“Guai a voi se mi leggete sul tablet”
Il libro dei numeri di Joshua Cohen (Codice, trad. di Claudia Durastanti, pagg. 745, euro 25)
Joshua Cohen, un giovane autore che continua e ringiovanisce la migliore tradizione della letteratura ebraico americana, sulle tracce di Saul Bellow, Bernard Malamud, Philip Roth ed i più recenti Jonathan Safran Foer e Nathan Englander.
Nato ad Atlantic City nel 1980, ha pubblicato romanzi (Book of Numbers), ma anche storie brevi (Four New Messages) e saggistica per il “New York Times”, “Harper’s Magazine”, il “London Review of Books”, “n+1” e altri. Nel 2017 è stato nominato da Granta uno dei migliori romanzieri americani. Vive a New York.
Memoir, thriller, allegoria biblica, dramma, commedia: Il libro dei numeri si candida a diventare uno dei testi sacri dei nostri tempi, un’epica dell’era della rete, uno di quei rari libri capaci di spingere un po’ più in là i confini del romanzo.
Quando Joshua Cohen, scrittore newyorchese fallito, viene contattato da Joshua Cohen, il misterioso fondatore della più importante azienda tecnologica del mondo, affinché gli faccia da ghostwriter per la sua autobiografia, non sa che l’impresa in cui sta per imbarcarsi lo renderà una pedina in un gioco molto più grande di quanto immagini.
Dagli albori di internet all’11/09, passando per la Shoah, il Vietnam e l’avvento dei social network, il racconto dei due Joshua si intreccia in un alternarsi di geniali invenzioni e cocenti sconfitte, amicizie incrollabili e amori infelici, per diventare uno specchio duplice della vita ai tempi della rivoluzione digitale. In fondo, nel mondo post-Facebook, chi non può vantare almeno un avatar, un alter ego, un altro io?
Raffaella De Santis ha intervistato a settembre per Repubblica l’autore
L’americano Joshua Cohen è l’autore più originale ospite al Festival di Mantova con il suo romanzo di 700 pagine
MANTOVA – Se ci fosse un premio del Festivaletteratura per il romanzo più folle, lo vincerebbe Il libro dei numeri di Joshua Cohen, 39 anni compiuti ieri a Mantova. Il tomo – nella versione italiana oltre 700 pagine – attacca così: “Se state leggendo questa storia su uno schermo, andate a fanculo. Parlerò solo se sfogliato come si deve”. È subito chiaro quale sia il carattere dell’autore, che abbiamo avvicinato incuriositi dal seguito che avevano avuto i suoi incontri festivalieri. Cohen, nato nel 1980 in una famiglia ebraica di Atlantic City ne ha avute per tutti, a cominciare da Bruce Springsteen. Il suo libro, definito dal New York Times l'”Ulisse dell’era digitale”, narra la storia di uno scrittore fallito assoldato come ghostwriter dal capo della più importante azienda tecnologica del mondo. La particolarità è che tutti si chiamano Joshua Cohen: l’autore, il protagonista del libro e il guru hi-tech. Un gioco di specchi per dire attraverso mille rivoli che dentro la Rete ogni identità perde i confini. Il Cohen vero paradossalmente detesta i social network, non twitta, non posta, non instagramma foto. Per scrivere ha consultato più di 180 testi sulla storia di Internet, tra cui le biografie di Bill Gates, Steve Jobs, Alan Turing. È appena stato nominato da Granta uno dei migliori romanzieri americani.
Dove ha trovato il coraggio di scrivere un libro selvaggio come questo? Dentro ci si perde, ci sono mail, pezzi di interviste, blog…
“Ho sempre fatto l’opposto di quello che fanno gli altri. Incondizionatamente anche da bambino tendevo a differenziarmi. Se tutti volevano un gioco, io ne desideravo un altro. Deve trattarsi di un’attitudine psicologica, o qualcosa del genere. C’è qualcosa in me che mi spinge in altre direzioni”.
Crede che il suo romanzo verrà letto fino alla fine?
“Non saprei, sono partito dal domandarmi quale sia oggi la nozione di storia. Chi la scrive, che cosa è diventata? Ho voluto raccontare la nostra era tecnologica, prendendo le mosse dagli anni ’60 e arrivando ai social network e alle agenzie che controllano i nostri dati. Il modo migliore per farlo era affidarsi alla forma romanzesca. In fondo la tecnologia è il nostro nuovo subconscio, permette di trasformare la realtà in fiction e la fiction in realtà”.
L’hanno paragonata a David Foster Wallace, le ha fatto piacere?
“Succede sempre. Quando non riescono a dire qualcosa di originale tirano in ballo uno scrittore morto. Ammiro Wallace, ma fare questi paralleli mi sembra assurdo, denota una certa pigrizia. E poi lui aveva un senso dell’ironia tutto suo e una schiettezza molto diversa dalla mia. Era un uomo del Midwest, un’altra cultura”.
Lei è nato ad Atlantic City, la città protagonista di una delle più belle canzoni di Bruce Springsteen.
“(Ride) Ci ho vissuto diciassette anni, ho frequentato lì scuole ebraiche, poi sono andato a New York… È una bella città, sull’Oceano Atlantico. Adoro Springsteen, potrei parlare per ore della sua musica, ma su Atlantic City si sbagliava”.
A questo punto si ferma e si mette a recitare il refrain di Atlantic City: “Everything dies baby that’s a fact… But maybe everything that dies somedays come back…”.
Che cosa c’è che non va?
“Springsteen non ha colto quel senso di grandezza che hanno gli abitanti di Atlantic City. In passato era una delle città più esclusive per le villeggiature al mare, c’erano hotel magnifici. Non era particolarmente ricca, ma era signorile. Quell’idea di decoro è rimasta nella percezione dei suoi abitanti. Springsteen canta sempre le persone comuni, lo ha fatto anche in questo caso, ma ad Atlantic City tutti si sentono speciali, sognano in grande”.
Anche lei?
“Certo, come chiunque”.
Quale era il suo sogno giovanile?
“Come ogni provinciale andare a New York”.
Come è la sua vita newyorchese?
“Piuttosto normale. Scrivo ogni giorno, cambio le lampadine che si fulminano, metto a posto i calzini, lavo i piatti. Una volta alla settimana insegno alla Columbia University”.
Nel romanzo fa dire al protagonista Joshua Cohen che ama vivere nelle grandi città e odia la campagna, il verde, gli ambientalisti. È così anche per lei?
“Ora l’ambientalismo va di moda e mi chiedo perché non me ne importi proprio niente. Ma è così, non riesco a proiettarmi oltre la mia morte, oltre la scomparsa delle persone che amo”.
Che cosa pensa di Jonathan Safran Foer ambientalista, allora?
“Un bravo ragazzo”.
Il successo del “Racconto dell’Ancella” di Margaret Atwood testimonia però di un forte interesse per questi temi.
“Ma credo che l’attrazione delle persone per la serie televisiva abbia altre ragioni. La gente torna dal lavoro esausta, si mette sul divano, accende la tv e si lascia affascinare dalla violenza, dalle scene di stupri e torture. Fa parte delle natura umana: condanniamo le cose da cui siamo segretamente attratti. Il nostro inconscio è molto strano”.
Con 700 pagine voleva scrivere il Grande Romanzo Americano?
“Mi domando quale sia la vera storia americana: il racconto della schiavitù o quello dell’accoglienza degli immigrati? Io so che l’unica ragione per cui i miei genitori riuscirono ad approdare negli Stati Uniti dalla Germania e dalla Polonia è che avevano abbastanza soldi per farlo”.
È stato difficile riuscire a pubblicare il suo primo libro “The Quorum”?
“Ricordo solo che mi pagarono 50 dollari e una birra”.