Intervista a Gadi Luzzatto Voghera: “Attentato alla sinagoga e quella sinistra antisemita”
Umberto De Giovannangeli — 17 Dicembre 2021
Il lodo Moro e quella ferita non ancora rimarginata tra l’ebraismo italiano e la sinistra. Il Riformista ne parla con una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Gadi Luzzatto Voghera. Storico, ha insegnato Storia Contemporanea e Storia degli ebrei presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e al Boston University Study Abroad Program a Padova. È stato il direttore scientifico della Biblioteca e dell’Archivio della Comunità Ebraica di Venezia. Dal 2016 dirige la Fondazione Cdec, Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, a Milano. È autore, tra gli altri saggi, del volume Antisemitismo a sinistra (Einaudi, 2007). L’incipit è quanto mai di stringente attualità: «L’ebreo è la vittima ma anche il sionista, il lobbista, l’americano, e non semplicemente una persona. Dall’Ottocento ai giorni nostri. Anche a sinistra si fa inconsciamente spesso uso del linguaggio antisemita. È necessario saperlo vedere per poterlo sradicare».
Le rivelazioni de Il Riformista sulla tentata strage alla Sinagoga di Roma, il 9 ottobre del 1982, hanno aperto un dibattito molto sentito e anche doloroso. Si parte dal lodo Moro, che caratterizza quegli anni. Da storico come la vede?
Quel lodo era certamente il frutto di un compromesso anche all’interno di forze politiche che pure sul terreno governativo e parlamentare si contrapponevano. Evidentemente c’era un comune sentire soprattutto connesso a questioni di politica estera, al ruolo dell’Italia nel Mediterraneo, al rapporto con i paesi arabi in generale e in particolare al conflitto israelo-palestinese. A prescindere da Aldo Moro, nella Democrazia cristiana c’era un’attenzione particolare, direi privilegiata, ai rapporti con i paesi arabi. Giulio Andreotti da ministro degli Esteri aveva negli anni precedenti guardato con particolare attenzione a relazioni privilegiate dell’Italia con i paesi arabi il che comprendeva anche una qualche forma di attenzione ad attività non soltanto diplomatiche ma, anche, purtroppo, di natura militare in Europa. Lo stesso tipo di attenzione c’era anche da parte di altre forze politiche appartenenti alla sinistra, certamente il Partito socialista di Bettino Craxi era molto legato all’Olp e a Yasser Arafat e manifestava un’attenzione specifica col mondo arabo…
E il Pci?
Il Partito comunista viveva come sempre in quegli anni tensioni complicate e travagliate al proprio interno che certamente risentivano di una forte dipendenza, dal punto di vista diplomatico, e di schieramento, nei decenni precedenti, dall’atteggiamento dell’Unione Sovietica su tutta l’area mediorientale e che vedeva dei nodi decisamente non risolti. In tutto questo, però, proprio nella contingenza di quei mesi, di quelle settimane, s’innestano quegli avvenimenti storici, politici, militari che hanno a che fare con l’Operazione Pace in Galilea, lanciata nel giugno del 1982 dal Governo d’Israele allora guidato da Begin, con l’obiettivo di chiudere i conti con la presenza militare dell’Olp nei campi profughi in Libano. Quell’operazione aveva aperto una questione militare e nello stesso tempo diplomatica, che era sulle prime pagine di tutti i giornali e quindi all’attenzione dello stesso Governo italiano. Da lì a poco ci fu la prima missione Unifil in Libano che vide una significativa presenza italiana tra i caschi blu dell’Onu. E si trattava di una prima volta della presenza militare italiana fuori dai confini nazionali. Quella fu una estate molto travagliata quanto ai rapporti tra la sinistra e il mondo ebraico in generale in Italia su quel nodo lì. La testimonianza più eclatante fu la manifestazione sindacale durante la quale fu deposta una bara davanti all’ingresso della Sinagoga di Roma. Fu un episodio che fu vissuto in maniera molto dolorosa dalla comunità ebraica. Si aprirono dibattiti giornalistici importanti che hanno anche spaccato trasversalmente la comunità ebraica al proprio interno sull’atteggiamento da tenere nei confronti della guerra in Libano. E in tutto questo si è innestato quell’atto terroristico che non era una novità sul terreno italiano…
In che senso?
Adesso lo sappiamo dalle carte, anche quelle meritoriamente portate alla luce da Il Riformista, ma devo dire che l’allarme era già scattato nelle comunità ebraiche italiane. È qualcosa che io ho vissuto in prima persona. Si sapeva che c’era un allarme e ci veniva restituito questo allarme dalle stesse questure a tutti i livelli. Era una cosa nota. Un po’ sono stupito da queste rivelazioni. Trovare nero su bianco con tanto di telex, cablo etc., che il giorno dell’attacco terroristico fosse stata sguarnita la sicurezza davanti alla Sinagoga di Roma da parte delle forze di polizia, questo è qualcosa di molto grave, che stupisce, e su cui va fatta chiarezza. Tanto più che era risaputo che le comunità ebraiche erano oggetto di possibili azioni terroristiche in Italia e in Europa. Una strategia del terrore che rifletteva peraltro un’articolazione interno all’arcipelago terroristico del mondo palestinese che non era nemmeno molto univoco nella sua operatività. Ognuno andava per la sua strada: Abu Nidal non chiedeva certamente il permesso ad Arafat per muoversi. In tutto questo, la sinistra si mancava di una certa consapevolezza…
A proposito di questo. “Il Riformista” ha titolato un’intervista a Piero Fassino così: “Ebraismo e socialismo sono fratelli. Cara sinistra è ora di capirlo”. La sinistra l’ha capito o ancora no?
Vede, io comincio ad avere qualche difficoltà a dare una cornice a cosa intendiamo per sinistra adesso. All’epoca, la sinistra aveva dei pilastri, anche se tardo ideologici, piuttosto visibili e anche una sostanza organizzativa a livello dei partiti molto chiara e molto dipendente da una struttura verticistica, per cui una volta presa una decisione, elaborato in qualche modo anche un sentiero di discussione, questa strada veniva intrapresa con una certa decisione. Dopodiché le ricadute a livello periferico ci mettevano un po’ a decantare, ma comunque sia c’era una visione. Posso dire cosa è rimasto come eredità di quello che fu fatto all’epoca. E ciò che fu fatto, a vari livelli, fu uno sforzo sia nel Pci che nel Psi estremamente significativo. Va ricordato peraltro, che il Governo dell’epoca era guidato da Giovanni Spadolini, leader di un partito, il Pri, che aveva posizioni storicamente pro Israele. D’altro canto, il Partito repubblicano si considerava un po’ l’erede dello spirito azionista e a quell’epoca parte essenziale della sinistra italiana, anche se poi aveva comportamenti governativi di centro. Adesso c’è l’’eco di quello su cui si lavorò all’epoca. Sono invecchiate molto le persone che hanno fatto parte di quella stagione, ci sono ancora degli strascichi organizzativi, penso a “Sinistra per Israele”, ad esempio, e a piccoli gruppi organizzati che si riconoscono nell’elaborazione che si fece all’epoca, in quel tentativo di comprendersi meglio al di là delle retoriche, che in quegli anni si basavano sull’idea che non ci potesse essere frattura tra ebraismo e sinistra per il semplice fatto che si proveniva tutti da una comune matrice antifascista. Un qualcosa che però non faceva i conti con quella che è poi stata l’elaborazione storiografica che ci restituisce altro rispetto a quello che era stato. Era più il frutto di una epica resistenziale su cui si era vissuti per decenni ma che non ci dava l’idea corretta di quello che era stata, solo per fare un esempio, l’adesione di una componente dell’ebraismo italiano al fascismo per diversi anni. Non c’era stato soltanto un arruolamento ipso facto degli ebrei in campo antifascista solo perché dal ’38 in poi erano stati perseguitati. C’è una storia più articolata, su cui ormai da tanti anni si sta lavorando a vari livelli. C’è un equivoco di fondo che ancora negli anni’80 si manteneva, però nello stesso tempo all’epoca quell’equivoco era necessario perché era evidente come fosse maturata una frattura su Israele.
Che cosa era successo?
Dal ’67 al ’72, su Israele era maturata una frattura forte tra la sinistra e una componente importante delle comunità ebraiche. Una frattura che nell’82 non era più sopportabile, per cui si attivo un percorso interessante, anche fruttuoso. Oggi rimangono dei pezzi sfrangiati della sinistra. Più che una mancanza di attenzione o di empatia da parte del mondo ebraico, che peraltro ha vissuto anch’esso una grande trasformazione, ciò che faccio fatica a capire, e non credo di essere il solo, è cos’è la sinistra in questo momento, soprattutto se c’è anche uno sguardo omogeneo delle componenti che in questo momento si riconoscono a sinistra, in relazione, ad esempio, al conflitto mediorientale. In mezzo ci sono stati tanti eventi. Uno di quelli fondamentali è che si è passati attraverso la stagione dell’elaborazione della memoria della Shoah, che ha cambiato molte carte in tavola. Ha cambiato lo sguardo stesso sul significato dello Stato d’Israele nello scacchiere internazionale e come componente essenziale, democratica, all’interno di un Mediterraneo molto complicato dal punto di vista democratico. Non siamo all’anno zero. Sicuramente c’è una conoscenza maggiore da parte del mondo non ebraico in generale, anche a sinistra, di quello che sono le sensibilità delle comunità ebraiche e dell’articolazione della società israeliana, come di quella palestinese. Allo stesso tempo, però, c’è il mantenimento di una serie di retoriche, su cui ho scritto un libro, dell’antisemitismo anche a sinistra che ha una sua lunghissima storia di permanenza di linguaggio che fa fatica a smuoversi. Da questo punto di vista, c’è ancora tanto da fare.