1933, l’incendio dell’Europa; vi dice qualcosa? 02 Maggio 2019
02 Maggio 2019
Nel suo ultimo saggio, Siegmund Ginzberg racconta dodici mesi decisivi per i destini dell’Occidente: Hitler diventa cancelliere, cresce la violenza ma pochi fiutano il pericolo. Ogni riferimento all’oggi è puramente voluto
di WLODEK GOLDKORN
Nel 1933 Georges Simenon, inviato belga del settimanale francese Voilà, è in Turchia, ne trae un libro, un piccolo capolavoro, I clienti di Avrenos, in cui racconta la storia di una giovanissima ballerina ungherese che seduce gli uomini al potere a Istanbul. Ma prima ancora, a due passi dalla città sul Bosforo, metà Europa metà Asia, il reporter intervista il più celebre esule russo, nato in Ucraina e di origini ebraiche, Trotzkij. Simenon all’epoca ha trent’anni e il suo compito è raccontare il Vecchio Continente in crisi, o meglio, lo spirito di un pezzo del mondo che sembra voler rifiutare la naturale mescolanza e sovrapposizione delle appartenenze e degli idiomi a favore invece dell’ossessione identitaria, dell’odio verso chi è considerato diverso. Dove la democrazia è un fenomeno sempre più raro e precario, mentre trionfa quello che oggi chiamiamo sovranismo e populismo.
L’affascinante libro Sindrome 1933 di Siegmund Ginzberg, anche lui nato a Istanbul, in uscita con Feltrinelli, inizia proprio così, con l’inventore del personaggio del commissario Maigret in giro per l’Europa. Ora, per affrontare un tema difficile e scivoloso come le analogie tra la situazione di ottantasei anni fa e oggi in un modo avvincente per il lettore e non troppo saggistico, è molto utile narrare la storia con gli occhi di altri scrittori e autori, ed è questo il grande pregio del libro. Ginzberg mette a confronto l’immaginario degli uomini (sono quasi tutti maschi, segno dell’epoca), romanzieri, poeti, registi, giornalisti che forgiavano il racconto del mondo di allora, con la vera storia come la conosciamo oggi e con rimandi alla situazione attuale, in Italia e altrove. Allora, come oggi, sembra suggerire l’autore, nessuno, o quasi, si accorgeva di niente, la vita scorreva normale, mentre nel cuore dell’Europa c’era chi stava preparando la catastrofe. Simenon racconta di aver incontrato Hitler nell’ascensore dell’albergo Kaiserhof a Berlino, e non sappiamo se è vero. Ma era vero il suo colloquio con Trotzkij, appunto, un uomo che al netto della retorica bolscevica era capace di un acume quasi profetico, e che gli spiega quanto la prospettiva inevitabile nel Vecchio Continente sia il propagarsi delle dittature nazionaliste e di conseguenza la guerra.
Una di queste, anzi la peggiore delle tirannie della storia umana, dice Ginzberg, inizia quasi in sordina. “Il 30 gennaio 1933 era un lunedì. Freddo ma asciutto. Al mattino ancora non si sapeva come sarebbe andata a finire”, scrive. Finì con Auschwitz e Treblinka, lo sappiamo oggi, ma prima di arrivare a mettere in atto, qualche anno dopo, l’inimmaginabile, i politici si davano da fare come sempre, tra astuzie, piccoli inganni, calcoli di convenienza. Non riassumeremo la giornata del 30 gennaio qui (basta leggere le pagine del libro, scritte con piglio da romanziere e non solo da cronista), ma al mezzodì l’imbianchino austriaco diventò cancelliere della Germania. Nel suo governo i nazisti avevano pochi ministeri; il dicastero chiave, quello delle Finanze, era in mano a un tecnico che prometteva di tenere i conti in ordine: garante dell’operazione era l’ex cancelliere Franz von Papen, esponente del partito del Centro cattolico, formazione moderata, che nell’esecutivo ricopriva la carica de vice-cancelliere. Non tradì mai Hitler (anche se dissentiva di certo dai suoi metodi) e morì nel suo letto nel 1969 all’età di novant’anni.
Ginzberg spiega che non era inevitabile formare quel governo, in cui in realtà l’odio reciproco tra la vecchia destra militarista e la nuova destra nazionalsocialista era fortissimo e racconta, con punte di vero divertimento e sincero stupore, come la stragrande maggioranze degli osservatori e commentatori fosse sicura che quello di Hitler era un potere destinato a durare pochissimo tempo. Ne era convinto, tra le personalità citate dall’autore, Karl Kautsky, teorico marxista, ormai ritiratosi in Austria, che definiva i nazisti “imbecilli ignoranti”; e anche i “ragazzi di Oxford” Wystan H. Auden, Christopher Isherwood e Stephen Spender, presenti nella capitale tedesca, erano del parere che a primavera Hitler sarebbe diventato una storia del passato. In Italia, Gramsci dalla sua prigione intuisce invece come ogni potere anche estremista e radicale diventi “centrista” e per questo di lunga durata.
Una narrazione a sé è poi quella della morbosità dei racconti dei crimini a sfondo sessuale, di cui si appassionano ai tempi i tedeschi: inevitabile la citazione di Moosbrugger, il perverso assassino che colpisce l’immaginazione di Ulrich, il protagonista de L’uomo senza qualità di Musil, pubblicato in quegli anni. Fanno parte del racconto anche la retorica del ripristinare l’ordine naturale dei generi e porre fine agli eccessi di libertinismo. E la retorica razzista e contro gli immigrati.
Le analogie con oggi sono tante e Ginzberg le esplicita tutte (talvolta troppo, per fare una sola annotazione critica), pur dichiarandosi consapevole dei limiti del metodo: aiuta a capire il presente, non a prevedere il futuro. L’autore alla fine del libro dice che Cassandra non era creduta perché il potere (e il popolo) non ama le previsioni.