Diaspora e Israele – Silenzi, coraggio, paure, conformismo
Stefano Jesurum per Limmud – Firenze, 1° giugno 2014
Israele e Galùt, un rapporto sempre più forte e sempre più complesso. Antisemitismo nella Golà, critica radicale in e a Medinàt Israèl. Il cortocircuito provocato quando quella critica radicale s’infiamma e brucia nella Diaspora dell’antisemitismo. In altre parole: che cosa sta accadendo a noi ebrei diasporici, dilaniati e insieme incatenati da un filo che si fa ogni giorno più stretto a mo’ di cappio? Stiamo per soffocare. E mentre l’ossigeno si rarefà nel cervello e nei cuori, i corpi si agitano come marionette lacerate e impazzite. Quel laccio va dunque spezzato.
A un capo del cappio c’è il nostro rapporto con Israele, dall’altro il fantasma – europeo, ossessivo, pauroso, mortifico – di un antigiudaismo assolutamente vivo e vegeto. Tutt’intorno, un mondo, ebraico e no, travolto dalla caduta dei valori, “vivificato” da folli (spesso ridicole) fughe verso un successo/potere fatuo, fasullo, costruito su nuove Tavole di un’unica legge, la legge dell’apparenza/apparizione. Ottusamente egocentrici, non siamo capaci di confrontarci. Né “fuori” né “dentro”. Nel mondo ebraico, “dentro”, la variazione dal coro diventa di per se stessa stonatura, quindi rifiutata, demonizzata, temuta, zittita. Criminalizzata. È la solita solfa in questi giorni tanto alla ribalta per il libello di Giulio Meotti Ebrei contro Israele di cui mi scuserete se non parlo reputando sostanza e forma degne semmai di un congresso di patologia clinica. Dissentire uguale tradire, tradire uguale rinnegare. Il dissenso radicale, la critica profonda diventano aree off limits dove relegare i “nemici”, esterni e interni. Arrivando a costituire la categoria forsennata degli “ebrei odiatori di se stessi”.
Poco, anzi nulla, importa che le medesime idee/voci dissenzienti, le medesime contestazioni profonde risuonino nelle piazze e sui giornali e nelle case d’Israele. Lì e non qui, è un dato di fatto. Lì ma non qui. Associazioni, singoli individui, giovani e anziani, uomini e donne, israeliani che, mutuando il Grossman di A un cerbiatto somiglia il mio amore, ti abitui a guardare negli occhi per scoprire che «in quasi tutti vi è una possibilità celata: quella di essere un assassino, o una vittima. O di solito entrambe». Noi, invece, camminiamo dritti per la nostra strada, al caldo delle nostre esistenze, immuni, pronti a bollare di abominio chi azzardi che «le tendenze fasciste israeliane sono contraddistinte da una serie di elementi», e giù circostanziati elenchi, a volte interi volumi come nel caso di Politicidio (Fazi Editore), dove Baruch Kimmerling mette in guardia il proprio Paese da ciò che, a lungo termine, ritiene essere un harakiri politico. Solo che Kimmerling è docente all’Università ebraica di Gerusalemme e a Toronto. Lui può.
Una sera, anni fa, presentando a Torino il mio Israele, nonostante tutto, mentre ascoltavo i deliri della rappresentante di un gruppetto autoproclamatosi “ebrei contro l’occupazione” che sbraitava insulti anti Israele definendolo Stato fascista, ho capito che c’era un problema. Mi si accapponava la pelle: sarà stato per la violenza e l’astio espressi da quella donna?, per la sua palese ignoranza?, per l’insopportabile unilateralità dell’argomentare?, per la totale chiusura verso qualsiasi dialogo? Eppure le tesi di Kimmerling non mi erano apparse marziane. Non che le condividessi in toto, ma insomma… certamente facevano riflettere.
E noi andiamo avanti, pronti a guardare, inerti, le nostre già fragili Comunità spaccarsi tra “buoni” e “cattivi”, tra chi considera inquietanti personaggi “gli unici, veri amici d’Israele” e chi invece li reputa “veicolatori di odio”. Non ci si capisce più. Le parole sono usate come spade, e ha ragione David Meghnagi quando denuncia il linguaggio di odio usato da una certa propaganda antisraeliana in quanto filopalestinese. Però non ha torto neppure Saree Makdisi (nato a Washington, cresciuto a Beirut, professore alla University of California, Los Angeles) quando in Palestina borderline (Isbn Edizioni) scrive: «Se la barriera che Israele sta costruendo in Cisgiordania è definita “muro” o “recinzione”; se le unità abitative israeliane nei Territori occupati sono descritte come “quartieri”, “insediamenti” o “colonie”; se diverse personalità o movimenti sono designati come “moderati” o “estremisti”; se la violenza contro i civili viene considerata “terrorismo” o “danno collaterale”: tutte queste definizioni sono sia linguistiche che politiche. Una semplice scelta lessicale esprime e soprattutto genera effetti politici. Lingua e politica sono inscindibili nel conflitto israelo-palestinese ed è praticamente impossibile capire quel che sta accadendo senza prestare particolare attenzione a come viene usato il linguaggio».
Consideriamo, considero, “pericoloso nemico” chiunque paragoni Israele al Sud Africa che teneva in carcere Nelson Mandela. Ci dà fastidio e ci intimorisce, fino a evocare il fantasma per antonomasia, il tabù: l’antisemitismo. Tuttavia Eyal Weizman, giovane israeliano già direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths College dell’Università di Londra, argomenta in Architettura dell’occupazione (Bruno Mondadori Editore) che «la logica della “divisione” (o, per usare il più noto termine afrikaans, apartheid) all’interno dei Territori occupati è stata estesa, su base nazionale, fino a diventare “separazione”. In alcuni momenti la politica della divisione/separazione è stata presentata come una formula per la soluzione pacifica del conflitto, in altri come un dispositivo burocratico per la governabilità del territorio, e in seguito come mezzo imposto unilateralmente per la dominazione, l’oppressione e la frammentazione del popolo palestinese e della sua terra». Ma noi, se sentiamo semplicemente nominare la parola apartheid, scattiamo per l’orrore. Quanta malafede in chi pronuncia quel termine odioso! E quanta pericolosa demente ignoranza in quegli slogan urlati nei cortei con voci strozzate dalla cieca rabbia: difficile non ri-andare con la mente e con il cuore ai periodi terribili della discriminazione, della persecuzione, della Shoà.
Tempo fa, seduto al tavolino di un bar insieme ad Aaron Shabtai… Il poeta chiacchiera con me che, allibito e visibilmente seccato, finisco col dirgli: «Parli di Israele come se ci fosse una dittatura alla Mussolini!». Lui, tranquillo: «Non è esattamente la stessa cosa, ma quasi». Chiama Abraham B. Yehoshua, Amos Oz e David Grossman sinistra soft, «foglie di fico parte integrante del sistema». Poi declama: «Se mi chiedete, / di dare la caccia a un ragazzo / a 150 metri di distanza / con un fucile a canocchiale, / Se mi chiedete di sedermi in un tank e / dalle altezze della moralità ebraica, / fare penetrare un obice / nella finestra di una casa (…) / risponderò con fermezza: / Signor Primo Ministro, / Onorevole Generale, / Sua Eccellenza Deputato, / Sua Santità il Rabbino, / Baciatemi il culo!». Per molto meno, a casa di amici, potremmo venire alle mani con l’ospite “non-proprio-antisemita-ma-quasi”.
Spesso mi sono domandato se queste reazioni differenti di fronte a critiche e dissensi identici non nascondessero semplicemente paura. Brutalmente: se lo dicono loro che sono israeliani io posso stare tranquillo, perfino – a volte – assentire; se lo dicono italiani, francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli, ebrei o no che siano, allora è diverso, penso alle scritte sui muri, ai cori da stadio, alle svastiche per strada… Inconscio & Paura, forse. O forse banale vigliaccheria (intellettuale). Disquisendo di Filastin al-Muhtalla (Palestina occupata) ci vogliono infatti molto, molto coraggio e sangue freddo per ricordare cosa telegrafarono a fine Ottocento alcuni rabbini viennesi mandati da un comitato sionista a dare un’occhiata alla Terra dei padri: «La sposa è bella, ma è sposata a un altro uomo».
Ed è su questo “matrimonio” indiscutibile, è sulla paura e sulla speranza, è sulla realtà nei confronti della quale non è consentito “fare sconti” che il giornalista israeliano Ari Shavit ha messo nero su bianco quello che per me è un punto a questi ragionamenti. Un libro che s’intitola La mia terra promessa (Sperlung&Kupfer). Ari ha 57 anni, e dice: «Da quando ho memoria, ricordo la paura. Una paura esistenziale. L’Israele in cui sono cresciuto, quello della metà degli anni Sessanta, era un Paese vitale, esuberante e pieno di speranza, ma avevo la costante sensazione che al di là delle belle case e dei giardini ben curati dell’alta borghesia della mia città natale si agitasse un oceano minaccioso. Temevo che un giorno quell’oceano sarebbe esondato e ci avrebbe sommersi tutti». Ari è nato nel 1957: «Da quando ho memoria, ricordo l’occupazione. Solo una settimana dopo aver chiesto a mio padre se i Paesi arabi avrebbero conquistato Israele, fu Israele a impadronirsi dei territori della Cisgiordania e di Gaza, abitati dagli arabi». Così oggi può scrivere la sua verità: «Solo qualche anno fa mi è divenuto improvvisamente chiaro che le mie paure riguardo al futuro del mio Paese e lo sdegno che provo per le politiche israeliane di occupazione e di intimidazione non sono slegate. Da una parte, Israele è l’unica nazione occidentale che occupa il territorio di un altro popolo; dall’altra, è anche l’unico Stato occidentale la cui stessa esistenza sia minacciata. Minaccia e occupazione, infatti, sono le colonne portanti della nostra esistenza». Il suo è un libro – come ha scritto Dwight Garner sul New York Times – sionista senza i paraocchi del sionismo. Ari Shavit è nato a Rehovot in una famiglia di quelle che hanno creduto a Theodor Herzl, è editorialista di Haaretz, ha servito l’esercito nei territori occupati come paracadutista, è stato poi attivista del movimento pacifista, e ha quindi deciso di sfidare progressivamente i dogmi della destra e della sinistra. Ari racconta insomma l’odissea privata di un israeliano disorientato dal dramma storico che sta inghiottendo la sua patria. Un racconto – come dicevo – senza sconti. Esiste un segreto oscuro, una sorta di peccato originale che affronta di continuo: «La nazione in cui sono nato ha cancellato la Palestina dalla faccia della terra». Eppure: «Se necessario, starò dalla parte dei dannati. Perché so che se non fosse stato per loro, lo Stato di Israele non sarebbe mai nato. Se non fosse stato per loro, io non sarei nato. Hanno fatto lo sporco e turpe lavoro che consente al mio popolo, a me e ai miei figli di vivere». Ancora: «Mi chiedo per quanto tempo potremo mantenere la nostra miracolosa storia di sopravvivenza. Ancora una generazione? Due? Tre? Alla fine, la mano che tiene la spada dovrà allentare la presa. Alla fine la spada stessa si arrugginirà. Nessuna nazione può affrontare il mondo che la circonda per più di cento anni con una lancia sguainata».
Suggestioni che risuonano anche nell’indefessa opera del nostro Bruno Segre alla ricerca di una Verità con la V maiuscola che lui stesso sa bene non esistere. Basta leggere il suo ultimo libro, Israele, la paura, la speranza (Wingsbert House) per rendersene conto. «Erano profonde le emozioni che HaTikvah, l’inno del movimento sionista divenuto più tardi l’inno nazionale israeliano, suscitava in me da ragazzo. Ricordo, peraltro, che nell’ascoltarlo trovavo bizzarro, quasi inspiegabile il contrasto tra il messaggio forte e felice del testo (“non è ancora persa la nostra speranza, la speranza due volte millenaria, di essere un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e Gerusalemme”) e le suggestioni malinconiche, dolenti, afflitte della musica, armonizzata in modalità minore (…) Poi, nei decenni successivi, mentre seguivo con partecipazione le vicende politiche e culturali di Israele e del Medio Oriente, mi sono reso conto che nella cultura politica coagulatasi attorno al progetto sionista erano presenti ab origine, e ancora oggi continuano a fronteggiarsi, due linee di pensiero e di azione ben distinte. Una di esse fa leva prevalentemente sulla speranza, l’altra sulla paura. E date le circostanze difficilissime in cui lo Stato d’Israele nacque ed è vissuto per oltre sessant’anni, entrambe tali tendenze presentano più d’una plausibile giustificazione, avendo ciascuna al proprio attivo realizzazioni e sconfitte».
Mentre noi continuiamo a tacere imbarazzati di fronte alle accuse dei soldati di Break the Silence, sulle azioni compiute a Gaza durante l’Operazione Piombo fuso. Il nostro mutismo ci chiude lo stomaco e forse ci annebbia la vista. Poi andiamo a vedere la rassegna del cinema israeliano, guardiamo ammutoliti The Gatekeepers, di Dror Moreh, documentario costruito attorno alle interviste a sei capi dello Shabak o Shin Bet che dir si voglia, e piangiamo. Lacrime di orgoglio per un Paese il cui ministero della Cultura finanzia una pellicola così cruda. Lacrime di dolore per un Paese che si è ridotto così. Lacrime di amore e rabbia perché sappiamo che l’ammonimento di Abraham B. Yehoshua è sacrosanto: «Il comportamento da noi adottato nei confronti del nemico non resta al di fuori di Israele ma filtra al suo interno. La violazione di norme etiche nei rapporti con i palestinesi sotto occupazione àltera e stravolge quelle stesse norme anche in Israele, nei rapporti fra i suoi cittadini».
Però io mi ostino a non “dover scegliere”. Faccio mia la lezione di Theodor W. Adorno, secondo cui la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, bensì proprio nel sottrarsi a questa scelta prescritta. Non scelgo e intanto sfoglio le immagini di Atto di Stato (Bruno Mondadori Editore). Ariella Azoulay dirige la Camera obscura school of art di Tel Aviv e insegna all’Università Bar Ilan, ha selezionato oltre 700 fotografie scattate negli anni da una settantina di fotoreporter per lo più israeliani. Una sorta di archivio storico dell’Occupazione. Uno dei tanti.
Allora che fare? Ognuno faccia la propria parte. Dice Avraham Burg in Sconfiggere Hitler – Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico (Neri Pozza Editore) che «dobbiamo guardarci in faccia, combattere e annientare un nuovo razzismo ebraico che sta sorgendo dentro di noi, che ci sta per corrodere. Un nuovo ebraismo israeliano che è molto lontano da tutto quello che conosco e di cui è impregnata la mia cultura familiare».
Eccolo, di nuovo, il cortocircuito. Lo J’accuse straziante lanciato da una fetta importante di Israele in nome, a ben vedere, dei valori della Diaspora. Un grido che nella Diaspora è problematico riprendere, se non al prezzo di passare per anti-israeliani. Buffo, no? No, non è buffo, è tragico.
Chiedendo perdono a rav Jonathan Sacks perché uso le sue parole totalmente fuori contesto, concludo questo mio lungo e forse un poco contorto ragionamento mediando, appunto, rav Sacks sul rashà, il figlio ribelle della Haggadà di Pesach. «L’ebraismo è essere in comune. Questo è il principio che il bimbo ribelle nega. L’ebraismo si indirizza agli individui. E nemmeno si indirizza all’umanità intera. Dio ha scelto un popolo, una nazione, e al Monte Sinai gli ha chiesto di promettere fedeltà, non solo a lui, ma anche a se stessi fra di loro. Emunà, parola chiave normalmente tradotta come “fede’”, più propriamente indica lealtà – a Dio, ma anche al popolo che Egli ha scelto come portatore della Sua missione, testimone della Sua presenza. È vero, a volte gli ebrei sono esasperanti. Rashi, nel suo commento all’incarico che Mosè fa al suo successore Giosuè, scrive che egli gli disse: “Sappi che loro [ il popolo che stai per condurre ] sono importuni e contenziosi”. Ma gli ha anche detto: “Tu sei fortunato perché avrai il privilegio di condurre il popolo di Dio in persona.” In questa idea fondamentale esiste una misura di speranza. Certo, oggi non tutti gli ebrei seguono la legge ebraica. Ma molti che non la seguono, si identificano comunque con Israele ed il popolo ebraico. Perorano la sua causa. Sostengono le sue cause. Quando Israele soffre anche loro sentono dolore. Sono implicati nel destino del popolo. Sanno fin troppo bene che “Israele oggi è perseguitato e oppresso, odiato, tormentato e sopraffatto da afflizioni”, ma non voltano le spalle. Possono non essere osservanti, ma sono leali – e la lealtà è una parte essenziale (anche se solo una parte) di ciò che è la fede ebraica. Quindi, dal negativo possiamo arrivare al positivo: che un ebreo che non dice “voi” quando Israele viene attaccato, ma “noi”, ha fatto un’affermazione fondamentale – di essere parte di un popolo, condividendo le sue responsabilità, identificandosi nelle sue speranze e timori, celebrazioni e tristezze. Questo è il patto, ed ancora oggi ci chiama all’appello».