Intervista a Piero Fassino: “Ebraismo e socialismo sono fratelli, a sinistra è ora di capirlo”
Umberto De Giovannangeli — Il Riformista -14 Dicembre 2021
Se, come è vero, dietro al “lodo Moro” c’era anche un humus antisemita e antisionista che aveva attecchito anche a sinistra, Piero Fassino quel “lodo”, riportato alla luce da Il Riformista con le nuove rivelazioni sull’attentato terroristico alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, che costò la vita al piccolo Stefano Taché, e il ferimento di 37 persone, quel lodo Fassino, già segretario dei Ds e sindaco di Torino, oggi parlamentare dem e presidente della Commissione Affari esteri della Camera, lo polverizza rivendicando una storia che non tutti a sinistra hanno ancora assimilato.
L’attentato alla Sinagoga di Roma, il “lodo Moro” e ancora, come ricordato da Emanuele Fiano in una intervista a questo giornale, la manifestazione sindacale, a cui partecipò anche la Cgil, con la bara deposta davanti alla Sinagoga. Cosa c’è dietro questa ferita non ancora rimarginata?
Le vicende degli anni ’80, comprese le reazioni all’attentato terroristico alla Sinagoga di Roma del 1982, vanno inquadrate nelle letture manichee e unilaterali con cui in quegli anni la sinistra guardava all’ebraismo e a Israele, tema spesso affrontato senza tener conto della storia, né dei processi politici reali. Sgombriamo il campo da alcune false verità…
Quali?
Intanto liquidiamo i pregiudizi antiebraici e antisemiti. L’ebraismo è una delle radici fondamentali della cultura, della storia e della civiltà europea. Basta pensare a città come Amsterdam, Praga, Vilnius, in Italia Livorno, e la stessa Berlino prima dell’avvento del nazismo, per sapere che l’ebraismo non è estraneo a noi, è una delle radici dell’identità europea. Punto secondo: il sionismo non è una forma di razzismo, come affermò anni fa una sciagurata risoluzione delle Nazioni Unite, che spesso continua essere evocata. Il sionismo nasce alla fine dell’Ottocento come un movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico. E nasce insieme al movimento socialista, tant’è che molti dirigenti socialisti vengono da origini ebraiche – si pensi a Treves e Modigliani, leaders del Partito Socialista. E le interazioni tra movimento socialista e movimento sionista erano fortissime, come testimonia la prima tessera del movimento sionista fondato da Theodor Herzl, che aveva come immagine un bue che traina un aratro in un campo di grano con il sole all’orizzonte, cioè un simbolo socialista. L’ebraismo oltre che essere una radice della civiltà e della storia europea, è anche parte della storia del movimento socialista del continente. Nascono insieme e crescono insieme. Non solo, ma l’avvento del fascismo prima e del nazismo – e di molte dittature dello stesso stampo reazionario in Ungheria, Polonia, Romania – e le loro persecuzioni contro gli ebrei, rinsaldano ancora di più il rapporto tra l’ebraismo e la sinistra, in una solidarietà cementata dalla comune lotta contro un comune nemico. E nonostante lo stalinismo abbia tra le sue tare i pogrom anti ebraici, ciò non arriva fino al punto di recidere i rapporti tra il mondo ebraico e la sinistra. E nella Seconda guerra mondiale ancor di più: la resistenza al nazismo in Europa si salda alla lotta disperata delle comunità ebraiche per sottrarsi alle persecuzioni, ai campi di sterminio, all’Olocausto. E quando, all’indomani della Seconda guerra mondiale, le Nazioni Unite decidono che il mandato britannico sulla Palestina ceda il posto alla creazione di due Stati – lo Stato ebraico e lo Stato arabo-palestinese – sono le grandi potenze, Usa e Urss e tutti i paesi europei, a votare in favore di quella risoluzione, vissuta dalla sinistra come un atto di giustizia e di restituzione, dopo il dramma dell’Olocausto, di speranza e dignità al popolo ebraico. Nell’archivio della federazione torinese del Pci, ho ritrovato, quando ero segretario, una locandina raffigurante un piroscafo e l’indizione di una sottoscrizione dei Comunisti torinesi per raccogliere fondi per sostenere gli ebrei che partivano da Livorno per andare in Palestina.
Ma anche in quegli anni vi furono momenti difficili, come insegna la storia…
Assolutamente sì. In particolare, ancora una volta, dall’Unione Sovietica vennero campagne di persecuzione, come i pogrom scatenati per il presunto – e non vero – “complotto dei camici bianchi”, con cui si accusarono medici ebrei di aver ordito un complotto contro la salute di Stalin. Nonostante quel momento molto duro, il fatto che pochi anni prima si fosse combattuto insieme contro il fascismo e il nazismo, consentì di mantenere un vincolo di solidarietà, soprattutto in Italia e in Occidente. Né può essere dimenticato che anche molti dirigenti comunisti delle democrazie popolari dell’Europa centrale erano ebrei, protagonisti della resistenza antinazista. Tant’è che quando Stalin, per assoggettare quei paesi in modo ancora più ferreo al volere di Mosca, ne decapita i gruppi dirigenti, la principale accusa dei processi farsa è di essere “agenti sionisti”. E quel che accade a Slansky in Cecoslovacchia, a Rajk in Ungheria, a Gomulka in Polonia. Tragedie che testimoniano di quanto l’ebraismo fosse parte della sinistra anche al di là della cortina di ferro. Tuttavia il momento di profonda lacerazione tra sinistra e mondo ebraico avviene più avanti
Qual è questo momento di rottura?
Sono le due guerre dei Sei giorni nel ’67 e dello Yom Kippur nel ’73. Due guerre che si inscrivono totalmente nella contrapposizione bipolare di quegli anni tra campo comunista e campo occidentale. Per usare una espressione coniata di recente, quelle furono anche “guerre per procura”, perché dietro a Israele c’era il sostegno degli Stati Uniti e dietro ai paesi arabi c’era l’Urss. E in conseguenza del sostegno sovietico ai paesi arabi e ai palestinesi, anche tutta la sinistra mondiale si schierò dalla parte dei palestinesi. Lì si produce la lacerazione tra sinistra e mondo ebraico. Ci furono ebrei che in nome della fedeltà alla loro appartenenza, lasciarono i partiti della sinistra in cui militavano – il Pci, il Psi – e altri ebrei che in nome della loro militanza politica lasciarono la comunità ebraica. Fu un momento di lacerazione drammatica, denunciato da Umberto Terracini – uno dei fondatori del Pci con Togliatti e Gramsci – che si recò a Torino, a Milano, Roma, nelle città dove c’erano le comunità ebraiche più consistenti cercando di scongiurare quella rottura traumatica. Ed è in quel momento che si sono prodotti gli stereotipi, le rappresentazioni demonizzanti e i pregiudizi che arrivano ancora fino a noi nei confronti d’Israele. Quella lacerazione cancellò dalla memoria storica, collettiva, della sinistra tutto ciò che c’era stato prima, offuscando conoscenza e memoria di quel rapporto tra sinistra e mondo ebraico che invece dalla fine dell’Ottocento fino agli inizi degli anni’60 del Novecento era stato forte e solido. Nasce lì lo stereotipo d’Israele sentinella dell’imperialismo americano contrapposto alla volontà di riscatto di un mondo palestinese e arabo oppresso. Fino al punto da teorizzare una cosa che cozza con la verità della storia…
Vale a dire?
Che la nazione ebraica in quella terra sia una presenza estranea, imposta dall’occidente. Chiunque conosce e non manipola la storia, sa che da Mosè in avanti, quella è la terra dove il popolo ebraico ha sviluppato la sua storia, la sua civiltà, la sua religione. Rappresentare Israele come un corpo estraneo al Medio Oriente è un falso storico funzionale alla demonizzazione d’Israele. In quel contesto, va riconosciuto che ci fu un Partito comunista che – pur mantenendo atteggiamenti critici – decise di non rompere i rapporti con Israele ed è il Partito Comunista Italiano. Ricordo che in tutti i congressi del Pci di quegli anni, sempre tra i partiti esteri invitati vi erano formazioni politiche israeliane, oltre che dei palestinesi. Il Pci ha avuto questo merito, cioè quello di aver mantenuto aperto un filo di dialogo, anche quando il rapporto tra sinistra e mondo ebraico era turbato e ferito dalle vicende della storia. Poi nel 1982 la svolta…
A cosa si riferisce?
Alla guerra in Libano contro la quale si schierò una ampia parte di opinione pubblica israeliana e Shimon Peres promosse una grande manifestazione, rendendo evidente la esistenza in Israele di una dialettica democratica che contraddiceva la rappresentazione caricaturale di Israele come l’espressione dell’imperialismo. Quel fatto politico consentì alla sinistra italiana di rilanciare un rapporto con il mondo ebraico e Israele. E io e un gruppo di esponenti ebraici legati alla sinistra – ricordo Janiki Cingoli e Emanuele Fiano a Milano, Amos Luzzatto a Venezia, Ugo Caffaz a Firenze, Roberto Finzi a Bologna, Giorgio Gomel e il Martin Buber a Roma – aprimmo un dibattito su Israele e la sinistra. A Torino, come segretario del PCI, promossi un convegno dal titolo – per allora quasi “eretico” – “Medio Oriente: esiste anche una questione ebraica”. Era un fatto politico dirompente, perché fino a quel momento la sinistra riconosceva che c’era solo la questione palestinese. Affittammo in un albergo una sala per duecento persone. Ne arrivarono da tutta Italia più del triplo e c’era gente fin sulla strada. Esponenti del mondo ebraico che finalmente vedevano la possibilità di ricostruire e recuperare un rapporto con la propria appartenenza politica. E da quel momento in poi è decollato un intenso lavoro guidato da Giorgio Napolitano e da me. Insieme a Fiano, Cingoli e Furio Colombo fondammo “Sinistra per Israele” con la convinzione che solo riconquistando una lettura corretta di Israele e del mondo ebraico la sinistra avrebbe potuto dare un contributo ad una pace che desse soddisfazione anche alle aspirazioni del popolo palestinese. E poco dopo quegli eventi, entrato io nella segreteria nazionale del PCI, fui incaricato da Natta di coltivare i rapporti con il mondo ebraico italiano. Costruimmo un coordinamento con tutte le nostre presenze nelle varie comunità ebraiche. Demmo alle stampe perfino una piccola rivista “La quercia e il violino”, due simboli del mondo ebraico. Un lavoro che ebbe come culmine prima la visita di Napolitano in Israele, e poi di Occhetto con cui scegliemmo che prima missione internazionale del neonato PDS fosse in Israele e Palestina. Il Nuova partito era nato il 3 febbraio 1992 e noi il 29 aprile eravamo in Israele. Fu in quell’occasione che Occhetto, segretario nazionale del Pds, in un lectio all’Università di Tel Aviv, definí “il sionismo un movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico che come tale va riconosciuto”.
Insomma, dopo la svolta della Bolognina, la svolta di Tel Aviv…
Tanto è vero che il giorno dopo i giornali israeliani uscirono a tutta pagina.
Che cosa c’è ancora fare, visto che dentro il mondo di sinistra il problema antisionista ancora esiste?
Esiste, ma molto meno. Tutta quell’azione che ho ricostruito ha fatto sì che posizioni di demonizzazione e di non riconoscimento d’Israele e del mondo ebraico, siano oggi nella sinistra assolutamente minoritarie. Non c’è alcun dubbio che il Partito Democratico sia schierato in modo chiaro per il pieno riconoscimento di cosa rappresenti Israele, politicamente e storicamente, naturalmente in una strategia politica che punta a favorire la soluzione “due popoli, due Stati”.
Soluzione che però continua a non realizzarsi….
Si, è un tema non ancora risolto. E lo è sulla base di un assunto che è connesso a quanto fin qui detto. Per un lungo periodo Israele restringeva la questione palestinese ad un problema di soli profughi. E reciprocamente i palestinesi e i Paesi arabi negavano a Israele il diritto di esistere. Uno scenario di reciproca negazione scandito in quarant’anni da cinque guerre (‘48,’56,’67, ‘73,’ 82) e numerose Intifada. In quello scenario le posizioni “pro palestinesi” e ostili a Israele erano fondate sull’assunto che in Terrasanta ci fosse una ragione, quella del popolo palestinese, e un torto, quello d’Israele. Mentre una soluzione “due popoli, due Stati”, non può che partire dall’assunto che in quella terra ci sono “due ragioni”: una ragione è l’aspirazione del popolo palestinese ad avere una patria. Ed è una ragione altrettanto fondata il diritto di Israele di vivere riconosciuto e in sicurezza. Ed è l’assunto su cui venne convocata nel 1991 la Conferenza di pace di Madrid – in cui per la prima volta palestinesi e israeliani si riconobbero reciprocamente, sedendosi allo stesso tavolo – aprendo la strada agli accordi di Oslo-Washington e alla intesa sancita dalla stretta di mano tra Rabin e Arafat, sotto lo sguardo garante di Clinton. Purtroppo il decorrere del tempo, fattore decisivo in politica, ha finito per logorare quella fiducia reciproca indispensabile per portare a buon esito un negoziato di pace così impegnativo. E in questi anni abbiamo nuovamente conosciuto aspre contrapposizioni e conflitti come la crisi di Gaza di qualche mese fa e l’emergere di formazioni radicali estreme come Hamas. Cosí come sono tornate a farsi sentire in Israele voci che contestano la possibilità per i palestinesi di avere un proprio Stato. Se si vuole spezzare questa spirale occorre ripartire dal principio su cui fu fatto l’accordo del ’93: il reciproco riconoscimento. E in questa ottica, gli “Accordi di Abramo” tra Israele e alcuni paesi arabi – Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein – sono utili perché danno risposta alla domanda di riconoscimento e di sicurezza di Israele, creando un clima utile alla ripresa di un dialogo tra Israele e palestinesi, perché è solo da un loro negoziato diretto che può scaturire la pace
Tutto questo, per tornare e chiudere con l’Italia, non significa anche rimuovere completamente, sul piano politico, culturale, storico, ciò che ancora resta vivo del “lodo Moro”?
In gran parte l’Italia lo ha già fatto, Nel senso che il nostro paese vuole essere equivicino, non equidistante. Cioè crediamo fortemente che la soluzione sia soltanto quello di un riconoscimento reciproco dei protagonisti per realizzare la soluzione “due popoli, due Stati”. E l’Italia opera per quell’obiettivo. Il che significa superare definitivamente l’acritico terzomondismo che negli anni ’80 era forte in Italia e non soltanto a sinistra.