Yehoshua: «Bibi, genio manipolatore non è Trump, è Berlusconi»
IL grande scrittore: alla pace non credo più, la morte è un dono di Aldo Cazzullo, inviato a Tel Aviv 10 Aprile 2019
Abraham Yehoshua, 82 anni, coscienza critica di Israele, scrittore amato in tutto il mondo, vive al ventunesimo piano di una torre che domina Tel Aviv. «Così posso tenere sott’occhio tutti i miei sette nipoti. La più grande, Tamar, è già nell’esercito. Sono fiero di lei».
Yehoshua, lei è considerato un pacifista.
«Io sono un ex parà. Ho fatto la guerra del Sinai nel 1956. Comandava Moshe
Dayan».
L’ha conosciuto?
«Diventammo
amici. Era lui il vero premier, Golda Meir lo subiva. Impose la pace con
l’Egitto. Era un uomo con una formidabile carica erotica. Animato dalla libido.
Grande guerriero, con un lato romantico: cultore della letteratura,
dell’archeologia. Le donne lo adoravano. La benda nera sull’occhio poi le
faceva impazzire. Mai visto un amatore così».
Anche lei è considerato un
fascinoso.
«All’università
di Gerusalemme incontrai la mia Rivka e dopo sei mesi la sposai. Lei aveva 19
anni, io 23. Siamo stati insieme per 56 anni, fino alla sua morte. La amo
ancora, tantissimo».
Perché ha vinto di nuovo
Netanyahu?
«A
me non piace. Però non posso negare che abbia grandi qualità».
Ad esempio?
«È
intelligentissimo. Un genio della comunicazione. E purtroppo anche uno straordinario
manipolatore. Ha un figlio di 26 anni che passa le giornate sui social a
seminare zizzania».
E poi?
«È
un leader internazionale. Noi siamo un piccolo Paese da otto milioni di
abitanti, e Netanyahu è sempre in tv a conversare in russo con Putin, abbracciare
Trump, stringere la mano a Modi, ridere con Xi-Jinping. Sono cose che fanno un
certo effetto. E poi l’economia va bene».
Perché allora Netanyahu non le
piace?
«Non
gli perdonerò mai quello che ha fatto agli arabi israeliani. Ha trasmesso
l’idea che solo un ebreo può essere un vero israeliano; cosa che ai religiosi
piace moltissimo. L’ha detto pure in questa campagna elettorale: “La sinistra
tresca con gli arabi…”. Vagli a rispondere che “la sinistra” oggi in Israele è
un partito guidato da tre ex capi dell’esercito».
Lei crede ancora nella pace?
«No. Credo nella partnership: vivere insieme, sotto lo stesso tetto, sotto un unico cielo. Per decenni mi sono battuto, accanto al mio fraterno amico Amos Oz, per un’idea affascinante: due popoli, due Stati. Ora non ci credo più. Penso che saremo uno Stato solo, ma non uno Stato ebraico: aperto ai palestinesi, compresi quelli della Cisgiordania. Ho litigato con Amos per questo».
Vi vedevate spesso?
«Ogni settimana a cena. Lui mi rimproverava: con la tua idea finiremo per avere un premier arabo!».
Pare la trama di
«Sottomissione» di Houellebecq: i musulmani al potere.
«Un giudice non ebreo ha condannato un ex capo di Stato a sette anni di
carcere. Abbiamo generali drusi. Ci sono ospedali diretti da arabi. E
l’ospedale è la chiave dell’integrazione».
Perché?
«Perché in ospedale siamo nudi. È il luogo della sofferenza e dell’intimità.
Già oggi medici arabi curano malati ebrei, e medici ebrei curano malati arabi».
Sì, ma in concreto Netanyahu
cosa dovrebbe fare? Negoziare?
«Negoziare non serve a niente. Dovrebbe concedere in modo unilaterale prima la
residenza, poi la cittadinanza israeliana ai palestinesi dei Territori. Non ci
sarà mai una pace con trattati, firme, bandiere. Ci può essere convivenza.
Basta con l’apartheid. Dobbiamo mescolarci».
L’obiettivo appare
lontanissimo. Perché?
«Perché Israele ha il problema opposto al resto del mondo: un eccesso di
memoria. Altrove ne avete poca. Noi ne abbiamo troppa. I palestinesi passano la
vita a recriminare sulla Nakba, la catastrofe, la cacciata dalla loro terra.
Sognano la Eawda,
il ritorno. Custodiscono le chiavi della casa del bisnonno. Chiavi che non
aprono più nessuna porta. Al posto della casa del bisnonno c’è un grattacielo o
un negozio della Apple. Basta!».
E gli ebrei?
«È tutto un amarcord. Le guerre. I kibbutz. Le baracche in cui furono stipati i
coloni. E poi, ovviamente, la Shoah».
Nel suo ultimo romanzo, «Il
tunnel», pubblicato in Italia da Einaudi, il protagonista perde la memoria e si
tatua sul braccio i numeri dell’antifurto della macchina. Non è una
dissacrazione?
«Certo che lo è. Dobbiamo diminuire l’intensità della memoria. Che non
significa dimenticare; significa guardare le cose che abbiamo intorno. Uscire
dalla trappola dell’identità».
L’identità ebraica è molto
forte.
«Non esiste un’identità ebraica. Ne esistono molte. Gli askenaziti e i
sefarditi, i religiosi e i laici, gli ortodossi e gli ultraortodossi…».
Lei è sefardita?
«La famiglia di mia madre viene dal Marocco: Mogador, sulla costa. Quella di
mio padre da Salonicco. Ma anche l’identità sefardita è frammentata in dodici
tribù…».
Perché la sinistra, che governò
Israele per i primi trent’anni della sua storia, non esiste più?
«La sinistra è in crisi dappertutto, perché ha perso il popolo. È percepita
come un’élite globale di artisti, scrittori, professori che si conoscono tra
loro, si fidanzano, si invitano l’un l’altro a convegni dove esprimono giudizi
sprezzanti sul resto dell’umanità».
È una percezione o una verità?
«Un po’ è vero. In Israele la situazione è aggravata dal fatto che la sinistra
non è riuscita a fare la pace. Anche a causa del suicidio dei palestinesi».
Suicidio?
«Quando nel 1977 Sadat a sorpresa venne a Gerusalemme, chiese ad Arafat di
accompagnarlo. Arafat rifiutò, e da allora ha perso tutte le occasioni. Ora i
palestinesi sono drammaticamente isolati. Potevano far fiorire Gaza; ne hanno
fatto un base di attacchi terroristici. Il mondo arabo non è mai stato così
debole. Guerre civili. Dittature. Povertà. E gli arabi israeliani non votano.
Avrebbero potuto sconfiggere Netanyahu. Sono il 24% della popolazione, ed
eleggono il 4% dei parlamentari».
Netanyahu appare imbattibile. A
chi assomiglia?
«Non a Trump. Considero Trump un incidente della storia. Figlio
dell’impazzimento di una notte. Netanyahu mi ricorda semmai Berlusconi».
Berlusconi aveva le tv.
«Più ancora: Berlusconi, con i suoi limiti, sentiva il suo Paese. Adesso vi va
peggio, con Salvini e i 5 Stelle».
Anche lei ha troppa
memoria? Ricorda la fondazione di Israele?
«Avevo undici anni e mezzo. Rimanemmo chiusi in casa per due mesi.
Assediati. Gli inglesi combattevano accanto agli arabi, una loro bomba centrò
la nostra casa, mio padre rimase ferito. Atrocità da entrambe le parti. Se ci
avessero presi, nel migliore dei casi ci avrebbero tagliato la gola».
Come vinceste?
«Eravamo meglio organizzati. E avevamo più fiducia in noi stessi. Ma ora basta
con il passato».
Parliamo del futuro.
«Quale futuro? Ho perso mia moglie, ho perso Amos. Non mi resta
che morire anch’io».
Cosa c’è dopo?
«Nulla. Per fortuna. La morte è molto importante. Un dono che
facciamo ai nostri nipoti: lasciare loro spazio».