzerare i risultati raggiunti. E questo è un errore basilare che dobbiamo evitare. È necessario capire come la società civile possa riprendere lo slogan ‘due popoli per due stati’ e che siano entrambi stati democratici, uno stato democratico fondato su una società civile democratica. Questo è quello che ci aspettiamo da Israele e questo è quello che ci aspettiamo dallo stato di Palestina, che entrambi rifiutino la logica del nemico eterno”. Se l’impegno espresso dalle tesi congressuali riesce ad avere come principio cardine il rifiuto dell’idea della guerra eterna è necessario che questa non rappresenti il corollario dell’idea del nemico eterno. Tesi che fanno ben sperare e che rappresenteranno, forse, terreno di intesa con altre forze della sinistra – ebraica ma non solo – per un dialogo che interrompa i numerosi corto circuiti che intossicano il linguaggio e consentano la costruzione di prospettive di pace alla quale tutti siamo chiamati.
GLI ORGANI ELETTI
Presidente : Emanuele Fiano
Revisore dei Conti : Carlo Bianco
Collegio dei Garanti : Gabriele Eschenazi
Stefano Jesurum
Emanuela Piccioni
Comitato Direttivo Nazionale :
Giogio Albertini , Luca Alessandrini, Luciano Belli Paci, Massimiliano Boni,
Daniele Bonifati, Anselmo Calò, Donatella Capirchio, Valentina Caracciolo,
Ludovica De Benedetti Ariel Dello Strologo, Piero Fassino, Emanuele Fiano,
Anna Grattarola, Guido Laj, Fernando Liuzzi, Rosa Magiar, Victor Magiar,
Aurelio Mancuso, Sarah natale Sforni, Simone Oggionni, Marco Pierini,
Lia Quartapelle, Fausto Raciti, Anna Segre, Alessandra Tarquini, Aldo Winkler
Comitato Esecutivo nominato dal Comitato Direttivo Nazionale su proposta del presidente il 16 febbraio 2025
Emanuele Fiano Presidente
Victor Magiar Vicepresidente e responsabile organizzazione
Alessio Aringoli responsabile comunicazione
Luciano Belli Paci responsabile relazioni istituzionali
Donatella Capirchio tesoriera
Ludovica De Benedetti responsabile formazione
Piero Fassino
Marco Pierini responsabile relazioni internazionali
Lia Quartapelle
Alessandra Tarquini responsabile cultura
Invitati permanenti
Massimiliano Boni responsabile newsletter
Simone Santucci responsabile ufficio stampa

ASSOCIAZIONE NAZIONALE
SINISTRA PER ISRAELE – DUE POPOLI DUE STATI
STATUTO
Titolo I – Disposizioni Generali
Art. 1 – Denominazione e Sede
- È costituita l’Associazione Nazionale “Sinistra per Israele – due popoli due Stati” (di seguito denominata “Associazione”), con sede legale in via E. De Amicis 17, 20123 Milano.
- L’associazione può istituire sezioni territoriali, sia in Italia che all’estero, secondo le decisioni del Comitato Direttivo.
- L’Associazione è regolata dal presente Statuto e dalle leggi vigenti.
Art. 2 – Durata
La durata dell’Associazione è illimitata. L’Associazione potrà essere sciolta solo con deliberazione del Congresso Nazionale, secondo le modalità stabilite dal presente Statuto.
Art. 3 – Indipendenza e principi ispiratori
L’Associazione non ha alcuna affiliazione partitica, è indipendente da ogni altra organizzazione politica, sindacale e religiosa e si fonda sui principi di democrazia, pluralismo, trasparenza e partecipazione
Art. 4 – Finalità
- L’Associazione non ha scopo di lucro e raccoglie il testimone dal gruppo omonimo costituitosi all’indomani della Guerra dei sei giorni.
- Si prefigge i seguenti obiettivi:
- Sviluppare la conoscenza delle posizioni della sinistra israeliana e della Israele democratica, dei valori del sionismo e la solidarietà nei confronti del “campo della pace” in Israele;
- Contrastare i pregiudizi antiisraeliani, antisionisti e talora perfino antisemiti anche nella sinistra italiana, promuovendo e diffondendo le idee dell’associazione, favorendo il dibattito politico ovunque nella società ed in particolare nella sinistra, diffondendo le istanze delle associazioni internazionali affini; nonché la partecipazione attiva dei cittadini e lo sviluppo di una cultura politica partecipativa sul tema dei “due popoli e due stati” e della pace tra israeliani e palestinesi. Per il contrasto all’antisemitismo aderisce alla completa definizione dell’Ihra con tutti gli esempi inclusi, da utilizzare come supporto e diffondendone la sua conoscenza all’interno della sinistra Contribuire alla formazione politica e culturale dei cittadini, soprattutto giovani, attraverso attività di studio, formazione e confronto.
Titolo II – Associati
Art. 5 – Ammissione
Possono diventare soci dell’Associazione tutti i cittadini italiani, anche residenti all’estero, e stranieri residenti in Italia e nella Repubblica di San Marino, che abbiano compiuto il 16º anno di età e che condividano i principi e le finalità dell’Associazione e che ne sottoscrivano lo Statuto.
L’iscrizione è individuale.
L’ammissione avviene tramite richiesta scritta; tramite il pagamento della quota associativa annuale (fissata dal Comitato Direttivo ogni anno), e previa accettazione da parte del Comitato Direttivo.
Al momento dell’iscrizione si autorizza il trattamento dei dati personali secondo quanto previsto dall’art. 9, comma 2 del Regolamento UE 2016/679 in materia di protezione dei dati personali dalla normativa vigente in materia di trattamento dei dati personali.)
Art. 6 – Diritti degli Associati
I soci hanno diritto a:
- Partecipare attivamente alla vita e alle attività dell’Associazione.
- Votare e candidarsi per le cariche interne secondo quanto stabilito dal presente Statuto.
- Partecipare al Congresso Nazionale e a ogni altra iniziativa, nazionale e locale, dell’Associazione, con diritto di parola e voto.
Ricevere le informazioni sulle attività, le decisioni e i bilanci dell’Associazione.
Art. 7 – Doveri degli Associati
I soci sono tenuti a:C
- Rispettare lo Statuto e le decisioni degli organi dell’Associazione;
- Partecipare in modo costruttivo alle attività associative;
- Versare la quota associativa annuale nei tempi previsti;
- Promuovere e diffondere i valori e gli obiettivi dell’Associazione.
Art. 8 – Perdita della Qualità di Socio
La qualità di socio si perde per:
- Dimissioni volontarie, comunicate per iscritto;
- Morosità nel pagamento della quota associativa dopo comunicazione formale e oltre dodici mesi
- Provvedimento di espulsione deliberato dal Comitato dei Garanti per gravi violazioni dello Statuto o per comportamenti lesivi verso l’Associazione;
- Impossibilità.
Titolo III – Organi dell’Associazione
Art. 9 – Organi Sociali
Gli organi dell’Associazione sono:
- Il Congresso Nazionale;
- Il Presidente Nazionale;
- Il Comitato Direttivo Nazionale;
- Il Collegio dei Revisori dei Conti;
- Il Collegio dei Garanti;
- L’Assemblea dei Soci;
- Le sezioni territoriali.
Art. 10 – Congresso Nazionale
- Il Congresso Nazionale è l’organo sovrano dell’Associazione ed è convocato ogni quattro anni.
- È composto da tutti i soci in regola con il pagamento della quota associativa.
- Il Congresso ha le seguenti competenze:
- Approva le linee politiche e programmatiche dell’Associazione;
- Elegge il Presidente, il Comitato Direttivo Nazionale, il Collegio dei Revisori dei Conti e il Collegio dei Garanti;
- Modifica lo Statuto con maggioranza qualificata, pari ai tre quarti dei votanti, i quali devono essere almeno il 40% degli iscritti;
- Delibera su ogni questione di carattere politico e organizzativo;
Art. 11 – Presidente
- Il Presidente è eletto dal Congresso Nazionale e dura in carica quattro anni. È rieleggibile.
- Il Presidente rappresenta legalmente l’Associazione e ne promuove l’azione politica, secondo le direttive del Congresso e del Comitato Direttivo Nazionale.
- Convoca e presiede il Comitato Direttivo, curando l’esecuzione delle sue deliberazioni
- In caso di assenza o impedimento temporaneo, le funzioni del Presidente sono assunte dal Vicepresidente, nominato dal Comitato Direttivo.
Art. 12 – Comitato Direttivo Nazionale
- Il Comitato Direttivo Nazionale è l’organo dirigente dell’Associazione ed è composto da un numero di membri variabile, stabilito dal Congresso Nazionale, ma non inferiore a 15.
- Il Comitato Direttivo Nazionale coordina e dirige le attività dell’Associazione in base alle linee politiche approvate dal Congresso.
- I suoi compiti comprendono:
- Pianificare le attività politiche e organizzative;
- Gestire le risorse economiche e finanziarie;
- Proporre iniziative politiche da sottoporre al Congresso e agli iscritti;
- Nominare un Vicepresidente di fiducia del Presidente per assumerne la funzioni in caso di impedimento e, in caso di impedimento permanente, per assumerne le funzioni fino alla convocazione del congresso;
- Nominare al suo interno un tesoriere;
- Adoperarsi per il rispetto della parità di genere;
- Eleggere tutte le cariche, ad eccezione di quanto previsto dagli artt. 11, 15, 16 e 17.
- Il Comitato Direttivo Nazionale svolge le altre funzioni indicate dall’art. 14.
- I parlamentari nazionali ed europei iscritti a Sinistra per Israele sono invitati permanenti senza diritto di voto alle riunioni del Comitato Direttivo Nazionale, oltre a coloro i quali ne sono membri a tutti gli effetti perché eletti dal Congresso.
- Art. 7 – Doveri degli Associati
- I soci sono tenuti a:C
- Rispettare lo Statuto e le decisioni degli organi dell’Associazione;
- Partecipare in modo costruttivo alle attività associative;
- Versare la quota associativa annuale nei tempi previsti;
- Promuovere e diffondere i valori e gli obiettivi dell’Associazione.
- Art. 8 – Perdita della Qualità di Socio
- La qualità di socio si perde per:
- Dimissioni volontarie, comunicate per iscritto;
- Morosità nel pagamento della quota associativa dopo comunicazione formale e oltre dodici mesi
- Provvedimento di espulsione deliberato dal Comitato dei Garanti per gravi violazioni dello Statuto o per comportamenti lesivi verso l’Associazione;
- Impossibilità.
- Titolo III – Organi dell’Associazione
- Art. 9 – Organi Sociali
- Gli organi dell’Associazione sono:
- Il Congresso Nazionale;
- Il Presidente Nazionale;
- Il Comitato Direttivo Nazionale;
- Il Collegio dei Revisori dei Conti;
- Il Collegio dei Garanti;
- L’Assemblea dei Soci;
- Le sezioni territoriali.
- Art. 10 – Congresso Nazionale
- Il Congresso Nazionale è l’organo sovrano dell’Associazione ed è convocato ogni quattro anni.
- È composto da tutti i soci in regola con il pagamento della quota associativa.
- Il Congresso ha le seguenti competenze:
- Approva le linee politiche e programmatiche dell’Associazione;
- Elegge il Presidente, il Comitato Direttivo Nazionale, il Collegio dei Revisori dei Conti e il Collegio dei Garanti;
- Modifica lo Statuto con maggioranza qualificata, pari ai tre quarti dei votanti, i quali devono essere almeno il 40% degli iscritti;
- Delibera su ogni questione di carattere politico e organizzativo;
- Art. 11 – Presidente
- Il Presidente è eletto dal Congresso Nazionale e dura in carica quattro anni. È rieleggibile.
- Il Presidente rappresenta legalmente l’Associazione e ne promuove l’azione politica, secondo le direttive del Congresso e del Comitato Direttivo Nazionale.
- Convoca e presiede il Comitato Direttivo, curando l’esecuzione delle sue deliberazioni
- In caso di assenza o impedimento temporaneo, le funzioni del Presidente sono assunte dal Vicepresidente, nominato dal Comitato Direttivo.
- Art. 12 – Comitato Direttivo Nazionale
- Il Comitato Direttivo Nazionale è l’organo dirigente dell’Associazione ed è composto da un numero di membri variabile, stabilito dal Congresso Nazionale, ma non inferiore a 15.
- Il Comitato Direttivo Nazionale coordina e dirige le attività dell’Associazione in base alle linee politiche approvate dal Congresso.
- I suoi compiti comprendono:
- Pianificare le attività politiche e organizzative;
- Gestire le risorse economiche e finanziarie;
- Proporre iniziative politiche da sottoporre al Congresso e agli iscritti;
- Nominare un Vicepresidente di fiducia del Presidente per assumerne la funzioni in caso di impedimento e, in caso di impedimento permanente, per assumerne le funzioni fino alla convocazione del congresso;
- Nominare al suo interno un tesoriere;
- Adoperarsi per il rispetto della parità di genere;
- Eleggere tutte le cariche, ad eccezione di quanto previsto dagli artt. 11, 15, 16 e 17.
- Il Comitato Direttivo Nazionale svolge le altre funzioni indicate dall’art. 14.
- I parlamentari nazionali ed europei iscritti a Sinistra per Israele sono invitati permanenti senza diritto di voto alle riunioni del Comitato Direttivo Nazionale, oltre a coloro i quali ne sono membri a tutti gli effetti perché eletti dal Congresso.
Art. 13 – Funzionamento del Comitato Direttivo Nazionale
- Il Comitato Direttivo Nazionale è convocato dal Presidente ogni qualvolta questi lo ritenga opportuno oppure ne sia fatta richiesta dal 30% dei consiglieri.
- Alle sedute del Comitato Direttivo Nazionale possono essere invitate a partecipare senza diritto di voto fino a tre persone in ragione degli argomenti previsti dall’ordine del giorno.
- La convocazione è fatta mediante e-mail con avviso di ricezione, contenente l’indicazione del luogo, del giorno e dell’ora della riunione e l’elenco delle materie da trattare, spedita a tutti i consiglieri almeno cinque giorni prima dell’adunanza; anche in assenza delle suddette formalità il Comitato Direttivo Nazionale è validamente costituito ed atto a deliberare qualora siano presenti tutti i suoi membri.
- Il Comitato Direttivo Nazionale si riunisce almeno tre volte all’anno.
- Il Comitato Direttivo Nazionale è validamente costituito qualora siano presenti almeno la metà più uno dei suoi membri anche collegati con mezzi telefonici e/o teleconferenza.
- Le deliberazioni del Comitato Direttivo Nazionale sono assunte con il voto favorevole della maggioranza dei consiglieri in carica. In caso di parità prevale il voto del Presidente. Delle deliberazioni viene redatto apposito verbale sottoscritto dal Presidente e dal Segretario.
- Il consigliere che non fa pervenire alla sede dell’associazione o in via digitale (mail o forme di comunicazione simili) la giustificazione scritta della sua assenza per due volte nell’esercizio decade automaticamente dall’incarico.
- Venendo meno la maggioranza dei membri del Comitato Direttivo Nazionale, lo stesso decade. In tal caso viene prorogato fino all’elezione dei nuovi organi e occorrerà far luogo alla sua rielezione da parte dell’Assemblea nazionale, convocata ai sensi dell’art. 17.
- Spettano al Comitato Direttivo Nazionale i compiti di gestione dell’Associazione, nell’ambito degli indirizzi fissati dal Congresso.
Art. 14. Altre funzioni del Comitato Direttivo Nazionale
Oltre a quanto indicato dall’art. 12, il Comitato Direttivo Nazionale svolge le seguenti funzioni:
- Cura l’amministrazione ordinaria e straordinaria dell’Associazione, tranne le trasformazioni e le fusioni, lo scioglimento e la messa in liquidazione dell’Istituto e le modifiche del presente Statuto, materie che competono al Congresso;
- cura l’esecuzione del mandato del Congresso;
- elabora le linee programmatiche e i piani per l’attività dell’Associazione alla luce degli indirizzi espressi dal Congresso e garantisce che l’operato dell’Associazione sia sempre ispirato agli scopi e ai valori indicati all’art. 2;
- delibera l’entità delle quote associative per ogni anno di esercizio;
- predispone i bilanci preventivi e consuntivi ai sensi del successivo art.12;
- delibera i regolamenti interni;
- delibera su eventuali dipendenti, e stipula e risolve eventuali contratti di collaborazione e di consulenza;
- costituisce commissioni di lavoro, fissandone la composizione, i compiti, la durata e ne nomina i rispettivi coordinatori;
- nomina i rappresentanti dell’Associazione presso altri enti;
- compie tutti gli atti che ritenga opportuni per lo svolgimento dell’attività dell’Associazione e per l’attuazione dei suoi scopi;
- ha facoltà di attribuire a uno o più dei suoi membri il compimento di determinati atti in nome e per conto dell’Associazione;
- Convoca le assemblee nazionali degli iscritti
- Convoca il Congresso dell’Associazione.
Art. 15 – Collegio dei Revisori dei Conti
- Il Collegio dei Revisori dei Conti è composto da uno o tre membri su decisione del Congresso Nazionale, che li elegge, al pari dei membri supplenti. Dura in carica quattro anni.
- I membri del Collegio sono incompatibili con altri ruoli Direttivi.
- Il Collegio vigila sulla gestione economica e finanziaria dell’Associazione e ne garantisce la correttezza amministrativa-contabile.
- Il Collegio presenta una relazione annuale all’Assemblea dei Soci e al Congresso Nazionale.
Art. 16 – Collegio dei Garanti
- Il Collegio dei Garanti è composto da tre membri eletti dal Congresso Nazionale. Gli eletti sono incompatibili con altri ruoli Direttivi.
- Il Collegio dei Garanti ha il compito di dirimere le controversie interne all’Associazione e di garantire l’osservanza dello Statuto.
- Le decisioni del Collegio dei Garanti sono definitive e vincolanti.
Art. 17 – Assemblea Nazionale
- L’Assemblea Nazionale è composta da tutti gli iscritti in regola con il pagamento delle quote associative.
- L’Assemblea Nazionale viene convocata, con almeno 15 giorni di preavviso, di regola una volta l’anno.
- L’Assemblea può svolgersi anche nella forma di videoconferenza.
- L’Assemblea Nazionale è il luogo di discussione e confronto politico dell’Associazione. Discute la relazione del presidente, propone emendamenti, vota eventuali mozioni.
- Lo svolgimento dell’Assemblea Nazionale è assicurato da una presidenza formata da iscritti in numero dispari, scelti dal Comitato Direttivo Nazionale o proposti da un numero minimo di iscritti pari al 30% del totale, tenendo conto della rappresentanza di genere.
- Modifica lo Statuto con maggioranza qualificata, pari ai tre quarti dei votanti, i quali devono essere almeno il 40% degli iscritti.
Art. 18 – Sezioni Territoriali
- Le Sezioni Territoriali sono gli organi periferici dell’Associazione, costituiti su base regionale o provinciale.
- Esse promuovono le attività politiche in coerenza con l’attuale statuto dell’Associazione nel territorio informandone il Comitato Direttivo Nazionale.
- L’Assemblea degli iscritti della sezione nomina un coordinamento e, al suo interno, un coordinatore
- Le sezioni sono dotate di autonomia finanziaria e redi
gono un bilancio locale - I coordinatori delle sezioni rappresentano l’associazione a livello regionale. Essi coordinano le attività locali e supportano il tesseramento e la mobilitazione regionale.
Titolo IV – Risorse Economiche e Patrimonio
Art. 19 – Entrate dell’Associazione
Le risorse economiche dell’Associazione provengono da:
- Quote associative versate dai soci;
- Donazioni e contributi volontari;
- Eventuali finanziamenti pubblici e privati, nel rispetto delle leggi vigenti;
- Proventi derivanti da attività politiche, culturali e sociali organizzate dall’Associazione.
Art. 20 – Gestione delle Risorse
- L’Associazione redige annualmente un bilancio consuntivo e un bilancio preventivo, ai sensi dell’art. 14, comma 5, previa revisione dei Revisori.
- Il patrimonio dell’Associazione è utilizzato esclusivamente per il raggiungimento delle finalità statutarie.
Titolo V – Scioglimento dell’Associazione
Art. 21 – Scioglimento
- Lo scioglimento dell’Associazione può essere deliberato dal Congresso Nazionale con la maggioranza dei tre quarti dei presenti.
- In caso di scioglimento, il patrimonio residuo dell’Associazione sarà devoluto ad altre organizzazioni senza scopo di lucro che perseguano finalità analoghe.
Titolo VI – Norme Transitorie e Finali
Art. 22 – Modifiche Statutarie
- Il Comitato Direttivo eletto dal Congresso di Roma dell’8-9 febbraio 2025 si fa carico di verificare la possibilità di iscrivere Sinistra per Israele nei registri delle associazioni del Terzo Settore
Art. 23 – Modifiche Statutarie
- Nella fase preparatoria e fino alla conclusione del congresso nazionale dell’8 e 9 febbraio 2025 le modifiche al presente Statuto possono essere proposte dal Comitato Direttivo o da almeno il 30% degli iscritti e sono approvate dal Congresso Nazionale con una maggioranza semplice dei votanti
Art. 24 – Rinvio alle Norme di Legge
- Per quanto non espressamente previsto dal presente Statuto, si fa riferimento alle disposizioni del Codice Civile e alle normative vigenti in materia di associazioni.
- Lo statuto entra in vigore dal 1° gennaio 2025.

SINISTRA PER ISRAELE – DUE POPOLI, DUE STATI
Dieci tesi e cinque compiti
al servizio di un orizzonte di pace e convivenza
1. Il futuro in Medio Oriente ha un cuore antico
Da quasi sessant’anni la nostra associazione si rivolge alla sinistra italiana, cioè al campo nel quale militiamo. Offre stimoli, sollecita interlocuzioni e approfondimenti, porta con passione e dedizione argomenti a sostegno dell’idea per la quale Sinistra per Israele è nata all’indomani della Guerra dei sei giorni del 1967. L’idea è semplice: l’unica soluzione al conflitto arabo-israeliano e israelo-palestinese è l’orizzonte di due Stati per due popoli. Questa è l’unica prospettiva giusta e necessaria, di pace e convivenza, per un assetto stabile dell’area mediorientale e per la salvaguardia dei diritti di tutti i popoli.
Siamo nati, all’indomani del conflitto del 1967, per ricucire lo strappo che aveva separato parte della sinistra italiana da Israele e aveva contraddetto lo storico sostegno espresso dalla sinistra mondiale alla nascita del nuovo Stato. Quello strappo — in buona parte ricucito a partire dagli anni Novanta — si è nuovamente aperto e appare oggi ancora più esteso dopo il massacro del 7 ottobre 2023, la guerra di Gaza e i successivi tragici sviluppi.
Con questo nostro Congresso di rilancio politico e organizzativo vogliamo confermare le nostre ragioni fondative, le ragioni di chi crede in una soluzione di pace e convivenza negoziata e condivisa.
Allo scopo, aggiorniamo il nostro nome, affiancando a «Sinistra per Israele» la parola d’ordine «due popoli, due Stati», che mai come oggi — in tempi in cui l’obiettivo sembra allontanarsi — costituisce la nostra stella polare.
2. Dall’orizzonte alla pratica: riprendere un percorso per la pace
Il traguardo a cui tendiamo è tornare a rendere politicamente praticabile il valore della convivenza, con la convinzione profonda che nel teatro del conflitto non si scontrino un torto e una ragione bensì due ragioni ineludibili. È una ragione, infatti, il diritto di Israele a esistere nella sicurezza, riconosciuto dai suoi vicini, così come è una ragione l’aspirazione del popolo palestinese a un proprio Stato indipendente.
Come riprendere il processo di pace? Come rendere realistico l’obiettivo di una convivenza tra due Stati democratici autonomi e in grado di vivere in sicurezza all’interno dei rispettivi confini? Come rendere praticabile il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese senza deflettere rispetto alla necessità di riconoscere e consolidare il diritto di Israele a vivere sottraendosi alla minaccia quotidiana di forze che lo vorrebbero distruggere?
La risposta a questi interrogativi sta per noi nella capacità di costruire un percorso negoziale. Il processo di pace, anche se oggi appare lontano, necessita di tappe intermedie, di conquiste e concessioni reciproche, di una visione politica pari a quella che mosse il consesso delle Nazioni nell’Assemblea ONU del 1947 e Israele nella sua Dichiarazione di Indipendenza del 14 maggio 1948, con la quale il nuovo Stato tendeva «una mano di pace e di buon vicinato a tutti gli Stati vicini e ai loro popoli» e faceva «loro appello affinché stabilissero legami di collaborazione e di aiuto reciproco con il sovrano popolo ebraico».
Se è questo l’obiettivo, inscritto in un atto fondativo che dichiara «lo Stato d’Israele pronto a compiere la propria parte in uno sforzo comune per il progresso del Medio Oriente intero», se questo è l’orizzonte che deve motivare l’avvio di un processo di pace, occorre oggi calibrare obiettivi intermedi. Yair Golan, segretario dei Democratici in Israele, riprende un’intuizione di Amos Oz che noi condividiamo: separarsi oggi, interrompere gli insediamenti, ritirarsi dai territori occupati e porre fine alla annessione de facto della Cisgiordania, per convivere meglio domani.
Noi pensiamo che questo obiettivo possa essere il punto di partenza del processo di pace, teso a una separazione consensuale che in una prima fase preveda nella striscia di Gaza un coinvolgimento di Israele, dell’ANP e della comunità internazionale, la quale può e deve tornare a svolgere un ruolo attivo e positivo. È necessario innanzitutto creare le condizioni perché si superi la spirale dell’odio in cui sono precipitati i due popoli, contrastandola in radice, a partire dai sistemi educativi.
Raggiunto dopo quindici mesi di conflitto un accordo di cessate il fuoco, occorre compiere tutti i passi necessari senza rompere un equilibrio che rimane fragilissimo. Si tratta di ottenere il rilascio di tutti gli ostaggi; di procedere al ritiro progressivo dell’esercito israeliano, garantendo al contempo il regolare afflusso degli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza e il ritorno in sicurezza nelle proprie case della popolazione del nord e del sud d’Israele; e di avviare infine un piano di ricostruzione della Striscia sotto la supervisione internazionale. Qualsiasi ipotesi di espulsione coatta di palestinesi dalla Striscia, sradicandoli dalla loro terra — come quella avanzata dal presidente Usa Trump — va respinta con fermezza in quanto contraria alle norme fondamentali della convivenza civile e del diritto internazionale. La proposta di Trump, inoltre, rischia di mettere in pericolo la fragile tregua raggiunta e di destabilizzare l’intera regione mediorientale.
3. Un presupposto indiscutibile: il diritto alla sicurezza
Mai come oggi la sicurezza di Israele, così come il suo stesso diritto a esistere, sono posti in discussione. Negli obiettivi e nella pratica terroristica di Hamas, di Hezbollah e degli Houthi, nella negazione di Israele propalata dal governo iraniano. E anche, purtroppo, nel sentire comune di una parte della comunità internazionale e di una parte della sinistra mondiale. La stessa sottovalutazione di questa evidenza, che alberga in settori molto ampi dell’opinione pubblica progressista italiana, è parte del problema che dobbiamo affrontare.
La strada della pace è oggi impervia. Chi vuole percorrerla ha il dovere di non rassegnarsi e di cogliere all’indomani del cessate il fuoco lo spazio di opportunità che si è aperto.
Per noi ogni serio processo di pace non può che fondarsi sulla sicurezza di Israele e di un futuro Stato palestinese, sul loro diritto a esistere e vivere in sicurezza all’interno dei propri confini. Questo presupposto è un punto irrinunciabile e non negoziabile. Lo è oggi così come lo fu negli Accordi di Oslo del 1993, fondati sul reciproco riconoscimento, sull’accettazione dello Stato di Israele da parte dell’Olp, sulla rinuncia di questi al terrorismo e alla violenza.
4. La migliore garanzia per la sicurezza? La politica e non la guerra
Anche la sicurezza, come la pace, non è soltanto un valore astratto. Senza ombra di dubbio la sicurezza si conquista, e si garantisce, impedendo che all’interno dei confini di Israele o immediatamente al di fuori di essi agiscano organizzazioni terroristiche il cui intento è la distruzione dello Stato di Israele.
Dopo il 7 ottobre l’obiettivo di colpire l’organizzazione terroristica di Hamas e i suoi alleati più prossimi si è indubitabilmente configurato come un’operazione di legittima e necessaria autodifesa. Il diritto all’autodifesa non può essere disconosciuto. Ciò, tuttavia, non ha significato per noi condividere tutte le modalità e gli esiti della guerra combattuta in questi quindici mesi a Gaza.
In questa luce, esprimiamo due convinzioni. La prima è che lo strumento più efficace per ottenere, per consolidare e per garantire la sicurezza, degli israeliani come dei palestinesi, è precisamente la politica, la quale deve, finalmente, tornare a occupare lo spazio sottrattole dalla guerra in questi mesi. La seconda è che la strategia complessiva perseguita da Netanyahu si è dimostrata fallimentare: dopo non essere stata in grado di impedire il tragico attacco del 7 ottobre, essa infatti, da un lato, ha prodotto un esito tragico per la popolazione civile palestinese, con violazioni del diritto internazionale umanitario che possono configurarsi come crimini nello svolgimento della guerra; e dall’altro lato non ha raggiunto l’obiettivo annunciato della completa eliminazione del potenziale militare e politico di Hamas, le cui attività criminali peraltro sono proseguite anche nei mesi della guerra, come dimostra per esempio l’utilizzo dei civili come scudi umani nei confronti di arsenali e infrastrutture militari. È necessario, al contrario, agire in coerenza con il diritto internazionale e favorire il determinarsi di condizioni politiche, interne ed esterne, che consentano di agire a tutti coloro che, in Medio Oriente e sullo scenario globale, intendono contribuire a un accordo in continuità con Oslo.
5. Per un’iniziativa di stabilizzazione e un equilibrio multipolare
Se il cessate il fuoco deve essere il primo passo per ottenere la rapida e totale liberazione degli ostaggi e per creare le condizioni per l’avvio di un negoziato diplomatico e politico, sul piano regionale occorre raffreddare le tensioni, evitando ogni ulteriore iniziativa militare.
Questi lunghi mesi di guerra hanno infatti esacerbato il rischio di un conflitto regionale come potenziale innesco di una guerra ancora più vasta. Anche la caduta del regime di Assad in Siria, sicuramente favorita dal fortissimo indebolimento politico e militare di Hezbollah, ha dimostrato nei mesi scorsi che l’attuale evoluzione dello scacchiere contiene caratteri i cui effetti sono imprevedibili e possono essere pericolosi.
Il necessario raffreddamento della tensione, tuttavia, non basta: occorre restituire a Israele credibilità e sostegno nel consesso internazionale.
In primo luogo all’interno delle Nazioni Unite e in rapporto con il suo Consiglio di sicurezza, garantendo che la missione Unifil — anche con un diverso mandato — svolga fino in fondo i propri compiti, coadiuvando il governo di Beirut nel ripristino e nell’esercizio della sua autorità nella zona di frontiera, contenendo e disarmando Hezbollah e impedendone sia l’azione di governo abusivo del territorio sia i suoi rapporti militari con Hamas. Unifil, con un’azione mirata, innanzitutto di intelligence e di deterrenza, deve avere gli strumenti per impedire che il sud del Libano torni a essere la rampa di lancio di una prolungata aggressione a Israele. Alle Nazioni Unite, la cui inefficacia in questi anni è sotto gli occhi di tutti, occorre affiancare un nuovo protagonismo degli attori regionali disponibili a contrastare le mire iraniane, a convivere e cooperare con Israele e, complessivamente, a un’iniziativa di stabilizzazione: dall’Arabia Saudita agli altri Paesi del Golfo, dalla Giordania all’Egitto e, in potenza, all’intera Lega Araba.
L’Unione Europea — nella quale l’Italia è incardinata e nel cui progetto federalista noi ci riconosciamo — è la grande assente anche di questo scenario. Ed è dell’Unione Europea — primo partner commerciale di Israele e principale sostenitore finanziario dell’ANP — che noi sollecitiamo un protagonismo coerente con la prospettiva di un equilibrio multipolare, di un assetto di pace e di cooperazione internazionale.
Rigettiamo l’azione della destra mondiale contro il multilateralismo, le Nazioni Unite e le organizzazioni internazionali.
6. Israele non è né può essere identificato con il governo Netanyahu
Bisogna contrastare nettamente l’equazione che fa coincidere Israele con Netanyahu e il suo governo. Per quanto possa apparire paradossale, quella parte dell’opinione pubblica italiana e mondiale che agita lo slogan di una «Palestina libera dal fiume al mare», considera i terroristi di Hamas come resistenti e invoca unilateralmente la censura di Israele, è del tutto in sintonia — su questo punto — con la propaganda del governo Netanyahu.
Come per i primi non esiste alcuna differenza tra lo Stato di Israele e il suo governo (e per taluni il suo popolo; e per alcuni tra questi gli ebrei ovunque residenti nel mondo), così anche per Netanyahu questa equazione estensiva è decisiva e intoccabile. Ma Netanyahu non coincide con Israele, un Paese plurale da un punto di vista etnico, culturale, religioso e politico. Non coincide neppure integralmente con i poteri esecutivi del governo, che gli sono soltanto contingentemente affidati.
Netanyahu è oggi il capo di un governo che — anche dopo le dimissioni di Ben Gvir — noi consideriamo di estrema destra, contro la pace e contro la democrazia israeliana. Un governo erede di chi ha combattuto da sempre Rabin e la sinistra israeliana; un governo che per molto tempo ha consentito il trasferimento di milioni di dollari dal Qatar a Hamas; e che ha strategicamente preferito Hamas all’Autorità Palestinese con l’obiettivo di archiviare ogni possibile recupero del processo di Oslo, abbandonando così ogni opzione politica di soluzione del conflitto.
I governi di Netanyahu hanno responsabilità storiche molto gravi: aver escluso il negoziato politico con i palestinesi, alimentandone le divisioni interne a vantaggio di Hamas; aver perseguito progetti di riforma dello Stato israeliano mirati a indebolirne il carattere democratico, a cominciare dalla riforma della giustizia del 2023; aver disposto un progetto anti-egualitario all’interno della società israeliana, sostenendo la Legge Fondamentale del 2018 che definisce Israele Stato-nazione degli ebrei senza alcuna clausola di equità per le altre componenti etniche e religiose, in piena contraddizione con lo spirito della Dichiarazione d’Indipendenza; avere finanziato e incoraggiato la politica — immorale, ingiusta e contraria al diritto internazionale — degli insediamenti nei Territori palestinesi occupati; non aver in alcun modo impedito e contrastato l’azione violenta e terroristica dei settori più fanatici dei coloni; avere rotto la conventio ad excludendum dalle maggioranze governative (accettata perfino all’interno della destra revisionista) rispetto alle formazioni politiche di estrema destra, sdoganando gli eredi del terrorista Meir Kahane e alleandosi con “Potere Ebraico” e “Sionismo Religioso”.
L’attuale governo israeliano — che crediamo debba rispondere politicamente innanzitutto dei pesanti effetti di questa guerra — è un ostacolo insormontabile alla realizzazione di un processo di pace e convivenza. Dal che discende l’urgenza della sua sostituzione democratica con una leadership che creda in un processo di pace e convivenza e lo persegua con determinazione.
L’intera, cupa, parabola di Netanyahu va ricondotta, con la politica, a parentesi nella storia di Israele, contro il rischio che diventi al contrario persino paradigma delle trasformazioni involutive e delle torsioni autoritarie della nuova destra occidentale e sovranista che, dagli Stati Uniti a molti Paesi d’Europa, si candida con prepotenza a governare i prossimi decenni.
7. L’Israele che lotta
Esiste un altro Israele: progressista e pluralista. Un Israele che pensa sé stesso come uno Stato laico, democratico e accogliente, che riconosce eguali diritti ai suoi cittadini, come stabilito dalla Dichiarazione di Indipendenza che lo ha fondato «sulla libertà, sulla giustizia e sulla pace», assicurando «completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso», garantendo «libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura», proclamando fedeltà «ai principi della Carta delle Nazioni Unite» e facendo appello anche «ai cittadini arabi dello Stato di Israele affinché mantengano la pace e partecipino alla costruzione dello Stato sulla base della piena e uguale cittadinanza».
Questo Israele alternativo a Netanyahu e ai suoi alleati non esiste solo nei libri e nei documenti della storia né è l’oggetto di un nostalgico ricordo della stagione del sionismo laburista. Esiste nei fatti. È una concreta realtà: nelle manifestazioni per la democrazia e contro il governo che portano in piazza centinaia di migliaia di cittadini dall’inizio del 2023; nelle mobilitazioni di coloro che si battono per i diritti civili, contro ogni discriminazione, e in particolare contro l’omobilesbotransfobia e la misoginia; nel 69% dell’opinione pubblica che secondo i sondaggi chiede un accordo per il
rilascio degli ostaggi; nelle numerose associazioni che praticano sul campo il dialogo tra israeliani e palestinesi; negli apparati di sicurezza che da anni denunciano l’insostenibilità dell’occupazione e la necessità del negoziato politico; nelle dichiarazioni di autorevoli esponenti politici di passati governi e nelle nuove esperienze che stanno guadagnando campo come i Democratici di Yair Golan; nel mondo della cultura e delle arti e nella libera stampa.
Esiste una maggioranza, in Israele, che — nonostante le difficoltà legate allo sforzo di garantire la sicurezza — crede nel confronto politico e che ritiene imprescindibile che Israele rimanga uno Stato ebraico e democratico, ossia prodotto dell’autodeterminazione nazionale degli ebrei ma pluralista, aperto, fondato sul principio dell’uguaglianza di fronte alla legge.
Questo principio, così come il principio di libertà che anima la società israeliana, è l’antidoto possibile contro i tentativi di torsione antidemocratica e illiberale.
Per questo motivo Sinistra per Israele ritiene essenziale che anche la sinistra italiana colga questo fermento, sappia veicolarlo nell’opinione pubblica del nostro Paese, lo ascolti nelle sue legittime richieste, lo sostenga — nelle forme possibili e ben consapevoli dei limiti di un’azione esterna — anche allo scopo di aiutare questa maggioranza di cittadini ad articolarsi in un progetto politico vincente alle prossime elezioni per il rinnovo della Knesset.
8. Il diritto del sionismo
Sinistra per Israele agisce per ribadire la dignità del sionismo storico, nella sua dimensione di movimento di liberazione nazionale e sociale degli ebrei, volto a costruire in Palestina una patria comune e, dopo la fondazione dello Stato il 14 maggio 1948, al suo consolidamento.
Di fronte a una diffusa ma inaccettabile brutalizzazione e banalizzazione del concetto e della storia del sionismo, equiparato negli slogan di molti e nelle interpretazioni accademiche di taluni a una forma di colonialismo di rapina, sentiamo l’esigenza di muoverci in direzione contraria.
Sicuramente nella storia sono esistiti ed esistono sionismi diversi. Sono esistite correnti più esplicitamente legate alla tradizione ebraica, di carattere anche religioso. Come correnti caratterizzate dall’adesione agli ideali del movimento socialista e altre caratterizzate da un nazionalismo esclusivista.
Queste diverse tendenze si sono nel corso della storia intrecciate e differenziate, dando vita a collocazioni politiche talvolta diverse, talvolta opposte.
Certo è che il contributo decisivo alla nascita e alla costruzione dello Stato di Israele è venuto dal sionismo socialista: dall’esperienza dei kibbutzim e dei moshavim, da un solidarismo di matrice laburista che, come dimostra l’esempio di Enzo Sereni, ha arato la terra di Israele per creare uno Stato come casa sicura per gli ebrei e per tutti i suoi abitanti e una società fondata sulla cooperazione, il lavoro, la giustizia e l’eguaglianza.
Dopo l’uccisione di Rabin nel 1995, il fallimento degli accordi di Oslo e la presa del potere di Hamas a Gaza, si sono imposti invece gli eredi politici del sionismo revisionista, una corrente esplicitamente di destra e fondata sul progetto del Grande Israele. Giunta al governo, questa destra si è alleata all’oltranzismo e al suprematismo etnico-religioso.
Proprio la complessità del contesto e le vicende drammatiche dell’oggi ci pongono davanti a una grande sfida che noi sentiamo nostra.
La sfida è riconnettersi alla radice socialista e laburista del sionismo per innovarla. Per problematizzarla e finanche per metterla in discussione, perché nella storia delle idee ogni idea è figlia del proprio tempo e nulla è immutabile, ma al contempo — nella storia, nella politica, nella vita — è necessario individuare una tradizione, stabilire un legame con essa.
9. La Palestina non può essere Hamas
Quando negli anni Novanta si aprì e si consolidò la stagione del processo di pace fu anche grazie alla presenza, nella società civile e politica palestinese di Cisgiordania, di una élite laica e pragmatica, che era infine approdata a una prospettiva di riconoscimento reciproco e di convivenza pacifica.
Hamas è tutt’altro. Il suo disegno non è un progetto di resistenza, non ha a cuore l’interesse del popolo palestinese e non è interessato ad alcun processo che porti alla nascita di uno Stato palestinese in convivenza con lo Stato di Israele. Quello di Hamas, al contrario, è un disegno islamista, totalitario, teocratico, reazionario, antisemita, nemico dei diritti umani, delle donne, delle persone LGBTQ e di ogni differenza, perseguito attraverso metodi dittatoriali e terroristici.
Non solo la causa dell’autodeterminazione palestinese non può essere in alcun modo difesa attraverso il terrorismo, ma il terrorismo di Hamas ha dimostrato di non avere nulla a che vedere con la difesa della causa palestinese. Ne è indifferente, perché persegue obiettivi di potere che prescindono dagli interessi palestinesi. La ostacola, perché vive in totale spregio di qualunque principio democratico e allontana l’avvio di qualunque processo di pace.
Siamo convinti che il fronte palestinese abbia invece bisogno di una nuova leadership che sappia rigenerare l’azione Dell’Autorità Nazionale Palestinese e archiviare anni di errori (a partire dal rifiuto delle proposte di Clinton nel 2000 e di Olmert nel 2008), opacità, incapacità prima di impedire e poi di contenere l’iniziativa terroristica: una leadership laica e pragmatica, disposta a riconoscere le necessità di sicurezza di Israele e che si dedichi con impegno al processo di costruzione delle proprie istituzioni nazionali, culturali e politiche.
Una leadership che si affranchi dai progetti egemonici della Repubblica islamica dell’Iran e che si inserisca nel quadro della stabilizzazione che il mondo arabo, nel Golfo come altrove, ricerca con lo Stato d’Israele.
Una leadership che sappia, anche in dialogo con la sinistra europea e mondiale, come fu già nella stagione di Oslo, promuovere nella propria società civile le forze del dialogo e del compromesso, scommettendo sulla capacità di assumersi le responsabilità che la fase storica impone e di agire con maturità, contrastando i fenomeni di corruzione, di educazione all’odio e alla violenza, avviando un percorso di ricostruzione democratica difficile quanto indispensabile.
Ovviamente la scelta dell’autodeterminazione implica la scommessa dell’autogoverno in base a principi democratici messi alla prova con elezioni generali e libere, esattamente come previsto già negli accordi di Oslo e nello stesso Statuto dell’ANP. Serve una nuova leadership palestinese legittimata dal consenso popolare e accompagnata in un processo di ricostruzione dalle macerie della dittatura e del terrorismo.
Il fatto che, in questo momento, la politica della paura di Hamas e la debolezza dell’attuale leadership dell’ANP sembrino le uniche due alternative possibili non può e non deve impedire gli sforzi nella direzione auspicata. Non è vero che non esistono alternative: l’alternativa è possibile, le minoranze possono diventare maggioranze. Compito dei costruttori di pace è accompagnarle in questo percorso.
10. Contro l’antisemitismo
Nelle società contemporanee assistiamo al risorgere dell’antisemitismo. Si tratta di un fenomeno bimillenario, variegato e complesso, che ha molte matrici e molte espressioni: un fenomeno violento e razzistico. Al di là delle sue origini, e della sua capacità di attraversare culture politiche differenti, l’antisemitismo è oggi una realtà pervasiva che va riconosciuta e combattuta nei diversi luoghi dell’agire pubblico: nelle scuole, nei posti di lavoro, nella vita collettiva che svolgiamo quotidianamente. Per questo esprimiamo la nostra profonda preoccupazione per una opinione pubblica sempre più assuefatta alle manifestazioni di pregiudizio contro gli ebrei e contro le comunità ebraiche.
Gli ebrei vengono nuovamente ridotti a stereotipo, in un mescolamento confuso di pregiudizio e ignoranza. L’ebreo a capo di élite in grado di controllare i media e la finanza, l’ebreo rappresentante paradigmatico del capitalismo, l’ebreo del Dio vendicativo e del deicidio, l’ebreo portatore del privilegio bianco ed eterno colonialista, l’ebreo che in fondo si è meritato la Shoah e ogni altra forma di persecuzione, l’ebreo non più vittima ma carnefice, l’ebreo nemico dell’Islam: questi luoghi comuni e molti altri avvelenano il dibattito pubblico, molto spesso con l’abile e conveniente sostituzione di “ebreo” con “israeliano”. Qui, su quest’ultimo crinale, si colloca la natura antisemita di posizioni antisioniste che delegittimando il diritto di Israele a esistere reiterano posture e stereotipi antisemiti.
In questo perimetro, denunciamo quella che a noi appare come una delle più odiose posizioni che talvolta si annidano anche nella sinistra e nel campo progressista: la negazione, la banalizzazione o lo stravolgimento del significato del 27 gennaio e delle ricorrenze legate alla memoria dello sterminio degli ebrei d’Europa, con il loro carico di violenza verso i sopravvissuti della Shoah. Nello stesso solco si inserisce l’utilizzo improprio della categoria di genocidio per connotare la guerra a Gaza: una scelta improvvida sul piano storico e concettuale e dettata da uno scopo ben preciso, cioè relativizzare la Shoah e suggerire la tesi del rovesciamento di ruolo tra le vittime e i carnefici. Si tratta di un’onta che occorre cancellare, con la pazienza pedagogica dello studio e della politica.
Al contempo, Sinistra per Israele combatte ogni forma diversa di razzismo in Italia, a partire dalla recrudescenza di fenomeni e sentimenti islamofobici, alimentati da una destra che perpetua, come in tutto il mondo, gli schemi comportamentali del razzismo scagliandoli contro una cultura religiosa, e una componente della nostra società, che mai e per nessun motivo può diventare oggetto di uno «scontro di civiltà». Al contrario, essa deve sempre più diventare soggetto del dialogo e della comprensione reciproca.
11. Da noi verso Israele
Il primo compito di Sinistra per Israele è quello di consolidare le relazioni politiche con la sinistra israeliana, con le forze democratiche e progressiste, con le associazioni che animano le proteste antigovernative, con le realtà che — all’interno della sinistra europea e mondiale — svolgono come noi il duplice lavoro di sostegno alla causa del sionismo socialista e della pace tra israeliani e palestinesi. Per questo occorre innanzitutto agevolare il rafforzamento dei rapporti tra i partiti e le associazioni del centrosinistra italiano e gli omologhi israeliani, offrendosi ai primi come ponte possibile tra Italia e Israele.
Occorre far conoscere in Italia queste realtà, dare loro spazio con iniziative politiche e mediatiche, e coordinare le nostre azioni in una rete più ampia, stabile e regolarmente convocata di associazioni sorelle, in Europa e non solo, come per esempio J Street e la Democratic Majority for Israel negli Usa, i Labour Friends of Israel nel Regno Unito, J Call in Europa.
È inoltre centrale, per parte nostra, dare spazio alle associazioni e ai movimenti di dialogo arabo-ebraico, alle organizzazioni palestinesi e israelo-palestinesi di peacebuilding, come ad esempio la rete ALLMEP.
In questo senso, consideriamo importante offrire sostegno e stimolo a tutte le iniziative che — sul modello di quella promossa dall’ex primo ministro israeliano Olmert e dall’ex ministro degli Esteri dell’ANP Al Kidwa — mostrano un futuro possibile di convivenza e sicurezza per entrambi i popoli. In prospettiva, Sinistra per Israele si offre come interlocutore e possibile co-promotore di azioni internazionali di dialogo, nella prospettiva concreta del percorso di pace.
12. Per un posizionamento corretto della sinistra italiana
Il nostro secondo compito è altrettanto impegnativo: affermare nella sinistra italiana un posizionamento equilibrato rispetto alla storia di Israele, alla sua identità e al conflitto, riannodando i fili di una storia — quella della sinistra e del sionismo socialista — che ha radici comuni in Italia e in Europa, a partire dal Risorgimento.
Ci battiamo, all’interno della sinistra italiana, per contrastare ogni forma di pregiudizio antisraeliano, di criminalizzazione di Israele come entità storica e politica e degli israeliani come collettivo nazionale, di boicottaggio e di posizioni unilaterali.
Ciò significa superare limiti e inadeguatezze, riconoscere la dimensione nazionale dell’esistenza ebraica e affermare con forza il diritto a esistere di Israele, come Stato ebraico e democratico, e di uno Stato palestinese a esistere e prosperare in sicurezza.
Intendiamo promuovere occasioni di confronto e approfondimento con i gruppi dirigenti nazionali e locali dei partiti e delle associazioni che appartengono al panorama del centrosinistra italiano — anche insieme ad altre strutture e reti dell’associazionismo progressista, ebraico e non, impegnate in Italia sul terreno della questione israelo-palestinese — per far conoscere la realtà israeliana, per stimolare un dibattito laico sulla storia, la politica e la società di Israele e Palestina, mettendo in contatto le realtà israeliane e palestinesi con quelle italiane.
Non solo: ci impegniamo a contribuire alla costruzione vera e propria di reti di contatto e di dialogo inter-culturale e inter-religioso, coinvolgendo quel mondo dell’associazionismo laico, progressista e religioso dal cui confronto e dalla cui collaborazione può nascere un riconoscimento reciproco e una comprensione più densa dei problemi del presente.
13. Sinistra, comunità ed ebraismo italiano: superare la diffidenza
Il rapporto con le comunità ebraiche va impostato sulla base di una corretta lettura del contesto.
Da un lato le comunità vivono con estrema partecipazione e sofferenza quanto sta accadendo in Israele, in particolare le spaccature e i contrasti che attraversano la società israeliana. Il terribile ed efferato massacro del 7 ottobre e la guerra successiva non hanno fatto che esacerbare queste tensioni, producendo anche all’interno del mondo ebraico della diaspora profonde lacerazioni tra coloro che difendono senza esitazione l’operato del governo di Israele e coloro che lo ritengono censurabile.
Allo stesso tempo, gli ebrei della diaspora sono oggetto di una nuova violenta campagna antisemita alimentata dal conflitto in corso, che attraversa trasversalmente — alla velocità dei social e della comunicazione digitale — la sinistra e la destra.
Pregiudizi, letture manichee, parole e azioni di odio vivono soprattutto in settori giovanili e studenteschi, come nelle nuove generazioni di origine arabo-islamica.
Di fronte a questi fenomeni, il nostro compito — difficile ma necessario — è fare maturare le condizioni perché si superi la diffidenza tra la sinistra e l’ebraismo italiano. È un dato di fatto che non pochi ebrei italiani oggi si sentano più rappresentati dalle forze politiche che si dichiarano vicine alle scelte compiute dal governo israeliano. Dobbiamo essere in grado di superare questa difficoltà, ripristinando una fiducia che può essere ricostruita soltanto con pazienza e con la serietà di un pensiero e di una pratica alternativi. Di solidarietà verso Israele, ma non di subalternità rispetto al governo Netanyahu. Di compartecipazione verso le sofferenze e i traumi della società israeliana, ma senza alimentare odi e fratture. Di lotta senza quartiere all’antisemitismo, da qualunque parte esso provenga.
Per questo, riteniamo fondamentale mantenere saldo il legame con quelle forze del mondo ebraico diasporico che vivono con grande malessere la deriva di destra, ultranazionalista e messianica, intrapresa dal governo di Israele così come le ingiustizie e le tragedie subite dai palestinesi in conseguenza di quelle posizioni.
14. Rafforzare il pensiero, l’analisi e la conoscenza
Quelli che a nostro giudizio sono errori di posizionamento politico presenti anche nella sinistra italiana sono talvolta il frutto di giudizi superficiali, incapaci di articolare un’analisi complessa, orientati soltanto all’immediato compiacimento dei meccanismi mediatici.
Sinistra per Israele, soprattutto attraverso lo strumento del Laboratorio “Yitzhak Rabin”, che ha strutturato nei mesi scorsi un proprio comitato scientifico e ha iniziato a svolgere le proprie attività, anche insieme a fondazioni e associazioni politico-culturali del mondo progressista italiano, persegue la promozione di momenti e spazi di ricerca, di approfondimento, di riflessione critica e formazione su Israele, l’identità ebraica, la sua storia, il conflitto arabo-israeliano e israelo-palestinese.
Non tutto dipende da noi. Non tutto passa dalla nostra forza di volontà. Pensiamo tuttavia di dover porre il tema più generale di un impoverimento del rapporto tra pensiero e politica. Avvizzito il primo, ricondotto a orpello convegnistico, è evaporata la seconda, sempre più orfana di visioni e di curiosità intellettuale. Anche su questo terreno il nostro impegno intende dare un contributo, un segnale concreto circa la possibilità di corroborare la militanza con una pratica di studio, di elaborazione, di confronto, tra di noi e verso le soggettività che vogliamo sensibilizzare e a fianco delle quali intendiamo camminare.
15. Una comunità politica: pluralità è organizzazione
Non siamo un partito, non siamo una lobby tematica, non siamo una fondazione culturale, sebbene la nostra azione sia spiccatamente politica, sia orientata verso un tema specifico e abbia forti implicazioni culturali.
Siamo e vogliamo essere una comunità politica, un’organizzazione associativa che si riunisce, discute, agisce.
La nostra è una comunità plurale, aperta a storie, a esperienze e a background politico-culturali diversi, anche a sensibilità differenti nel modo di interpretare la nostra piattaforma, ma unita nello sforzo costante di ricercare una sintesi, di cui anche queste tesi sono espressione.
Crediamo nell’importanza dell’organizzazione e della articolazione territoriale di Sinistra per Israele, quale forma concreta della comunità politica, e intendiamo lavorare per aumentare gli iscritti attivi, le nostre realtà cittadine e territoriali e la loro efficacia politica.
Allo stesso tempo riconosciamo il ruolo cruciale del coordinamento nazionale, sia per ottimizzare l’azione, anche attraverso gruppi di lavoro tematici, sia per raggiungere una sempre maggiore capacità di incidere nella comunicazione, nel dibattito pubblico e nella sfera della politica e delle istituzioni italiane ed europee.
Siamo convinti che sia possibile far crescere un consenso sempre più ampio intorno a queste idee. Con paziente perseveranza intendiamo fare tutto il possibile per riuscirci.
LETTURE & RILETTURE
Saul Meghnagi
Il recente, interessante, volume di David Bidussa, “Pensare stanca. Passato, presente e futuro dell’intellettuale” (Feltrinelli, Milano, 2024) pone diversi interrogativi sulla dimensione pubblica degli intellettuali nella società: “un dovere di fronte a una condizione di crisi della politica…un ruolo di garanzia e di sorveglianza…” (Bidussa, 2024, p. 32). Partendo da tale premessa, sono proposte analisi e riflessioni di diversi studiosi, presentati con un ricco corredo di citazioni. Una di queste, in particolare, appare utile – nella complicata disamina dei problemi del Medio Oriente – ai fini della ricerca sulla possibile interruzione del circolo vizioso che alimenta ostilità, odio e risentimento.
La citazione è quella dell’intellettuale palestinese Edward W. Said che – partendo dalla constatazione che il conflitto tra israeliani e palestinesi non può essere risolto solo con una definizione di confini – osserva che non “sarebbe moralmente accettabile chiedere agli israeliani di ritirarsi da tutto il territorio della precedente Palestina, ora Israele, trasformandosi in rifugiati come i palestinesi… Non può essere giusto privare un intero popolo del suo paese e del suo retaggio. Anche gli ebrei rappresentano una di quelle comunità che ho definito “sofferenti” e portano con sé l’eredita di una grande tragedia…” (“Umanesimo e critica democratica”, Il Saggiatore, Milano, 2007, ed originale 2004, p.163, in Bidussa, 2024, p.119).
Queste considerazioni sono l’esito di analisi che partono dal più noto dei libri di Edward Said – “Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente” (Feltrinelli, Milano, 2006, ed originale 1978) con cui l’autore ha introdotto nel dibattito politico, il tema della rappresentazione sociale dell’Oriente da parte degli occidentali (“La critica che l’Autore fa alla cultura occidentale è quella di porsi, rispetto all’Oriente, considerandolo come un blocco unico, senza diversità, privo di sfumature, un insieme omogeneo: questo, afferma, viene fatto anche quando si parla del mondo islamico, che non è né omogeneo né privo di differenze al proprio interno.
Molto più snello del lavoro di Said, a cui si ispira, ma di analogo interesse, è il testo di altri due studiosi,
I. Buruma e A. Margalit – entrambi ebrei, il secondo israeliano – che con “Occidentalismo. L’Occidente agli occhi di suoi nemici” (Einaudi, Torino, 2005, ed. originale 2004) descrivono una visione negativa, omologante e ostile nei confronti dell’Occidente da parte di orientali – mussulmani o di altra religione – in diversi paesi del mondo. La lettura parallela dei due testi può essere un modo, ricco di suggestioni e quesiti, per capire come la volontà di vedere distrutto l’avversario possa essere trasformata in una ricerca, non manichea, di ipotesi alternative rispetto a quella secondo la quale l’annientamento dell’avversario sia l’unica risposta possibile a una violenza subita.
Si colloca in tale prospettiva il libro di
Daniel Bar – Tal, “La trappola dei conflitti intrattabili. Il caso israelo-palestinese” (Angeli, Milano 2024, ed. originale 2023), docente di psicologia politica dell’Università di Tel Aviv. L’Autore – dopo una dura critica all’evoluzione sociale e culturale della società israeliana, in particolare dopo il 7 ottobre 2023 – pone il problema nei termini seguenti: “lo sviluppo di un processo di pace è simile allo sviluppo del sostegno al conflitto. Entrambi si basano sulla formulazione di una narrazione convincente che sia pertinente e si adatti alla realtà…Solo una narrazione innovativa e coerente, espressa nella lingua parlata dalla gente, può sviluppare l’infrastruttura per un’ampia mobilitazione” (Bar – Tal, 2024, p. 357).
Questa proposta culturale – che si lega strettamente al realismo delle considerazioni di Said e a quelle di Buruma e Margalit – pone l’imprescindibilità, nella disamina del conflitto attuale, di un’analisi sociale e culturale, complementare a quella politico militare.
Va, certo, posta la questione di una leadership credibile in entrambe le parti. Va denunciata l’inaccettabile violenza delle armi, della teoria del “tutto o niente”, delle immagini costruite, a volte, con una sceneggiatura tesa a umiliare e offendere l’avversario. Va, soprattutto, suggerito un ascolto attento delle preoccupazioni, una sensibilità verso il dolore, un’accettazione della paura che vivono coloro che vedono nella cruda contesa il riaprirsi di vecchie ferite, la minaccia di nuove offese, il ripresentarsi di discriminazioni passate e presenti.
Coloro che, anche nel nostro Paese, sostengono la pace – pur schierandosi con una o con l’altra delle parti in campo – se vogliono essere credibili, non devono esimersi dal considerare questi aspetti del complesso problema che si ha di fronte.
RASSEGNA STAMPA
Simone Santucci
Si ringrazia Radio radicale
per la collaborazione nell’aiutare
a far conoscere la Newsletter di SxI
- Benny Morris sul piano per Gaza
(La stampa, 05.02.25) - Il dramma degli ostaggi liberati
(Il Corriere della sera, 08.02.25) - I tunnel di Hamas
(Il Corriere della sera, 09.02.25) - Edith Bruck sugli ostaggi israeliani
(Radio radicale, 09.02.25) - Liliana Segre: non archiviate le inchieste sugli hater
(La Repubblica, 13.02.25) - Intervista all’analista israeliano Yigal Carmon
(La Repubblica, 14.02.25)
- In vista del congresso – intervista a Emanuele Fiano
(Radio radicale del 05.02.25) - In vista del Congresso – intervista Piero Fassino
(Radio radicale del 05.02.25) - Sinistra per Israele a Congresso su Moked 05.02.25
- Congresso Sinistra per Israele: prima giornata
(Radio radicale, 08.02.25) - Congresso Sinistra per Israele: seconda giornata
(Radio radicale, 08.02.25) - Il congresso di Sinistra per Israele – Il Foglio
- Il congresso di Sinistra per Israele – Corriere della sera
- Il congresso di Sinistra per Israele – Moked, 10.02.25
- Il congresso di Sinistra per Israele – Morashà, 11.02.25
- Piero Fassino – Il Riformista
- Emanuele Fiano – Il Foglio, 11.02.25
- Emanuele Fiano – Il Riformista, 11.02.25
- Luciano Belli Paci – Il Corriere della sera, 15.02.25
- REDAZIONE
Massimiliano Boni direttore editoriale | Giorgio Albertini copertina e illustrazioni | Victor Magiar editing, impaginazione e diffusione |
In redazione
Alessio Aringoli, Donatella Capirchio, Ludovica
De Benedetti, Piero Fassino, Emanuele Fiano, Anna Grattarola, Fernando Liuzzi, Simone Oggionni,
Simone Santucci, Lia Tagliacozzo.
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