Israele-Hamas, l’ora più difficile
Maurizio Molinari – La Repubblica
GERUSALEMME – A tre settimane dall’attacco a sorpresa subito da Hamas, lo Stato ebraico si trova davanti ad uno dei momenti più difficili della sua esistenza. Il motivo è la sovrapposizione fra molteplici sfide, tutte con ben pochi precedenti. La prima e fondamentale riguarda la garanzia della propria sicurezza: la violenza medioevale di Hamas ha polverizzato una dottrina basata su prevenzione, intelligence ed alta tecnologia, riportando in prima fila il ruolo dell’esercito tradizionale che negli ultimi anni era stato ridimensionato. In secondo luogo, c’è la necessità di ricostruire la deterrenza di Israele rispetto ai vicini più minacciosi – non solo Hamas ma anche Hezbollah e Jihad islamica – ottenendo dei risultati sul campo in grado di allontanarli in maniera decisiva dai propri confini.
“Pensavamo di poter convivere con una tigre feroce davanti alla finestra, ma il Sabato Nero ci ha brutalmente ricordato che ciò espone a rischi drammatici” afferma Yuli Eldestein, capo della commissione Esteri e Sicurezza della Knesset. E come se non bastasse c’è anche l’incertezza sulle dimensioni del campo di battaglia: l’assedio da parte delle milizie filoiraniane presenti in Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Gaza, Yemen e dallo stesso Iran espone ogni angolo di Israele al rischio di subire attacchi di qualsiasi tipo.
Da qui la situazione di “emergenza nazionale” che ha ben pochi precedenti da quando nel 1948, al momento di nascere, Israele si trovò ad affrontare con ben pochi mezzi l’invasione simultanea degli eserciti di sei nazioni arabe. Come se non bastasse, di mezzo c’è una crisi degli ostaggi con un numero tale – almeno 220 – da aprire una profonda ferita nella società israeliana, anche perché si sovrappone a racconti e testimonianze sui dettagli delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre scorso che hanno risvegliato in milioni di cittadini gli incubi delle persecuzioni subite dagli ebrei nel corso della Storia. E ancora: a fronte della solidarietà arrivata dai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e molte altre democrazie occidentali, gli israeliani si sentono feriti dalle proteste filo-Hamas negli atenei americani come nelle piazze di Londra, Parigi e Milano perché sembrano ignorare il dolore causato dalla morte violenta di oltre 1400 connazionali – molti dei quali mutilati, decapitati, bruciali e violentati – ed il ferimento di almeno altri 5400 a causa di un’operazione terroristica pianificata nei minimi dettagli dai jihadisti di Gaza al fine di uccidere il più alto numero di civili in maniere talmente brutali da far impallidire il ricordo delle stragi di Isis.
E non è ancora tutto perché “la resilienza sociale di Israele è indebolita a causa delle 40 settimane di proteste popolari contro la riforma della Giustizia del premier Benjamin Netanyahu – spiega l’accademico Manuel Trajtenberg – a cui ora si somma la sfiducia nella leadership di un capo politico che porta la responsabilità di aver subito il più grave attacco a sorpresa dalla guerra del Kippur del 1973”. Per non parlare dello scenario di una pace regionale con l’Arabia Saudita congelato dall’attacco di Hamas e di un orizzonte di convivenza con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che, come assicura l’analista Yigal Karmon, “si potrà riprendere a considerare solo quando questa profonda ferita sarà rimarginata”.
C’è però anche un altro scenario ed a tratteggiarlo è David Meidan, l’ex negoziatore israeliano che trattò per cinque anni con i fondamentalisti di Gaza riuscendo ad ottenere nel 2011 la liberazione del soldato Gilad Shalit: innescare dall’eliminazione di Hamas una scossa tale per l’intera regione da far nascere “una nuova architettura di sicurezza”, basata sulla normalizzazione israelo-saudita e sulla formula dei “Due popoli per due Stati”, proprio come avvenne nel 1978 quando, appena cinque anni dopo la guerra del Kippur, Anwar Sadat e Menachem Begin siglarono a Camp David l’accordo di pace israelo-egiziano che resta il più strategico perno della stabilità in Medio Oriente.
Insomma, assediato dall’esterno, lacerato all’interno ed obbligato a ridefinire in fretta la strategia di sicurezza, Israele va incontro ad uno dei momenti più difficili dei propri 75 anni di esistenza, le cui conseguenze possono ridefinire gli equilibri dell’intera regione.
David Maidan e Manuel Trajitenberg
Il ferma-maniglia
Ognuno se lo costruisce in casa, come può. C’è chi usa un manico di scopa, altri preferiscono una trave di legno, altri ancora un ferro. Ciò che conta è che sia lungo quanto una porta del proprio appartamento e ad un’estremità abbia un foro per incastrarsi alla maniglia. Stiamo parlando del ferma-maniglia ovvero l’oggetto rudimentale di cui ogni famiglia israeliana sente di aver bisogno dopo il “Sabato Nero”.
Il ferma-maniglia serve per chiudere dall’interno il “mamad” – la stanza di sicurezza che ogni israeliano ha dovuto costruirsi in casa per proteggersi dai razzi – per trovare rifugio in caso di pericolo. Le testimonianze dei sopravvissuti al pogrom di Hamas sono inequivocabili sul “mamad”: quando i terroristi non sono riusciti a sfondarlo o a bruciarlo, i civili hanno avuto la possibilità di salvarsi. Da qui l’importanza di porte e finestre blindate ma soprattutto di un blocca-maniglia che renda impossibile forzarlo da fuori. Ci sono mariti e mogli che fanno a turno per verificare la capacità di chiudere in fretta il “mamad” “a prova di Hamas”.
Così come ci sono bambini che dal 7 ottobre vogliono dormire solo dentro il “mamad” – e non più nelle loro camerette – perché si sentono più protetti. Per i genitori è solo una delle conseguenze del pogrom avvenuto nelle comunità del Negev Occidentale: c’è chi non fa più uscire i figli da soli e chi ha ripensato in fretta orari di lavoro e tragitti urbani. La possibilità di incontrare un terrorista come quelli che hanno fatto strage di civili è diventata una feroce variabile della vita quotidiana. Se durante la Seconda Intifada il pericolo arrivava salendo su un autobus o entrando in un locale pubblico – perché i terroristi entravano in abiti civili, mischiandosi alla gente per farsi saltare in aria – e se negli anni Settanta gli israeliani impararono a temere i dirottamenti aerei o i pacchi abbandonati nelle strade, oggi le vite di milioni di persone si ridefiniscono con nuovi comportamenti quotidiani per proteggere la propria sicurezza dentro le pareti di casa. Perché Hamas ha dimostrato con la ferocia che intende raggiungere ovunque ed uccidere, mutilare e bruciare ogni singolo abitante di Israele, solo in quanto tale.
A svolgere un ruolo importante per coordinare la difesa del fronte interno è Yuli Edelstein, presidente della commissione Esteri e Sicurezza della Knesset, a cui spetta mettere a punto tutti i relativi interventi legislativi: dalla chiusura delle scuole alla sospensione delle rate dei mutui, dal versamento di una percentuale importante degli stipendi ai riservisti fino alle macro-misure per sostenere il sistema economico.
“È la prima volta nella nostra Storia recente che l’emergenza per un conflitto investe l’intero territorio nazionale, neanche un piccolo centro è escluso – spiega Edelstein, seduto nel suo ufficio a Gerusalemme – e questo significa che dobbiamo pianificare una miriade di attività”. Come, ad esempio, spostare oltre 150 mila cittadini dai villaggi lungo i confini con Gaza e Libano trovandogli alloggi ed accoglienza altrove nel Paese, incluse le tendopoli a fianco di Eilat. A sostenere Edelstein è l’esperienza maturata contro il Covid-19 quando era ministro della Salute: “Ci sono molti aspetti comuni con quanto avvenuto allora perché anche adesso è l’intero Paese a fermarsi e bisogna considerare ogni tipo di impatto sociale”.
Per avere un’idea di cosa intende basta osservare il via vai di automobili private nei centri di raccolta dove migliaia di cittadini arrivano per far arrivare ai soldati qualsiasi cosa possa servirgli: dai beni alimentari agli indumenti, ai caricatori cellulari. Una imponente catena umana, tutta a base volontaria, che si auto-gestisce – per telefono o con appositi siti web – ed ogni singolo giorno pensa a come sostenere gli oltre 360 mila riservisti richiamati per affiancare le truppe di leva così come le famiglie sfollate dal Sud e dal Nord del Paese.
Yuli Edelstein
Il nemico ibrido
L’attacco del Sabato Nero ha rivoluzionato l’idea di terrorismo da cui Israele deve proteggersi. Fino al giorno prima c’era un consenso, fra militari e intelligence, sul fatto che Hamas fosse un’organizzazione terroristica simile alle molte che Israele ha dovuto combattere nella sua storia – da Settembre Nero autore della strage di atleti alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 all’Olp responsabile dell’attentato di Zion Square a Gerusalemme nel 1975, dall’assalto all’asilo del kibbutz di Maalot nel 1976 firmato dal Fronte per la liberazione della Palestina al massacro di Natanya nel marzo 2002 compiuto proprio da Hamas – con in più la caratteristica di dover amministrare dal 2007 la Striscia di Gaza e quindi le conseguenti responsabilità oggettive nei confronti di oltre due milioni di abitanti palestinesi.
“Si è trattato di un grave errore perché Hamas non è solo tutto ciò ma anche qualcosa di più” afferma Yigal Karmon, direttore del centro studi “Memri” sul Medio Oriente e unico analista ad aver previsto – in settembre – l’attacco del 7 ottobre. “Questo qualcosa in più è l’ideologia che muove Hamas, la stessa che ha generato Al Qaeda e Isis – spiega – e nasce dalla genesi del movimento dei Fratelli musulmani nella prima metà del Novecento” con l’obiettivo di fondere tutti gli Stati arabi per dare vita ad un grande Califfato. È un’ideologia che predica la Jihad, persegue la distruzione degli infedeli – ebrei e cristiani – e la sottomissione dei musulmani “corrotti” nonché la sottomissione del mondo intero ad una versione fondamentalista dell’Islam che “si propone di riportare il mondo intero a XV secoli fa”.
“L’errore di Israele è stato umano – sottolinea Karmon – perché ha creduto che con questa ideologia si potesse convivere”. A dispetto di una Costituzione di Hamas che prevede, in maniera esplicita, la distruzione di Israele e l’uccisione degli ebrei, ed ignorando ciò che l’intelligence israeliana ha continuato a raccogliere negli ultimi mesi: prove evidenti, concrete, su ciò che si stava preparando. Se però sono state “non considerate, ignorate, sottovalutate” aggiunge Karmon “è perché non solo il premier Benjamin Netanyahu ma anche i suoi predecessori e l’intero establishment della sicurezza, da anni, credeva nella politica di far leva sui fondi del Qatar per Hamas al fine di “pagare la pace””.
Proprio così: Israele si è fidata dell’Emiro Al-Thani del Qatar, in ragione dei legami fra Doha ed i Fratelli musulmani, ed ha consentito agli inviati qatarini di far arrivare, ogni mese, valige con milioni di dollari in contanti a Gaza. Hamas assicurava al Qatar, e dunque indirettamente ad Israele ed agli Stati Uniti, che quei soldi servivano ad amministrare la Striscia e a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici ma “la realtà era ben diversa perché ogni razzo, mitra, esplosivo, motocicletta, tunnel e arma di Hamas è stata pagata con quei fondi”.
Se dunque l’Iran è il più importante alleato militare di Hamas, la fonte di armi, intelligence e addestramento, “è invece il Qatar l’origine delle sue maggiori entrate economiche” sottolinea Karmon, aggiungendo che “l’errore strategico di Netanyahu e dell’apparato di sicurezza nazionale è stato credere alla tesi del Qatar che la pace poteva essere acquistata”.
Così come la Casa Bianca, prima con Donald Trump e poi con Joe Biden, si è fidata del Qatar come mediatore con i talebani afghani – venendo sorpresa dal blitz con cui si impossessarono di Kabul il 15 agosto 2021 – adesso è il turno di Israele a dover prendere atto che la mediazione qatarina con Hamas, ha consentito ai jihadisti di Gaza di avere le risorse necessarie per attaccarla. “Ciò non significa – precisa Karmon – che Doha sapesse in anticipo dei piani di Hamas ma pone un problema politico gigantesco sulla credibilità di Doha come garante dell’affidabilità dei gruppi jihadisti”.
A questo bisogna aggiungere che Hamas riceve, ogni mese, donazioni “caritatevoli” raccolte da una vasta rete di moschee e centri di cultura islamica controllati dai Fratelli musulmani – anzitutto negli Usa, in Gran Bretagna ed in Turchia – nel pieno rispetto delle leggi vigenti in questi Paesi. “È questo network di finanziamenti che sostiene imam e moschee che diffondono l’ideologia dei Fratelli musulmani, della Jihad Islamica, di Al Qaeda, di Isis e di Hamas” sottolinea Karmon, il cui obiettivo “non è politico di ottenere questo o quel risultato ma strategico, sottomettere il mondo alla Jihad”.
C’è questa radice ideologica del nemico alla genesi della difficoltà di combatterlo perché l’obiettivo di sottomettere con la violenza il mondo alla Jihad può rinnovarsi, da un secolo all’altro, da un Paese all’altro, anche solo con la diffusione di un testo, un video o l’audio di un sermone. A conferma della difficoltà della sfida contro questa ideologia, quando nel 2014 gli Stati Uniti hanno deciso di creare una coalizione internazionale – con la partecipazione di Paesi europei, mondo arabo, guerriglia curda, Iran e Russia – per sconfiggere Isis di Abu Bakr al-Baghdadi hanno avuto bisogno di ben quattro anni per smantellare lo Stato jihadista che era stato creato a cavallo dei confini fra Iraq e Siria.
Hamas, al pari di Isis, è dunque un nemico ibrido che somma al controllo militare di territori anche amministrazione, cibo, moschee e scuole coraniche per le popolazioni sottomesse. La brutalità dei suoi seguaci nasce da un’ideologia che recluta facendo leva su messaggi pseudo-religiosi disseminati grazie all’uso delle più moderne tecnologie, per finanziarsi come per diffondere la cultura della morte.
Un conflitto su tre livelli
Karmon studia la Jihad dal suo studio nel centro di Gerusalemme mentre poco lontano da Tel Aviv vive Jacob Amidror, in una casa dove ospita alcuni rifugiati da villaggi del Nord che sono stati completamente evacuati per proteggerli dal rischio di attacchi degli Hezbollah libanesi. Si tratta di un madre e due figlie. Amidror le ospitò già in occasione della guerra in Libano del 2006: sono passati 17 anni, la madre adesso ha i capelli grigi, le figlie sono cresciute ma dormono nelle stesse stanze che avevano allora.
“La storia per molti versi si ripete – dice Amidror, già consigliere per la sicurezza nazionale di Netanyahu e fra i più apprezzati analisti di strategia israeliani – ma questo conflitto è diverso dagli altri”. E mette l’accento su “diverso” per spiegare: “Si tratta di un conflitto che si sviluppa su tre livelli, il primo e più diretto, è la guerra iniziata da Hamas contro di noi con le atrocità contro i civili, perché ora Israele deve rispondere e cancellare Hamas, è il nostro popolo a chiedere questa risposta. C’è però un secondo livello ovvero la necessità di schiacciare Hamas per ricostruire la capacità di deterrenza israeliana contro simili nemici, a cominciare da Hezbollah in Libano, facendogli capire che ciò che capita ora a Hamas capiterà anche a loro se dovessero mai pensare di attaccarci in maniera simile. Infine, il terzo livello, perché lo scontro fra Hamas e Israele è un tassello del conflitto più ampio fra le democrazie ed i suoi nemici di cui il presidente americano Joe Biden ha parlato nel discorso alla nazione del 19 ottobre”.
Amidror conosce profondamente Israele ma anche in America si sente a casa. La sua lettura del conflitto iniziato da Hamas tiene assieme più necessità: Israele deve sconfiggere Hamas, impedire a Hezbollah di attaccarci ed aiutare l’America a confrontarsi con un asse di nemici che include l’Iran, fornitore di armi alla Russia di Vladimir Putin come nessun’altra nazione ad eccezione della Corea del Nord.
Si apre dunque un fronte parallelo a quello dell’Ucraina perché anche Kiev da una parte combatte per difendere la propria esistenza dall’aggressione russa e dall’altra fa parte dello schieramento delle democrazie occidentali alle prese con la minaccia della Russia, intenzionata a cambiare a suo vantaggio l’architettura di sicurezza, non solo europea.
“Qui in Medio Oriente, lo scontro fra democrazie e autocrazie dipenderà dalla nostra capacità di sconfiggere Hamas nella Striscia” sottolinea Amidror, secondo il quale la campagna israeliana sarà assai diversa da quanto finora abbiamo visto nei precedenti interventi di terra a Gaza – l’ultimo risale al 2014 – perché ora il fine è sradicare completamente l’organizzazione jihadista. “Per tentare di capire cosa potrà avvenire dobbiamo guardare al precedente del 2002, quando Israele intervenne nella West Bank e pose fine alla Seconda Intifada scatenata da Yasser Arafat dopo aver rifiutato a Camp David da Bill Clinton ed Ehud Barak la più ampia e seria offerta di far nascere uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza”.
L’attacco di terra
Le parole di Amidror spiegano perché c’è una convergenza fra gli analisti militari in Israele sulla tipologia di intervento che l’esercito sta preparando a Gaza.
La sconfitta della Seconda Intifada avvenne infatti con un’operazione anche allora di terra che Ariel Sharon, allora premier, coordinò meticolosamente per eliminare le cellule più violente – soprattutto Hamas ma non solo – che bersagliavano le città israeliane con attentati e attacchi suicidi. “Si trattò di identificare ed eliminare tutti i gruppi terroristi in uno spazio urbano altamente popolato – ricostruisce Amidror – fu molto difficile e servirono quattro anni di tempo, ma i soldati caduti passarono da un numero molto alto nei primi due anni a molto meno in seguito, fino a diminuire in maniera decisiva”.
Ora Israele non ha quattro anni di tempo per liquidare Hamas, ma quando il premier Netanyahu parla di “tutto il tempo necessario” lascia intendere che non sarà una campagna breve. La richiesta ai civili di Gaza di spostarsi verso Sud lascia intendere che gli israeliani vogliono entrare da Nord, per crearvi la base da cui operare dentro Gaza City, dove ritengono si trovino la maggior parte delle infrastrutture militari di Hamas. “Avremo molto morti, sarà un’operazione difficile in presenza della popolazione civile, dobbiamo aspettarci giorni molto difficili” ammette Amidror, aggiungendo però che “c’è una grande coesione nel Paese sulla necessità di entrare e distruggere Hamas perché non possiamo vivere avendo accanto dei terroristi che operano come facevano i nazisti”.
Putin addio
In attesa delle operazioni di terra, possono esserci pochi dubbi che le conseguenze della guerra con Hamas stanno già ridefinendo la posizione di Israele fra Washington e Mosca. Se dall’inizio della guerra in Ucraina il governo Netanyahu aveva tentato di mantenere un difficile equilibrio fra Kiev e Mosca – inviando solo aiuti umanitari a Volodymir Zelensky e senza applicare le sanzioni al Cremlino – ora la scelta di Putin di schierarsi con Hamas è inequivocabile, polverizzando tutto il resto.
“Nell’ultimo anno vi sono stati ben 26 incontri pubblici fra esponenti del governo russo e di Hamas” osserva Yuli Edelstein – e dall’indomani del 7 ottobre Putin non ha mai condannato il pogrom contro di noi”. Il motivo è il legame a doppio filo fra Mosca e Teheran.
“L’Iran è cruciale per Putin a causa dell’invio di armi, a cominciare dai droni, che garantisce all’esercito russo in Ucraina – osserva Edelstein – e questa è una priorità strategica che fa passare in secondo piano il legame con Israele che il leader del Cremlino aveva spesso citato in pubblico, definendoci ad esempio l’unico Stato russofono fuori dai confini dell’ex Unione Sovietica”. La guerra in Medio Oriente giova d’altra parte tatticamente a Putin per distrarre l’America dalla campagna ucraina ed anche per fomentare divisioni interne nei Paesi dell’Occidente.
“Questo non significa che la Russia sia stata al corrente dei piani di Hamas contro di noi, ma le conseguenze sono inequivocabili – termina Edelstein, già fra i leader del movimento dei Refusnik, gli ebrei sovietici che si battevano per la libertà di emigrazione in Israele – Putin ha fatto una netta scelta di campo a favore dell’Iran”. Da qui l’attenzione di Gerusalemme per la volontà di Casa Bianca ed Eliseo di creare una “coalizione contro Hamas come già fatto contro Isis”. Non perché Israele abbia bisogno di aiuti militari sul terreno ma in quanto potrebbe generare un sostegno politico capace di sostenere lo Stato ebraico sulla scena internazionale una volta iniziato l’intervento.
Ostaggi, corsa contro il tempo
La sorte degli israeliani deportati da Hamas nella Striscia di Gaza si sovrappone all’incombere dell’operazione di terra. Per comprenderne il perché bisogna ascoltare David Meidan, l’ex alto funzionario del Mossad, nato in Egitto ed immigrato in Israele quando aveva un anno di età, che il 18 ottobre 2011 riuscì ad ottenere la liberazione del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas dopo cinque anni di difficili trattative, in cambio del rilascio di 1027 detenuti e terroristi dalle carceri israeliane.
“Molti degli ostaggi presi da Hamas hanno una doppia cittadinanza e vi sono poi numerosi casi umanitari, c’è spazio per negoziare il rilascio di entrambi i gruppi in tempi stretti” spiega Meidan, sottolineando come l’amministrazione Biden sta esercitando una pressione molto forte sul Qatar affinché spinga i fondamentalisti della Striscia a liberarli. I motivi della trattativa sono molteplici e sotterranei. Da un lato c’è Doha, perché i qatarini hanno un problema di credibilità da riscattare in quanto sono stati loro negli ultimi dieci anni ad assicurare ad Occidente, Israele e mondo arabo che era possibile venire a patti con Hamas.
Se il premier qatarino, Mohammed al-Thani, è impegnato in prima persona ad ottenere il rilascio di ostaggi stranieri ed umanitari è perché ben consapevole della necessità di impedire che Doha ridiventi una nazione paria, sospettata di complicità con il terrorismo islamico, come già avvenuto fra il 2017 ed il 2021 quando fu Riad a guidare il Consiglio di Cooperazione del Golfo ad isolarla, imponendole dure sanzioni a causa del legame con i Fratelli musulmani. Ma c’è dell’altro perché, aggiunge Meidan “anche Hamas ha un problema da risolvere” dato dal fatto che “più Paesi arabi, dall’Egitto al Qatar, hanno visto nella brutale violenza contro i civili israeliani un comportamento che insulta i principi dell’Islam”.
È proprio la necessità per Hamas di far fronte a queste critiche – aspre ma mai pubbliche – ad aver spinto Khaled Mashaal, ex capo del Politburo, a liquidare in tv i rapimenti come eseguiti da “civili di Gaza”, fino alla liberazione dei primi quattro ostaggi – prima due israelo-americane, poi due anziane israeliane – al fine di provare un presunto atteggiamento “umanitario” dei jihadisti. La trattativa è però una corsa contro il tempo, perché l’inizio dell’intervento di terra incombe e Meidan ritiene che “per avere successo deve includere non solo gli stranieri ed israeliani con doppio passaporto ma anche tutti gli ostaggi umanitari” perché “fare una selezione escludendo i civili israeliani” riproporrebbe da parte di Hamas comportamenti analoghi a quelli delle selezioni eseguite dai nazisti “risultando inaccettabile alla nostra opinione pubblica”. Quando Meidan dice “casi umanitari” intende “anziani, donne e bambini” perché “vi sono bambini molto piccoli ed anche madri con figli” ovvero persone che non sarebbero in grado di sopravvivere in caso di guerra aperta.
Il funerale di Dana Bachar e di suo figlio Carmel, al cimitero di Gan Shlomo. Israele centrale, 24 ottobre 2023 – Foto AFP
Golda Meir o Chamberlain?
A Tel Aviv la piazza davanti al museo di Arte moderna è lo specchio della sovrapposizione fra le due ferite aperte di Israele. A prima vista ciò che domina la piazza è il lungo tavolo apparecchiato con le “Challot” – il pane del sabato – con 222 posti, quanti sono i rapiti da Hamas.
Le famiglie degli ostaggi vengono sulla piazza, sostano in un luogo a pochi metri di distanza e raccontano il loro dramma. E sulla stessa piazza i nomi dei rapiti sono stati aggiunti al monumento che ricorda la guerra del Kippur del 1973 – anche allora un attacco a sorpresa – raffigurando l’episodio biblico del Sacrificio di Isacco. Ma a ben vedere sul selciato biancastro c’è dell’altro. Scritte e volantini che raccontano le 40 settimane di protesta contro il premier Netanyahu e la sua riforma della Giustizia che hanno mobilitato, ogni sabato sera, decine di migliaia di persone.
Sulla parete esterna del museo un grande poster ricorda la Dichiarazione di indipendenza di Israele, letta da David Ben Gurion, proprio per sottolineare quei valori fondamentali della democrazia israeliana che i manifestanti rimproverano a Netanyahu di non rispettare. La sovrapposizione plastica, nello stesso spazio fisico, della lacerazione politica causata dalla riforma della Giustizia con la lacerazione emotiva provocata dalle atrocità di Hamas, spiega perché sulla figura del premier le divisioni restino profonde.
Se nei quindici giorni seguiti al “Sabato Nero” l’ostilità contro Netanyahu sembrava sopita, ora torna a manifestarsi con la voce di chi, come alcune delle persone che sostano sulla piazza, sostiene che “il responsabile della mancata difesa del Paese è lui ed ora non può guidarci contro Hamas”.
A spiegare questo bivio è Amos Gilad, ex generale, già stretto collaboratore del premier Itzhak Rabin ed una delle voci più presenti nelle proteste di piazza. “Molti parlano dello scenario delle dimissioni di Netanyahu a campagna militare finita, facendo il paragone con quanto fece Golda Meir dopo la guerra del Kippur – dice – ma io credo che sarebbe un grave errore, Netanyahu non è Golda Meir, a guerra finita cercherebbe di sopravvivere politicamente dando la colpa a qualcun altro e, poiché è lui il responsabile politico di quanto avvenuto, deve andarsene subito”.
Lo scenario di un premier che si dimette in Israele durante un conflitto in corso ha un unico precedente: Menachem Begin che, nel 1983, circa un anno dopo l’inizio della guerra in Libano, quando il numero dei caduti israeliani arrivò a superare i 500, andò nel suo ufficio e firmò le dimissioni, lasciando la guida del governo al compagno di Likud, Itzhak Shamir.
“Netanyahu non è Begin e non lo farà – aggiunge Gilad – ma la Storia ci consegna il precedente di Neville Chamberlain che, nella Gran Bretagna in guerra con la Germania nazista, dopo quasi un anno di errori ed umiliazioni si dimise assumendosi la responsabilità di tali fallimenti. Ed arrivò Winston Churchill”.
Questo significa che la discussione sulla responsabilità del fallimento nella difesa del Paese il 7 ottobre non aspetta la fine della campagna di Gaza: è già cominciata. C’è chi afferma, come Amidror, che “la responsabilità di aver creduto alla tesi del Qatar sulla possibilità di comprare la coesistenza con Hamas” sia “dell’intero sistema politico-militare” e dunque è un errore identificare nel premier il solo capro espiatorio, e chi invece come Gilad ritiene che “il Chamberlain d’Israele debba dimettersi subito per consentire al Paese di unirsi davvero”.
Attorno ai tavolini di un caffè di Ramat Aviv due ufficiali della riserva parlano fra loro, facendo capire quanto profonda è la lacerazione: “Netanyahu non ha mai voluto combattere guerre vere e proprie perché nei momenti decisivi esita sempre, per questo ha consentito agli ufficiali americani di essere coinvolti nella nostra pianificazione più segreta” afferma il più anziano, mentre l’altro ribatte “ora abbiamo un unico premier, dividersi su di lui sarebbe l’errore più grande, liquidiamo Hamas e poi torneremo a parlare di politica”.
Una nazione da ricostruire
Poco lontano dal Kanyon di Ramat Aviv ha sede l’Istituto nazionale di studi sulla sicurezza (Inss) guidato da Manuel Trajtenberg, l’economista già stretto collaboratore dei premier Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu nonché ideatore nel 2006 del primo Consiglio economico per la sicurezza nazionale dello Stato ebraico. Ciò che distingue Trajtenberg è incrociare le conoscenze su economia e sicurezza per definire l’agenda delle priorità per il Paese. Davanti al Sabato Nero non esita a definire Israele “in uno stato di shock collettivo” perché il successo dell’attacco a sorpresa ha fatto venir meno “alcune certezze fondamentali” come “la solidità del sistema di sicurezza” e il “culto per l’alta tecnologia”. A cui bisogna aggiungere il venir meno della “resilienza sociale” dovuta alle proteste di strada contro la riforma della Giustizia.
“Israele è una nazione da ricostruire” afferma Trajtenberg, sottolineando che “si tratta di un momento di grande difficoltà” ma anche “con alcuni precedenti che dimostrano come queste transizioni appartengono al dna del Paese”. Il caso più evidente è il 1973 “quando l’attacco a sorpresa subito da Egitto e Siria portò a scuotere le coscienze tutti in maniera talmente profonda che nel 1977 per la prima volta il Likud arrivò, con Menachem Begin, alla guida politica del Paese” e “nel 1978 vi furono gli accordi di pace di Camp David con l’Egitto di Sadat”.
E ancora: “È stata l’iper-inflazione del 1985, quando si toccava il 500 per cento l’anno, a spingerci verso le riforme economiche che hanno generato la Start Up Nation dell’alta tecnologia” e nel 2002 la Seconda Intifada con i kamikaze che si facevano esplodere a raffica nelle città israeliane portò “a rendersi contro che l’Olp di Yasser Arafat non poteva essere un partner per la pace” aprendo il terreno al dialogo con le nazioni arabe del Medio Oriente che ha portato agli Accordi di Abramo del 2020 con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan.
“Nel dna di Israele c’è la capacità di affrontare le trasformazioni più inattese e profonde, uscendone più forti” assicura Trajtenberg, secondo il quale “adesso l’agenda da affrontare è costituita dai problemi che abbiamo scelto di non discutere troppo a lungo”.
Sono tre. Ecco di cosa si tratta. Primo: “Gli ortodossi saranno presto il 30 per cento della popolazione, c’è fra loro una nuova positiva tendenza all’integrazione, a cominciare dall’aumento di coloro che fanno il servizio militare, e bisogna spingerli a dare un maggiore contributo alla vita del Paese, senza nulla togliere al loro modo di vita, ma per farlo lo Stato deve diminuire i sussidi pubblici alle scuole religiose perché li spingono a isolarsi”.
Secondo: “Gli arabo-israeliani sono oltre il 20 cento della popolazione, al loro interno il tasso di criminalità è molto alto, dobbiamo investire per migliorare la loro qualità di vita, di studio, affinché la violenza scenda e l’educazione aumenti”.
Terzo: “I palestinesi sono i nostri vicini, parlare ora di convivenza sembra impossibile dopo quanto avvenuto con Hamas perché il livello di fiducia nei confronti di Gaza e della West Bank non è mai stato così basso, ma ciò non toglie che la maggioranza di chi risiede fra Gaza e Ramallah non vuole la guerra con noi” e dunque “serve una nuova generazione di leader israeliani capaci di dialogare con una nuova generazione di leader palestinesi” ovvero coloro che verranno dopo Mahmud Abbas.
Trajtenberg non si nasconde che si tratta di “argomenti ora quasi impossibili da affrontare per chiunque” ma vede nella volontà degli israeliani di battersi sulla riforma della Giustizia – tanto quelli contrari che i favorevoli – la possibile genesi di una “rottura positiva rispetto al presente”. “Vincendo questa sfida – assicura – Israele ne uscirà più forte e coesa”.
Il fatto che proprio il cuore del movimento anti-Netanyahu oggi sia impegnato a sostenere ovunque la mobilitazione delle truppe contro Hamas “testimonia che qualcosa sta avvenendo nelle viscere del Paese”. E gli occhi sono su quei leader emergenti nell’economia, della “Start Up Nation”, che si sono imposti durante le manifestazioni anti-riforma: dal venture capitalist Eyal Waldman – la cui figlia Danielle con il fidanzato è stata assassinata al rave party del Nova Festival – a Moshe Redman, volto di spicco dell’hi-tech. “Proprio come avvenuto in Italia dopo Tangentopoli, quando a cadere furono Craxi ed Andreotti e ad emergere furono Berlusconi e Prodi – afferma David Meidan – credo che anche in Israele la nuova generazione di leader verrà dal mondo dell’economia”.
C’è però anche un’altra Israele che bussa alle porte: “Nelle unità speciali dell’esercito i sionisti religiosi sono la maggioranza mentre alla mia epoca eravamo pochissimi ed a prevalere erano i laici – dice il generale Amidror – questo significa un cambiamento importante nelle viscere della nazione, con la mobilitazione di nuove energie capaci di generare leadership”.
Occhi puntati su Ramallah
Quando i leader israeliani, politici e militari, affermano che non è loro intenzione occupare la Striscia di Gaza dopo l’eliminazione di Hamas, pongono la questione di chi la governerà a guerra finita.
L’Onu è già presente con scuole e centri medici gestiti dall’Agenzia Unrwa e ciò significa che il suo personale – magari rafforzato o affidato a nuove forme di intervento – potrebbe svolgere un compito di assistenza umanitaria nel breve termine agli oltre 2,3 milioni di residenti civili. Ma resta la questione del governo nel medio-lungo termine ovvero la gestione dell’amministrazione pubblica che dopo il ritiro unilaterale di Israele nel 2005 passò all’Autorità nazionale palestinese e dopo il colpo di mano del 2007 venne presa con la forza da Hamas.
“La soluzione più logica può essere quella di restituire il governo della Striscia all’Autorità palestinese” afferma Yigal Karmon. Ma questo scenario porta con sé l’interrogativo su chi può essere in grado di governare Ramallah con credibilità politica ed energia personale tali da riprendere il controllo della Striscia e, di conseguenza, riprendere il negoziato con Israele per arrivare ad una definitiva composizione del conflitto.
Al momento alla Muqata siede – dal 2015 – il presidente Mahmud Abbas e David Meidan sottolinea che “a dispetto dell’età e di una salute a volte considerata precaria, fino a quando resta lui, dobbiamo negoziare con lui”. Tantopiù che Abbas, pur protagonista di serie crisi con Israele e autore in settembre di dichiarazioni incendiarie come quelle sulla Shoà (“Hitler ha combattuto gli ebrei per il loro ruolo sociale e non per la loro fede”), non ha fatto venire meno la cooperazione nella lotta al terrorismo e per mantenere la sicurezza nella West Bank.
Le parole pronunciate da Abbas dopo il pogrom del 7 ottobre sul fatto che “Hamas non rappresenta la causa palestinese” avvalorano il suo ruolo di leader di un nazionalismo che resta basato sul Fatah, un movimento laico, ostile al fondamentalismo religioso di Hamas. Ma Abbas è anche alla guida di un sistema di potere gestito da famigliari e stretti collaboratori imputato – da anni – di corruzione endemica a scapito dello sviluppo della West Bank. Sono queste accuse, molto diffuse nelle città palestinesi, che lo rendono poco credibile, vulnerabile, politicamente instabile. Da qui la costante attenzione di Israele, Stati Uniti ed Europa su possibili alternative.
I nomi più popolari che circolano nella West Bank sono due: Mohammed Dahlan e Marwan Barghouti. Dahlan è nato a Gaza, ha guidato Fatah nella Striscia e vive negli Emirati, dove gestisce affari economici di grande successo con l’evidente sostegno di Abu Dhabi: potrebbe essere l’uomo giusto per unificare i palestinesi con il sostegno del Paese arabo in questo momento al centro della normalizzazione dei rapporti con Israele.
Ma “Dahlan non scalda i cuori dei palestinesi – aggiunge Karmon – a differenza di quanto avviene per Marwan Barghouti”. La popolarità di Barghouti nasce dal fatto di essere stato uno dei leader della Prima ed anche della Seconda Intifada, quando furono proprio i suoi “Tanzim” a compiere alcuni dei più sanguinosi attentati contro Israele. Per questo Barghouti sconta nelle carceri israeliane ben cinque ergastoli e incarna la figura di uno dei nemici più feroci dello Stato ebraico.
“Scarcerarlo per il nostro governo – osserva Manuel Trajtenberg – significherebbe tentare di ripetere l’operazione Nelson Mandela in Sudafrica ovvero puntare sulla sua popolarità per favorire una vera, profonda riconciliazione”. Sulla carta è uno degli scenari possibili ma Karmon mette le mani avanti: “Dopo quanto avvenuto il 7 ottobre nessun israeliano sano di mente accetterà mai uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania, temendo che possa trasformarsi in un’altra Gaza, che ci attaccherebbe senza interruzione”.
Per il fondatore di Memri, “nel breve periodo l’unica soluzione possibile è quella a cui pensò anni fa Yitzhak Rabin, assegnando alla West Bank e magari anche a Gaza, una completa autonomia ma senza armi e soprattutto del tutto staccata da noi, con una barriera ancora più consistente di quella che fece costruire Ariel Sharon al termine della Seconda Intifada”. Le immagini che abbiamo visto in questi giorni in più località della Cisgiordania, con abitanti degli insediamenti ebraici che abbattono i grandi cartelli rossi ai confini con le aree controllate dall’Autorità palestinese danno la temperatura di quanto sta avvenendo in Giudea e Samaria – i nomi ebraici della West Bank – dove la popolazione israeliana non sembra più intenzionata a rispettare i confini stabiliti dagli accordi di Oslo nel timore di subire attacchi come quelli che hanno insanguinato il Negev Occidentale. Anche perché in alcuni centri, come Hebron, il fondamentalismo è molto radicato mentre Jenin è divenuta nell’ultimo anno l’epicentro delle attività di nuovi gruppi violenti, protagonisti di attentati anti-israeliani.
La sfida sulla narrativa
C’è infine un fronte di sfida fra Israele e Hamas che ha a che vedere con la narrazione di quanto avvenuto il 7 ottobre. Gli abitanti dello Stato ebraico hanno vissuto l’eccidio di civili e le atrocità compiute dai jihadisti come una ripetizione delle più brutali persecuzioni del passato. Come riassume David Meidan: “È come se avessimo scoperto centinaia di Anne Frank” per la moltitudine di civili che sono stati obbligati a rifugiarsi in casa propria nella speranza di sfuggire alla caccia all’ebreo messa in atto dai jihadisti con mappe, liste di nomi ed istruzioni precise tese a massimizzare la strage di civili.
Hamas invece, nelle parole di Khaled Mashaal, ex capo del comitato centrale ora in Qatar, ribatte che “non è affatto vero che abbiamo ucciso dei civili”: si tratta di “propaganda sionista” tesa a far dimenticare “i crimini commessi contro la popolazione di Gaza con l’assedio economico e con i bombardamenti aerei”.
Per avvalorare questa versione il ministero della Sanità di Gaza, controllato come tutta l’amministrazione locale da Hamas, si è affrettato ad imputare ad Israele la bomba esplosa sull’ospedale battista di Al-Hali lo scorso 17 ottobre, “provocando 500 morti”. In realtà prima i portavoce militari israeliani, poi alcuni fra i maggiori quotidiani internazionali – dal “Wall Street Journal” al “New York Times” – hanno dimostrato con abbondanza di documenti che ad essere esploso sull’ospedale è stato uno dei razzi difettosi lanciati dalla Jihad islamica palestinese verso Israele: poco dopo il lancio è caduto dentro la Striscia, come avviene nel caso di un quinto degli ordigni.
Pur smentita, la notizia della “strage israeliana a Gaza” ha consentito a Hamas in più Paesi occidentali – dagli Stati Uniti alla Francia fino all’Italia – di oscurare il pogrom del 7 ottobre con le accuse di “crimini contro l’umanità” commessi da Israele. Una motivazione che si ritrova nelle manifestazioni pro-Hamas avvenute, in Europa come negli Stati Uniti, segnate da un’aggressività crescente contro gli ebrei: a Viale Padova, Milano, gridando a squarciagola “Togliete i confini, uccideremo gli ebrei” così come nella “Cooper Union” di New York City, dove una folla di facinorosi pro-Hamas ha assediato nella libreria gli studenti ebrei, minacciando di sfondare le porte per aggredirli. È l’aggressività contro gli ebrei in genere a ribadire la sovrapposizione fra antisionismo ed antisemitismo, evidenziando i pericoli che vengono dalla banalizzazione del pogrom di Hamas. Ma, nonostante ciò, la narrazione dei jihadisti sul 7 ottobre appare consolidata, facendo leva su gruppi organizzati, pubblicazioni web e manifestazioni in Nordamerica ed Europa contro i “crimini di Israele”. Cancellando con un colpo di spugna le “centinaia di Anne Frank” frutto del pogrom nei villaggi civili del Negev.