Le parole di Primo Levi: Dio e gli ebrei
di MARCO BELPOLITI Repubblica 5 giugno 2019
Il 31 luglio di quest’anno Primo Levi avrebbe compiuto 100 anni, abbiamo pensato di raccontarvelo in 13 parole, tredici lemmi, uno per settimana, che riassumono la sua opera così importante, vasta e poliedrica. Sono voci di una piccola enciclopedia portatile per conoscere aspetti della sua opera e della sua vita, dalla presenza degli animali nei suoi libri al rapporto con la fede religiosa e l’ebraismo, dalla poesia alla chimica e alla fantascienza. Un ritratto a tutto tondo di un autore decisivo per la nostra letteratura, ma anche per la nostra coscienza civile.
Nel novembre del 1983, quattro anni prima della sua morte, un giornalista del settimanale “Gente”, Giuseppe Grieco, va trovare Levi a Torino. Sta pubblicando una serie d’interviste dedicate al rapporto con Dio. Il secondo interlocutore è proprio lo scrittore torinese, ex chimico in pensione. L’esordio è diretto: “Io credo di essere un caso estremo – dice – , nel senso che quello di Dio è un problema del quale finora non mi sono mai veramente occupato. La mia è la vita di un uomo che è vissuto, e vive, senza Dio, nell’indifferenza di Dio”.
Lo dice con molta tranquillità e tutta l’intervista è una dichiarazione di ciò che possiamo definire il suo agnosticismo. L’anno precedente Levi ha incontrato Elie Wiesel, anche lui deportato ad Auschwitz, che ha fatto dell’Olocausto il centro della sua vita – Wiesel ha anche dato legittimità a questo termine che significa “tutto bruciato”. Levi dice che Wiesel è divenuto in un certo senso un “ossesso” di Dio, mentre lui è rimasto nella sua non-fede. Com’è possibile?, gli chiede Grieco. Non ha forse invidia per chi aveva la fede nel Lager? Certo gli risponde Levi: “Io invidio i credenti. Tutti i credenti”.
L’intervista è molto chiara e racconta il rapporto di Levi, non solo con la religione, ebraismo compreso, ma anche con il tema del Male, che ossessiona i credenti: se c’è stato Auschwitz, dove era Dio? Perché l’ha permesso? Wiesel, spiega lo scrittore torinese, si è trovato a vivere brutalmente da credente il grande trauma di Auschwitz, quello del “trionfo del male”, ed è arrivato “ad accusare Dio di permetterlo, di non intervenire a fermare i carnefici”. Io, continua, “mi sono limitato a concludere: Dunque è proprio vero: Dio non c’è”.
Il suo punto di vista, spiega, è lo stesso di Giacomo Leopardi, “il poeta che accusa la natura di ingannare i suoi figli con false promesse di bene che sa di non poter mantenere”. Levi era un materialista, nel senso filosofico del termine, per via della sua formazione culturale, per l’adesione alla scienza in senso positivo, seppure non sia mai stato un Positivista in senso filosofico: conosceva bene i limiti e i rischi stessi della scienza, cosa su cui si è soffermato con vari scritti dopo l’esplosione di Chernobyl.
Allora, che ebreo è stato? Un ebreo non credente, si potrebbe rispondere. Ha spiegato che il credente nella sua famiglia, per quanto superstizioso e riluttante, era il padre, che ne seguiva i precetti anche alimentari, eppure amava molto il prosciutto. L’educazione che ha avuto è dunque quella di un ebreo. A tredici anni ha fatto il Bar Mitzvah, ovvero la cerimonia d’ingresso nella comunità ebraica, a Torino, una cerimonia che necessitava un esame di lingua ebraico e di storia e cultura ebraica.
Ma dopo qualche mese, si è ritrovato allo stesso punto: non era credente, come i suoi amici cristiani che avevano fatto la comunione e la cresima. L’ebraismo per lui è qualcosa di diverso da una religione. Dice: “è una questione di identità: una identità della quale, devo però dire anche questo, non intendo spogliarmi”. Sono frasi che ha ripetuto molte volte. Intanto s’era scoperto ebreo dopo le leggi razziali del 1938, e poi aveva conosciuto l’ebraismo ortodosso nel Lager, e anche prima, nel campo di Fossoli, come testimonia il primo capitolo di Se questo è un uomo, dove assiste alla cerimonia di addio alla vita della famiglia di ebrei italiani provenienti da Tripoli, i Gattegno, tutti falegnami.
Lì parla di se stesso e dei presenti usando il noi, noi ebrei: “Noi sostammo numerosi davanti alla loro porta, e ci discese nell’anima, nuovo per noi, il dolore antico del popolo che non ha terra, il dolore senza speranza dell’esodo ogni secolo rinnovato”. Si tratta di uno dei punti più espressivi della sua dichiarazione d’identità. Che non significa dichiarazione di fede.
Una delle cose che Levi ha più volte ripetuto è di essere italiano, per tre quarti, e per un quarto ebreo, ma che quel quarto era molto importante per lui. Sopravissuto al Lager, è tornato a Torino, dalla sua famiglia e dai suoi amici, non è migrato in Israele, come documenta il finale de La tregua. Non è stato neppure sionista, anche se da giovane qualche simpatia per i sionisti l’aveva provata, dice.
E anche nei confronti di Israele, lui da laico, socialista e antifascista militante, ha sempre mantenuto un rapporto complesso, mai di adesione completa e totale, differenziando il diritto di esistenza di quel paese dalle scelte politiche e militari dei suoi governanti. Cosa che gli ha provocato non poche polemiche e anche conflitti nel mondo ebraico. Così era Levi: un uomo particolare, molto poco conformista, anche a livello di scelte ideali e di valori. Pur essendo un illuminista, sul piano intellettuale – gli ebrei hanno partecipato alla rivoluzione illuminista – non ha mai sostenuto posizioni estreme.
Critico nei confronti dei palestinesi di Al Fatah, il suo ebraismo è stato un ebraismo politico di sinistra, se così si può dire. C’è un punto della sua prima opera, di cui parla, seppur indirettamente nell’intervista del 1983, che definisce molto bene il suo atteggiamento verso la religione in generale e l’ebraismo nello specifico. Si trova nel capitolo Ottobre 1944, dedicato alla selezione degli uomini non validi, o presunti tali, nel Lager di Monowitz, dove lavora.
Nel silenzio della baracca Primo sente il vecchio Kuhn che prega. Lo fa ad alta voce e tenendo il berretto dei deportati in testa. Dondola il busto con violenza alla maniera dei vecchi ebrei. Kuhn, un ebreo ortodosso, sta ringraziando Dio perché non è stato scelto. La reazione del giovane chimico torinese finito in Lager perché ebreo è secca: Kuhn è senza dubbio un insensato.
Nella cuccetta accanto Beppo, un greco di vent’anni, è stato invece scelto per essere inviato alle camere a gas, cosa che accadrà puntualmente l’indomani mattina. Se ne sta sdraiato e fissa la lampadina senza dire nulla e senza pensare nulla. Levi si chiede: non lo sa il salvato che la prossima volta toccherà a lui?
Non capisce Kuhn che è accaduto un abominio e “che nessuna preghiera propiziatoria, nessun perdono, nessuna espiazione dei colpevoli, nulla insomma che sia in potere dell’uomo di fare, potrà rinascere mai più?”. La conclusione di Levi è dura e forte: “Se fossi Dio, sputerei a terra la preghiera di Kuhn”. Ecco, in questa frase si compendia l’atteggiamento del non-credente Levi nell’inferno di Auschwitz.
Molte delle dichiarazioni di Primo Levi su questo tema dell’ebraismo e non solo si trovano nel volume Opere complete III, pubblicato da Einaudi lo scorso anno. Il suo sottotitolo è: Conversazioni, interviste e dichiarazioni; sono oltre 1000 pagine raccolte.
Marco Belpoliti
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