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BUON ANNO” DI ALEICHEM, UN TRENO A VAPORE CHE CI PORTA IN UN TEMPO PERDUTO

Stefano Jesurum 21 Febbraio 2021

Sono svariati – non tutti degni di vanto – i motivi per cuida sempre gli amici mi chiamano bonariamente l’orso ebreo, e ben da prima che comparisse il mitico sergente Donny Donowitz di “Inglorious Basterds”. Una delle ragioni di questo simpatico soprannome è l’inveterata tenacia con cui durante un viaggio, lungo o breve che sia, in treno o in aereo, non rivolgo rigorosamente la parola ai casuali vicini di posto, né tanto meno cedo a eventuali loro tentativi di conversazione. Che tuttavia spesso ascolto senza isolarmi nelle cuffie e, anzi, spiando con immensa speranzosa curiosità storie che nella stragrandissima maggioranza delle volte non valgono alcunché. Ed ecco che, bizzarra ironia della sorte, Anna Linda Callow mi regala un libriccino destinato a farmi pentire di un’ormai lunga esistenza così, appunto, orsesca.

Anna Linda Callow

Perché “Buon anno!”, quattro racconti brevi di Sholem Aleichem, tradotti e curati per Garzanti dalla suddetta Anna con l’apporto di Franco Bezza e Haim Burstin, ti fa invece accomodare sulla carrozza d’un vecchio treno a vapore che collega alcuni shtetl dell’yiddishland (se ne avete la possibilità, immergetevi nelle parole e nei suoni tenendo sulle ginocchia le meravigliose immagini di “Un mondo scomparso” di Roman Vishniac) e ti rende partecipe delle storie incredibili e folli narrate al suo pubblico ferroviario dal commesso viaggiatore alter ego di Aleichem.

Shloem Aleichem

Scrittore di cui – credo – non sia necessario riassumere né la grandezza né la torrenziale vastissima produzione (un titolo per tutti “Tewje il lattaio”).Universi chagalliani e rabbini, personaggi di ogni genere e varietà, riti religiosi, tradizioni familiari, trame tanto fantastiche quanto semplici, reali, sovente ironiche. In questi quattro cammei poi, redatti tra il 1900 e il 1915, protagonisti possono essere perfino una vecchia pendolae una lezione di violino. L’immensa dolcissima nostalgia per un universo irripetibile. Vorrei poi aggiungere che in un breve passaggio de “La pendola” c’è – secondo me –una delle più semplici, profonde raffigurazioni di quel segreto tutto ebraico di concezione del tempo/non tempo che tanto unisce e rinsalda ancor oggi – da sempre – gli ashkenaziti e i sefarditi, i laici e i religiosi, gli osservanti e i poco o nulla credenti… «(su quell’orologio. NdR) quasi mezza città regolava i propri doveri religiosi: la commemorazione della distruzione del Tempio, la sveglia per le preghiere mattutine, il rito del pane del venerdì, la benedizione delle candele, l’accensione del fuoco all’uscita del sabato, la salatura della carne e tante altre cose di questo genere che riguardano la vita ebraica». Insomma quella sorta di appartenenza a un mondo che non c’è più, ma a un popolo che vive.

Stefano Jesurum

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Evento 11 febbraio 2021: Israele torna al voto. Tutti gli scenari

L’evento si è svolto via Zoom e ha visto la partecipazione di circa 40 persone collegate da tutta Italia e da Israele.

La serata di approfondimento della politica israeliana era moderata da Gabriele Eschenazi che nella sua introduzione ha dedicato un affettuoso ricordo dei coniugi Rina e Nedo Fiano, scomparsi da poche settimane, che hanno dato tanto all’ebraismo italiano con la loro testimonianza.

Gabriele Eschenazi

Ha quindi introdotto i due relatori: Aldo Baquis, giornalista, e Roberto Della Rocca, esponente del partito Meretz, entrambi collegati da Israele, ed ha posto loro il tema della serata: quali scenari, quali protagonisti, cosa succede a Sinistra in Israele in vista delle prossime elezioni del 23 marzo prossimo.

Aldo Baquis, nel riportare l’atmosfera politica che si respira in Israele in vista delle elezioni, ha sottolineato come il corona virus resti il maggior assillo degli israeliani, nonostante la grande campagna di vaccinazione. Destano preoccupazione le notizie tendenziose sugli effetti dei vaccini diffuse sulle reti sociali che le Autorità sanitarie cercano di contrastare. La partita è ancora in bilico malgrado 3,5 milioni di persone già vaccinate con la prima dose e 2,2 milioni con la seconda dose. Se Netanyahu sperava di utilizzare la carta della vaccinazione di massa e l’uscita dalla crisi primi al mondo come argomenti elettorali, sembra un obiettivo non ancora raggiunto a causa del livello di nuovi contagi ancora elevato, anche per effetto delle nuove varianti, e la situazione degli ospedali pieni di pazienti anche gravi. Il governo è impegnato in una battaglia severa ed in particolare il Ministero della Sanità ha chiesto che l’uscita dal lockdown e la riapertura delle scuole siano molto prudenti e graduali.

Aldo Baquis

In questo contesto di apprensione e di vigilanza nei confronti degli sviluppi della pandemia si innesta un’altra questione in qualche modo legata alle elezioni ed è il comportamento della minoranza araba e degli ebrei ortodossi. In entrambe queste comunità, che hanno dimensioni abbastanza rilevanti, il tasso di vaccinazione non è elevato, si notano infrazioni ed un senso di sospetto verso le autorità. Di conseguenza ci sono tassi di contagio molto elevati in entrambe le comunità e si rilevano comportamenti di indisciplina. Questo è un elemento importante per chi andrà a votare, che ha notato nelle ultime settimane come il governo sia stato latitante nelle zone ortodosse non applicando le stesse misure restrittive che gli israeliani laici hanno dovuto osservare, come le scuole chiuse, mentre le scuole religiose e le sinagoghe restavano aperte. I partiti ortodossi sono alleati importanti di Netanyahu e quindi si è creato un clima antipatico verso la minoranza ortodossa che si sente al di fuori della solidarietà nazionale.

Un altro argomento è il futuro delle relazioni con gli Stati Uniti. Crea qualche apprensione il fatto che Biden non abbia ancora parlato con Netanyahu. L’ex ministro del Likud Gilad Erdan, senza alcuna esperienza diplomatica, è stato nominato nuovo ambasciatore sia a Washington sia all’Onu, fatto inusuale per la diplomazia. C’è il timore che Biden sia più morbido nei confronti dell’Iran, che si teme possa entro due anni disporre della bomba atomica, e Netanyahu spinge su Biden per mantenere le sanzioni ed evitare che recuperi gli accordi di Obama. I programmi nucleari iraniani restano fonte di grande preoccupazione e le Forze Armate hanno avuto ordine di preparare piani di contingenza. E’ possibile che il Capo del Mossad Yossi Cohen venga inviato a Washington a breve per illustrare la situazione alla nuova amministrazione USA.

Inoltre ci sono tensioni al confine con il Libano perché si sta svolgendo una grande manovra militare israeliana.

La situazione sociale resta tesa con migliaia di disoccupati a causa della crisi economica dovuta alla pandemia ma il governo uscente non ha varato la legge finanziaria innescando la rottura dell’alleanza di governo con il partito Bianco Blu di Ganz. Il Likud nega ma è molto atipico che un ministro delle finanze non faccia passare la legge finanziaria. Come conseguenza molti validi funzionari hanno lasciato il ministero.

Parlando delle novità nelle liste dei partiti, sarebbe stato lecito pensare che dall’esplosione di energia generata dalle continue manifestazioni in tutto il paese dei dimostranti di sinistra per richiedere le dimissioni di Netanyahu sarebbe scaturito un forte sbocco per le elezioni di marzo ma così non è stato. Il tentativo di dar vita ad una forza unita di quattro liste (Labour, Meretz, con la nuova Lista di Ofer Shelah (ex Yesh Atid) annunciata a fine dicembre, e quella del sindaco di Tel Aviv Ron Huldai) non è maturato, con la conseguente rinuncia sia di Shelah che di Huldai.

Restano quindi in lizza il Labour e Meretz, oltre alla Lista Araba considerata parte della sinistra.

Il partito laburista emerge da una fase molto difficile perché alle scorse elezioni il leader Amir Perez aveva assicurato che non sarebbe entrato in un governo guidato da Netanyahu. Invece ha poi deciso di entrare con un ruolo marginale insieme ad un altro deputato diventato ministro. Questo pesante voltafaccia ha fatto perdere prestigio al partito laburista e le nuove primarie di gennaio sono state vinte da Merav Michaeli, un’opinionista molto presente nei media, TV, internet, social , che rappresenta una piattaforma progressista e femminista. In realtà la sua linea politica non è molto dissimile da quella del Meretz e un recente sondaggio dà il Labour in ascesa a 7 seggi, però a scapito del Meretz , che rischierebbe di restare fuori dalla Knesset.

A destra c’è un’inflazione di liste di ultradestra, con la novità di Nuovo Sionismo Religioso (Hazionut Hadatit) nata su pressione di Netanyahu e guidata dal leader dei coloni Bezalel Shmotrich e da Itamar Ben Gvir, esponente della scuola di pensiero del rabbino Kahane.

Il Kach del rabbino Kahane – che nel 1990 fu ucciso a New York in un attentato terroristico – era un movimento eversivo, dai toni esasperati e razzisti. Nel 1994, in seguito alla strage alla Tomba dei Patriarchi di Hebron compiuto da uno suo affiliato, Baruch Goldtsein, il Kach fu disciolto in quanto organizzazione terroristica.

Nel 1995 Ben Gvir – allora un militante molto giovane legato ad ambienti ex-Kach e accesamente ostile agli accordi di Oslo – partecipò a manifestazioni aggressive di protesta contro il governo Rabin, arrivando a minacciare il ministro della difesa Benyamin Ben Eliezer. In seguito, da avvocato, Ben Gvir ha difeso numerosi ultrà ebrei protagonisti in Cisgiordania di attacchi a danno dei palestinesi. Da allora sostiene di aver mantenuto un rispetto fondamentale verso la ideologia del rabbino Kahane e anche verso lo stesso Goldstein, ma di aver elaborato una propria ideologia in forma più pragmatica.  

Roberto Della Rocca

Ha poi completato l’analisi della situazione politica Roberto Della Rocca che ritiene che ci sia massima incertezza sull’esito delle elezioni ma è pessimista perché Netanyahu farà sicuramente di tutto per restare al potere per arrivare al processo come Primo Ministro, e cercherà di convincere ad entrare in coalizione Bennet, leader del partito nazionalista Yemina a destra del Likud che i sondaggi danno a 11-12 seggi. In realtà il confronto politico è una specie di referendum tra i partiti pro o contro Netanyahu, non c’è più destra o sinistra. La novità è il partito Tikvà Hadashà (Nuova Speranza) creato due mesi fa per raccogliere i voti di chi è scontento del Likud, trasformato da Netanyahu in un suo partito personale, da Gideon Saar, ex ministro dell’Educazione ed avversario interno di Netanyahu.

Questa lista è stimata in 13 seggi, contro i 28 del Likud e i 18 di Yesh Atid, la lista di Yair Lapid, dato secondo anche nei sondaggi con il 28% come più adatto a fare il Primo Ministro, dietro a Netanyahu al 38% e davanti a Saar sceso all’11%.

La soglia per accedere alla Knesset è 3,25% dei voti validi e garantisce 4 seggi. Se Meretz non dovesse passare, per effetto del recupero dei Laburisti, sarebbe la prima volta dalla sua fondazione quasi trent’anni fa.

Anche la Lista Unica Araba, tradizionalmente considerata parte del centro sinistra perché contro i governi di destra ma in realtà costituita da quattro partiti con molte differenze, si è spaccata con l’uscita del partito islamico del sud, di ultradestra nazionalista e contro la modernità. Si prevede ora che questa lista unica passi da 15 a 9 seggi mentre Netanyahu corteggia gli arabi religiosi del partito Raam.

Un governo anti Netanyahu potrebbe comprendere anche Meretz su punti specifici concordati ma è difficile pensare che Meretz possa stare in una coalizione con Liberman, che rappresenta con Israel Beitenu la destra laica degli ex-sovietici, e Saar, che si colloca più a destra di Netanyahu sia per la politica degli insediamenti sia per l’insegnamento della religione nella scuola. Meretz si trova all’opposizione da 22 anni, l’ultimo governo era stato quello di Barak. Con i Laburisti, a cui manca un leader forte e onesto, ridotti a 6-7 seggi, è chiaro che Israele sta andando sempre più a destra, anche per l’effetto demografico dei religiosi e dei sefarditi che hanno una natalità più alta, anche degli arabi.

Ad una domanda sulla strategia di medio periodo di Meretz, identificato come partito della bolla progressista di Tel Aviv, Roberto Della Rocca ha risposto ricordando che Meretz è il partito che ha il record di leggi e proposte di legge per difendere le classi sociali più deboli, come la legge per permettere l’acquisto delle case popolari da parte degli inquilini, ma non riesce a fare presa nelle cittadine di sviluppo e nelle zone al di fuori di Tel Aviv per un linguaggio non adatto.

Meretz si presenta alle elezioni con la conferma due candidati arabi, di cui una donna, per avvicinarsi alla popolazione araba israeliana che, secondo Aldo Baquis, dovrebbe essere maggiormente coinvolta. A parte gli episodi di indisciplina, in questi mesi gli israeliani hanno scoperto che i medici e gli infermieri arabi sono una forza importate per tenere insieme le istituzioni. Ogni servizio in televisione su strutture ospedaliere ha mostrato il volto umano di medici ed infermieri arabi. Sono processi che richiedono tempo ma che servono a rompere gli stereotipi. Lo stesso Netanyahu, che nel 2015 incitava il suo elettorato ad andare a votare perché gli arabi venivano trasportati ai seggi da organizzazioni di sinistra, ora fa campagna elettorale nelle località arabe, anche per spronarli a vaccinarsi, con un atteggiamento sui social molto diverso grazie all’apertura di una pagina Facebook in arabo. E’ importante che la società israeliana assorba al suo interno la popolazione araba per molti versi emancipata e civile. Due esempi dimostrano il cambiamento in atto: la televisione pubblica ha un corrispondente arabo di Gerusalemme, elevato a giornalista di pieno rispetto, che tratta tutti i temi di attualità con assoluta imparzialità. Anche Haaretz sta assumendo diversi cronisti arabi.

Abu Mazen il mese scorso ha proclamato le elezioni della Autorità Nazionale Palestinese, che si erano svolte l’ultima volta nel 2006. Il 22 maggio si voterà per il Parlamento di Ramallah, il 21 luglio le elezioni presidenziali ed a fine agosto il Consiglio Nazionale Palestinese in esilio. Pochi giorni fa al Cairo si sono conclusi sotto l’egida di Al Sisi i colloqui tra le 14 fazioni palestinesi, di cui Hamas e Al Fatah sono le più importanti, con il raggiungimento di un accordo che dovrebbe assicurare il corretto svolgimento della campagna elettorale e delle elezioni. Anche se i problemi di fondo tra le fazioni non sono superati, va notato un cauto ottimismo tra i palestinesi per effetto della elezione di Biden, che potrebbe portare alla riapertura del consolato USA a Gerusalemme Est e della rappresentanza a Washington della ANP.

Roberto Della Rocca ha confermato che il focus che differenzia Meretz dagli altri partiti sta nella difesa delle minoranze immigrati e arabi. Si dimenticano le leggi sociali, la difesa della donna e degli omosessuali. Ma il problema di fondo per la sinistra resta la soluzione del conflitto palestinese, che condiziona la soluzione di tutti gli altri problemi come la situazione economica, culturale, la democrazia, i rapporti internazionali. Per diventare un paese normale Israele deve avere una soluzione concordata con i Palestinesi e accettata dalla comunità internazionale.

La posizione dei Laburisti di Merav Michaeli sul conflitto palestinese è più blanda, a conferma che questo è un tema sempre meno presente nel dibattito politico israeliano.

Horowitz, leader del Meretz, spinge sul problema palestinese ma bisogna saper parlare agli elettori anche su altri temi più vicini a loro.  Nei territori occupati di Giudea e Samaria ci sono 500.000 coloni ma la popolazione araba ha la natalità più alta del mondo. Sommando gli arabi cittadini di Israele agli arabi che vivono a Gaza e in Cisgiordania, si arriva a un totale di 6,5 milioni.  Poiché in Israele vivono 6,3 milioni di ebrei, è evidente che in una prospettiva di “Grande Israele” il mantenimento di uno stato ebraico sarebbe incompatibile con uno stato democratico.  L’unica soluzione sarebbe rientrare nei confini del 1967.

La democrazia è molto debole per effetto degli attacchi da parte di Netanyahu alla magistratura, alla stampa libera, alla polizia, con una situazione molto preoccupante.

Giorgio Gomel ha commentato che da due anni la democrazia in Israele è limitata dal plebiscito personale su Netanyahu, che dovrebbe essere giudicato dal tribunale e non dagli elettori.

Per la sinistra l’unica possibilità sarebbe un’alleanza con la lista araba, per consentire al 20% della popolazione di essere rappresentato. Ma Meretz è un partito sionista, è difficile pensare ad una lista unica con i partiti arabi.

Secondo Daniele Nahum il fronte anti Netanyahu è molto disomogeneo. Negli ultimi vent’anni lo scontro politico è stato tra Destra e Centro Destra, con la Sinistra assente che non riesce a capire la situazione sociale.

L’incontro si è concluso con la promessa di un nuovo incontro dopo il 23 marzo per l’analisi del voto.

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CATTIVA MEMORIA

STORIA, MEMORIA, VERITÀ: RIFLESSIONI SULL’ULTIMO LIBRO DI MARCELLO FLORES

David Bidussa 27 gennaio 2021 Gli Stati Generali

David Bidussa

Cattiva memoria di Marcello Flores dà l’opportunità per tornare a riflettere non solo sul rapporto tra memoria e storia, ma soprattutto sui molti modi attraverso i quali oggi si produce discorso sulla storia.

A lungo abbiamo pensato che storia e memoria fossero agli antipodi e dunque che si trattasse di scegliere o di indicare intorno a quale dei due poli lavorare.

Marcello Flores ci dice in prima battuta che esiste una dimensione vischiosa di ciò che conserviamo nella memoria, ma anche che di fronte esiste un cammino impervio di provare a ricostruire fatti, eventi, scelte, opzioni perché al centro della memoria stanno prevalentemente individui, voci. Ovvero figure e che periodicamente tornano a confrontarsi con il passato che raccontano, con quello visto e/o vissuto e ogni volta la sfida è riconoscersi o meno con la versione precedente dei fatti narrati.

In questa dimensione la partita, sottolinea Flores, non è tra memoria e oblio, ma tra cancellazione, conservazione e memoria. La memoria è in breve il risultato di

1)      ciò che si ricorda;

ma anche di

2)      ciò che si vuole ricordare;

e soprattutto di

3) come si vuol ricordare.

Ogni volta così la narrazione del passato corrisponde non solo alle sfide del tempo presente, ma è in relazione col presente. Un presente che deve fare i conti con le eredità del passato e che spesso affronta quel percorso “controvoglia”.

Un profilo e un disagio che riguardano le memorie dei comunismi e di chi oggi si vuol fare erede di quelle storie; dei fascismi e di chi oggi pensa di aver “pagato pegno” a sufficienza e dunque si ripresenta sul mercato politico offrendo le stesse ricette di a un tempo pensando che il disagio economico e sociale, il malessere esistenziale sia una buona opportunità e una piattaforma per ripresentare ricette che già una volta hanno avuto corso nella storia

Ma soprattutto quel tema delle cattive memorie riguardano alcune questioni dirompenti che stanno nel nostro presente.

Quella che ci riguarda direttamente è l’identità dell’UE e il confronto tra le realtà politiche e culturali dell’Europa occidentale e le realtà politiche dell’ex-impero sovietico. Conflitto che è stato esaltato e in forma plateale della discussione sulla legge 2019, e che oggi rimette in discussione la centralità del 27 gennaio come data della memoria europea.

Un presente segnato dalla rapida parabola delusiva del sogno europeo.

Percorso segnato da molte svolte: prima l’euro, poi il rifiuto dell’approvazione della costituzione nel 2005, poi un allargamento a Est senza un fondamento culturale e politico ma in gran parte segnato dall’ansia di stabilire un confine. Dentro il ritorno dei particolarismi, l’innalzamento delle intolleranze, l’espandersi di un clima di violenze dove progressivamente sono in aumento le zone proibite, i luoghi a rischio della convivenza.

Ma anche conflitto che denuncia oggi una stanchezza di quella data e la necessità di ripensarla pensando anche a una procedura culturale diversa. Se a lungo la scenografia dei “giorni della memoria” (non solo il 27 gennaio) è stata mettere al centro del discorso le vittime, forse occorre iniziare a considerare che quella modalità di ricordo non deve fondarsi sull’etica del risarcimento, bensì su quella della autoriflessione.

Ovvero: in ogni giornata della memoria ciò che deve stare al centro è il “non detto” del discorso collettivo.

“Non detto” che implica mettere al centro non chi è stato escluso, ma l’imbarazzo.

Ne discende che al centro di quel tipo di data deve stare la dinamica di “dire la verità”.

Dire la verità non significa solo dare voce agli esclusi, ma smontare le opinioni e le convinzioni su cui a lungo si è definito il compromesso culturale che ha legittimato gli equilibri di un lungo secondo dopoguerra dove ogni volta il problema era individuare un colpevole.

Dire la verità in questo senso implica decisamente come giustamente sottolinea Marcello Flores dare spazio al discorso della storia e al ruolo dell’indagine storica, ma significa anche riconoscere e vedere i limiti dell’azione culturale degli storici. Ovvero distinguere tra i percorsi della ricerca storica e dei risultati proposti dagli storici, ma poi non tralasciare la costruzione della vulgata cui pure gli stessi storici talvolta contribuiscono.

Processo in cui l’effetto è la banalizzazione della storia cui non sono estranei gli storici allorché si mettono sul piano della divulgazione, della narrazione semplificata, laddove incrociano le loro ipotesi di ricerca con la semplificazione del racconto.

Nella dimensione del ruolo pubblico dello storico non ci sono solo gli effetti di banalizzazione, e non c’è solo la competenza, ma c’è anche la consapevolezza che il racconto di storia e la ricostruzione della scena della storia non è solo il risultato di mettere insieme i fatti o di raccogliere i documenti, come a lungo molti storici hanno ritenuto.

Se quel lavoro è necessario, non è più da solo sufficiente.

Ricostruire la scena della storia, soprattutto in età contemporanea, nel tempo in cui i protagonisti della scena sono ancora vivi, e gli elementi testimoniali sono ancora sul campo, significa sapere che anche altre competenze sono necessarie, spesso non possedute da una sola competenza.

Riguardano (per esempio): una sensibilità semiotica, una sensibilità letteraria, una competenza disciplinare per l’analisi sociologica, per quella antropologica, per le culture scientifiche. Una competenza legata alle forme della comunicazione che non si limita ai dati di fatto, ma come questi vengono confezionati, raccontati, costruiti e “venduti” come pacchetto di spiegazione “convincente”.

Insomma, la scena della storia necessita per affrontare la questione di raccontare il vero, di un concorso di competenze, di una ricerca che è un laboratorio, sia di temi che di figure, che lo storico tradizionale del ‘900 non è in grado di soddisfare da solo. Il che significa anche avere una percezione chiara della crisi del racconto storico, come prodotto della ricerca storica, così come ci è stato consegnato nel Novecento.


David Bidussa è un scrittore, giornalista, storico saggista italiano.

Si è definito storico sociale delle idee, riferendosi a «una disciplina che comprende un mix di competenze culturali tra le quali: storia (contemporanea), storia sociale, semiotica, teoria della letteratura, storia delle dottrine politiche, storia dei partiti e movimenti politici».

Ha scritto saggi sull’ ebraismo, sul sionismo, sul movimento socialista francese e sulla Repubblica di Vichy. Va ricordato “L’ultimo testimone” Einaudi.

Marcello Flores Storico, autore di apprezzate pubblicazioni, si è occupato principalmente della storia del comunismo, del XX secolo, del genocidio degli Armeni durante la Prima Guerra Mondiale, dei diritti umani e delle vittime di guerre.

Ha fatto parte del comitato scientifico-editoriale per la monumentale “Storia della Shoah. La crisi dell’Europa, lo sterminio degli ebrei e la memoria del XX secolo”; ha partecipato a diversi programmi televisivi divulgativi sul tema (ad esempio, Il tempo e la storiaEco della Storia). Fa parte del comitato scientifico per la pubblicazione dei documenti diplomatici italiani sull’Armenia.

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Primo Levi, Miti d’oggi

Bruno Osimo – Francesco Brioschi Editore

Prefazione di Bruno Segre

Gli anglismi e gli americanismi che intitolano i capitoli di questo libro non sono da attribuire all’antico vizio italico dell’esterofilia. Alcontrario, proprio con il provocatorio richiamare il selvaggio trapianto nella nostra lingua di terminie costrutti anglofoni, Bruno Osimo ne sottolinea con ironia gli aspetti ridicoli, banali, talvolta volgari, e caso mai fa valere con forza il rifiuto di farsi subordinare, trasformare, denaturare, emarginare.

Per Osimo, fonte inesauribile di ispirazione di tale rifiuto, e di molto altro ancora, è Primo Levi: una guida preziosa alla quale egli si consegna, affascinato dal suo pensiero acuto e lungimirante, dalla sua scrittura cristallina, dalla sua complessa e tragica vicenda umana.

Nel 2012 Osimo aveva dato alle stampe il Dizionario affettivo della lingua ebraica, una prima valida prova narrativa le cui pagine, pur non componendo una vera e propria autobiografia, raccontavano il suo impegno a fare chiarezza nell’intrico delle ascendenze e dei comportamenti famigliari. In quell’opera Osimo, figlio di genitori scampati da giovani (lei a sedici anni, lui a ventitré) alla deportazione verso un Lager, narrava d’essersi trovato iscritto, per iniziativa della yiddishe mame, alla scuola ebraica anche se “papà non voleva che io ci venissi”, e quindi di sentirsi costretto sin da bambino a fare i conti con la sua qualità di “ebreo clandestino”.

Da questa condizione s’era potuto finalmente liberare molto più tardi, andando a visitare a Gerusalemme lo Yad Vashem, il museo-monumento dedicato alle vittime della Shoah. “Quando ho visitato lo Yad Vashem, avevo quasi cinquant’anni. Tanti fili della mia vita mi portavano in quella direzione, ma non lo sapevo, o non lo volevo riconoscere. […]  adesso che sono qui dove c’è questa stazione, questo posto dove ci si ferma, dove si fa memoria, […]  capisco che quello che mi è stato detto non è nulla a confronto di quello che mi è stato trasmesso senza dirmelo. […] È questo l’unico posto in cui mi sento a mio agio pensandomi ebreo non circonciso e mi sento ebreo completamente, […]  È questo l’unico posto in cui paradossalmente mi sento protetto, non nel fisico ma nell’identità, qui sono legittimo, non sono più clandestino, né come ebreo né come cittadino del mondo.”

Dalla composizione di quel favoloso Dizionario è trascorso circa un decennio. E Osimo, entrato ormai in his sixties, ha fatto compiere alla sua inesausta ricerca di chiarezza identitaria un ulteriore tratto di strada, passando dalla lezione dello  Yad Vashem   − quel memoriale austero che parla della morte, dello sterminio, della cremazione  −  all’ascolto vigile di Primo Levi: un personaggio capace di vedere ogni cosa con oggettività e distanza, dotato delle qualità morali, culturali, scientifiche, di una resistenza fisica e di una capacità di adattamento  tale da permettergli, nel cuore di un’esperienza estrema,  di soddisfare una sua pur precaria volontà di sopravvivere; ma in particolare, un testimone in possesso di un’eccezionale capacità di osservare, studiare, giudicare, antivedere, ben palesata dal macrotesto che ha lasciato in eredità ai posteri. «Non sono in grado di giudicare il mio libro − scrive Levi − […] Mi auguro che venga letto comunque: non solo per ambizione, ma anche nella sottile speranza di essere riuscito a far sì che il lettore si accorga che le cose lo riguardano.» “Dire che l’opera di Primo è importante (solo) per la Shoah   − commenta Osimo −   è grossolanamente riduttivo: è immensa, ed è fondamentale per la nostra vita quotidiana attuale.” E poi, a mo’ di precisazione: “La sua grandezza sta nell’aver ricucito tutto quello che ha visto e vissuto, e ricollegato con la nostra vita quotidiana, ravvisando tracce di Lager nel suo quotidiano e tracce di quotidiano nel Lager. Che è poi quello che cerco di fare io in questo libro con il nostro quotidiano.”

Quanto in profondità Bruno si sia spinto nell’introiettare il pensiero e l’esperienza esistenziale di Primo, lo rivelano le pagine sofferte di questo libro. Perché il lettore incominci a farsene un’idea, do qui qualche esempio.

Sotto la parola chiave SUV (sigla che indica Sport Utility Vehicle), Osimo menziona un episodio di guerra che Primo, in La tregua, descrive così: «[I nazionalsocialisti che, fuggendo dal Lager, non volevano lasciare dietro di sé nulla che potesse favorire i prigionieri] non si erano attardati a recuperarli [gli alimentari in scatola], ma avevano cercato di distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati.» Nel commentare questo passo, Osimo rileva che la violenza – moneta corrente, quale causa di morte e di traumi senza fine, nell’ottica della guerra − può assumere in tempo di pace forme diverse, per esempio negli incidenti stradali, ormai sempre più frequenti. Fa poi notare che per un’automobile normale scontrarsi con un SUV è più pericoloso che scontrarsi con un’automobile normale. Dunque: “Il principio che sta alla base della scelta di girare in SUV [anziché in un’automobile normale] è quello di cercare la propria protezione a scapito di quella altrui. […] Il pensiero, consapevole o inconscio − conclude Osimo −, dei portatori sani di SUV nei confronti del prossimo e dei prossimi, è lo stesso espresso da Primo nel passo citato: «distruggerli passandoci sopra con i cingoli dei loro mezzi corazzati.»

«Siamo stati capaci, noi reduci − si domanda Primo in I sommersi e i salvati −  di comprendere e di far comprendere la nostra esperienza? Ciò che comunemente intendiamo per ‘comprendere’ coincide con ‘semplificare’: senza una profonda semplificazione, il mondo intorno a noi sarebbe un groviglio infinito e indefinito […] Siamo insomma costretti a ridurre il conoscibile a schema.» Chiosando queste riflessioni di Levi (in un capitolo intitolato Narrative), Osimo chiarisce che semplificare quando la materia è già, di suo, semplice, è più facile di quando non è semplice affatto. Per poi aggiungere, a parziale spiegazione del clima di indifferenza, apatia, assenza di interesse con cui Primo viene accolto al suo ritorno in famiglia a Torino, che “la vita in Lager è stata programmaticamente costruita in modo da non essere traducibile. I nazionalsocialisti sapevano che, se qualcuno fosse sopravvissuto, nessuno avrebbe creduto ai suoi eventuali racconti. […] I nazionalsocialisti hanno innovato radicalmente le modalità non solo di distruzione fisica, ma anche di detenzione e di condizionamento. Hanno costretto i prigionieri a vivere in modi propriamente indescrivibili, così da impedire loro di raccontare. Per farlo, Primo ha creato non solo un testo, ma un intero linguaggio.”

In un capitolo intitolato No Vax, dopo avere citato un passo da Se questo è un uomo che descrive un quadro epidemiologico rovinoso («Non avevamo che una minima scorta d’acqua, e non coperte né pagliericci di ricambio. E il poveretto, tifoso, era un terribile focolaio di infezione.»), Osimo ci ricorda che, pur non essendo medico, Levi era tuttavia capace di svolgere, nella cornice desolante del Lager, funzioni di rilievo nel prevenire la diffusione delle malattie. La sua cultura gli permetteva infatti “di attenersi ad alcuni princìpi di base, quelli che in teoria vengono insegnati in tutte le scuole nei corsi di igiene.” È vero che oggi le malattie infettive sono diminuite un po’ dovunque. Ma “l’unica epidemia che sta dilagando”, constata Osimo con amarezza, “e che sembra non conoscere antidoti è quella delle informazioni [pseudoscientifiche] in internet”. Chiunque può comunicare ciò che vuole, laddove larga parte del pubblico recettore non ha le basi educative necessarie per filtrare le notizie attendibili e distinguerle dalle panzane. “Apparentemente, internet […] ha dimostrato che la democrazia non funziona, e che nel principio che uno vale uno è racchiuso il pericolo enorme di diffusione di disinformazione.”  Siamo ormai scesi, oggi, tanto in basso che sembriamo destinati a ripercorrere senza rimedio gli “errori passati, fino a giungere a nuove infezioni, nuove epidemie, nuove pesti causate da menti labili di persone ignoranti con un enorme potere comunicativo di massa.”

Quanto fossero affamati i Häftlinge ce lo dice Levi in Se questo è un uomo, rammentando che nel campo «si raschiano patate crude con altre bollite e disfatte; la miscela si arrostisce su di una lamiera rovente. Avevano sapore di fuliggine». Nella nostra storia nazionale, la Seconda guerra mondiale fu l’ultimo periodo in cui molti di coloro che la attraversarono ricordano non soltanto di avere sofferto la fame, ma anche di avere assistito a un immane spargimento di sangue umano. Finita la guerra, per alcuni anni − annota Osimo in un capitolo agrodolce intitolato Barbecue − fu avvertito diffusamente il bisogno di compensare il patimento subìto spargendo, per contrasto, sangue non umano, “un lusso prima insperabile”.  “Per arrivare alla messa in scena del barbecue […] bisogna avere esorcizzato completamente la fame atavica, di modo da non avere di nuovo voglia di un setting più avventuroso per il proprio rituale di nutrimento. Il maschio inscena, come mezzo milione di anni prima, il ruolo del cacciatore procacciatore di selvaggina, e la femmina −  che da copione dovrebbe occuparsi del fuoco −  lascia il fuoco al maschio (che altrimenti non avrebbe nulla da fare, dato che non caccia) e si dedica ai servizi di comfort: […] tovaglie, tovaglioli, bicchieri, bevande, posate, recipienti per condimenti et similia. […] nessuno concepirebbe di abbeverarsi al fiume o di pulirsi la bocca con una foglia o di mangiare insipido o di rinunciare al caffè. Nemmeno le patate crude arrostite sulla lamiera rovente fanno di solito parte del nostro menu.”

«Quanto di noi stessi era stato eroso, spento?» si domanda Levi nel finale di La tregua. «Ritornavamo [a casa] più ricchi o più poveri, più forti o più vuoti?»  A tali quesiti Osimo risponde in modo indiretto componendo un capitolo intitolato Anti-aging. In esso ci ricorda che tra i dogmi non scritti della nostra cultura figura l’esigenza di fare tante esperienze “perché le esperienze fanno crescere. Un altro [di questi dogmi] è che bisogna apparire giovani. L’ideale, insomma, sarebbe essere dei giovani vissuti. […] Nel 1945 Primo ha ventisei anni, quindi è giovane. Ed è vissuto” grazie al fatto che i trecentoquaranta giorni trascorsi a Monowitz e i duecentosessanta trascorsi nel viaggio di ritorno sono stati estremamente ricchi di esperienze. A quei due dogmi occorre però accostare oggigiorno anche l’equiparazione universalmente accettata tra vecchiaia e negatività, un’equiparazione che mobilita strategie “anti-aging” con effetti collaterali importanti. Grazie infatti ai farmaci che, vergognandocene, assumiamo di continuo, la nostra aspettativa di vita sta aumentando, ma ne deriva anche che “il mondo è sempre più pieno di vecchi, con pròtesi di vario tipo.” “Posso capire − così conclude Bruno −  che Primo alla lunga si fosse stufato di vivere in mezzo a una popolazione guidata da queste preoccupazioni. […] In effetti Primo, senza alcun esibizionismo, senza alcuna polemica, senza fare nessun rumore, ha scelto l’unico ‘percorso anti-aging’ (come recita la pubblicità volgare) che funziona davvero.”

Una considerazione decisamente provocatoria ma che, nella sua originalità, trovo del tutto in linea con questo libro, nei termini in cui mi pare che Bruno Osimo l’abbia concepito.

Bruno Segre

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Addio Nedo Fiano

E’ morto Nedo Fiano, testimone indimenticabile della tragedia dell’Olocausto

Zita Dazzi – Repubblica 19 Dicembre 2020

L’immagine che gli era rimasta stampata negli occhi e che raccontava sempre era quella di sua madre sulla rampa d’arrivo dei treni per Auschwitz, l’ultima volta che si abbracciarono, prima che lei venisse avviata alla camera a gas. Nedo Fiano è morto questa sera a Milano, nella casa di riposo dove era ricoverato da molti anni, assieme alla moglie Rina Lattes. Suo figlio Lele, deputato Pd, pochi giorni fa aveva scritto su Facebook che l’ultima ora era vicina: “Aspetto notizie, sto sempre col telefono in mano, papà è molto debole, forse è stanco di resistere a 95 anni, forse ha concluso il suo ciclo”. Alle 20 di sabato, il giorno sacro per gli ebrei, quando ormai la vita di Nedo era volata via, Lele Fiano ha scritto un altro post: “Papà ci ha lasciati. Ci rimarranno per sempre le sue parole e il suo insegnamento, il suo ottimismo e la sua voglia di vivere. Non avrò mai io la forza che ebbe lui e che lo fece risalire dall’abisso, ma da lui ho imparato che per le battaglie di vita e contro ogni odio bisogna combattere sempre. Questo ci ha insegnato la memoria che lui ha contribuito a diffondere. Sia lieve a papà la terra che lo accoglie e sempre su di noi la sua mano ci protegga”.

Parole commoventi come tutte quelle che Lele Fiano ha dedicato ai suoi genitori, raccontando gli incontri che avvenivano nella casa di riposo.

Nedo era nato nel 1925 a Firenze e come tanti bambini ebrei alla promulgazione delle leggi razziali, nel ’33, dovette abbandonare la scuola, appena tredicenne, come Liliana Segre, di cui è stato grande amico. Venne poi arrestato con 11 membri della sua famiglia nel ’44 e tutti assieme furono deportati ad Auschwitz, con un terribile viaggio nei vagoni blindati, che Nedo ha raccontato per molti anni a generazioni di ragazzi ed adulti. Sul braccio aveva ancora stampigliato il numero di matricola A5405 e lui fu l’unico della famiglia a fare ritorno, dopo la liberazione l’11 aprile del ’45.

Nedo, che dopo la liberazione si era trasferito a Milano, nella sua vita ha lavorato per l’industria, ma ha dedicato la sua vita a testimoniare la storia dello sterminio degli ebrei durante il nazismo. Ha scritto anche un libro sulla sua storia, ” Il coraggio di Vivere”, e per molti anni ha collaborato con il Centro di documentazione ebraica di Milano raccontando l’Olocausto. E’ stato uno dei primi testimoni della Shoah a vivere la sua esperienza tragica come uno strumento pedagogico per le nuove generazioni.

In una sua testimonianza apparsa sul portale della comunità ebraica milanese Il Mosaico si legge:  “Porto con me – da sempre – l’odore, il buio, l’orrore e la ferita di quel tempo lontano. Lotto ancora e recito la parte di un uomo comune, come tanti altri. Ma sento spesso un inferno dentro, anche se cerco di apparire sereno e felice. Amo la mia famiglia sopra ogni altra cosa. In vista ormai della settecentesima conferenza nelle scuole, mi sento ancora là, nel luogo del lutto. Ho una ricca e vivace vita interiore da cui attinguo il mio essere di ogni giorno. Penso, leggo e scrivo, ma sono sempre là, tra i fili spinati e lì resterò fino alla fine della mia vita. Ogni giorno apro gli occhi su un mondo difficile e spesso ostile, ma anche pieno di stimoli e tentazioni. Mi rimbocco le maniche, accetto la sfida e mi batto. Ho tre figli molto più bravi di me, che portano il seme di Birkenau che ho loro trasmesso”.

La senatrice a vita Liliana Segre, commenta la notizia della scomparsa di Fiano, piena di commozione: “C’era tra Nedo e la mia famiglia un legame speciale, più forte delle parentele di sangue. Non potremo mai dimenticarlo. Un grande abbraccio a Lele, Andrea, Enzo e a tutti i familiari”

Fra le molte espressioni di cordoglio che arrivano in queste ore, c’è quella del sindaco di Milano Beppe Sala: “La testimonianza di ciò che ha vissuto durante la deportazione resterà per sempre un grande insegnamento per tutti noi. Un abbraccio ad Emanuele e a tutta la famiglia Fianco”. Roberto Cenati, presidente dell’Anpi provinciale di Milano, fa le condoglianze alla famiglia e alla comunità ebraica milanese e all’Unione delle comunità ebraiche italiane: “E’ un giorno triste per Milano, Nedo Fiano è stato un testimone infaticabile delle nefandezze del nazifascismo, lo ricorderemo sempre con gratidudine, stima e riconoscenza”.

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Ebraismo, sionismo e antisemitismo nella stampa socialista italiana

Dalla fine dell’Ottocento agli anni sessanta

A cura di Mario Toscano – Marsilio editore

Nel corso di un secolo il rapporto tra il socialismo italiano e il mondo ebraico è stato molto intenso. I grandi momenti dell’esperienza ebraica dell’età contemporanea hanno costituito materia di riflessione e di analisi della stampa socialista. L’affaire Dreyfus e la nascita dell’antisemitismo politico in Europa, le origini del sionismo e le vicende dello Stato d’Israele, la politica razziale fascista e la shoah, la partecipazione degli ebrei ai movimenti rivoluzionari e l’antisemitismo nell’Unione Sovietica hanno costituito problematiche di grande rilievo per la cultura e la politica del socialismo italiano.

I saggi di M. Gabriella D’Amore, Filomena Del Regno, Luca La Rovere, Alessandra Tarquini, Mario Toscano ricostruiscono le cronache, le immagini, le interpretazioni fornite su questi temi dai principali organi della stampa socialista italiana dalla fine dell’Ottocento agli anni sessanta. Sullo sfondo delle vicende politiche, si delinea il rapporto tra due culture e due identità, emerge il ruolo svolto dal socialismo nella costruzione dell’immagine degli ebrei nella società italiana, si chiarisce il contributo offerto per rendere l’esperienza storica dell’ebraismo contemporaneo una componente essenziale di una società democratica.

L’Introduzione: I confini dell’identità di Mario Toscano definisce i criteri della ricerca che, sia pure limitatamente al caso italiano, si poneva l’obiettivo di collegare l’esperienza storica del socialismo con quella dell’ebraismo in età contemporanea, per cogliere le interazioni verificatesi tra i due “mondi” di fronte a complesse vicende politiche, ideologiche, culturali, economiche e sociali e nel quadro dei processi di integrazione degli ebrei nello Stato nazionale.

L’indagine della stampa è incentrata sullo studio dell’“Avanti”, integrato dall’analisi di “Critica Sociale”, per la funzione storica svolta nel rappresentare la “cultura” del socialismo riformista in Italia e di “Mondo Operaio”, per il ruolo culturale e politico dispiegato nel secondo dopoguerra.

L’indagine mostra il tentativo di sfuggire agli stereotipi e alle descrizioni generiche e impressionistiche per proporre alcuni dati concreti di riflessione. I temi della ricostruzione del contributo dei singoli ebrei alla storia del socialismo in Italia e quello delle presunte o eventuali affinità ideologiche tra ebraismo e socialismo, spesso legati al peso di suggestioni provenienti dall’attualità politica, appaiono intrisi di ambiguità, che devono essere pazientemente dissipate, per evitare il rischio di accedere a interpretazioni storicamente generiche o fuorvianti.

Il saggio di Filomena Del Regno, intitolato L’antisemitismo e il sionismo nelle cronache e nelle analisi dell’”Avanti” (1897-1920), copre un lungo periodo in cui vengono riportati i fatti e i movimenti accaduti in Europa, in particolare in Francia con l’affaire Dreyfus e nell’Impero Russo.

Oltre alla cronaca, l’”Avanti” dedicò grande attenzione alla denuncia e all’analisi dell’antisemitismo, considerato uno strumento nelle mani delle forze reazionarie oltre che in Francia, in Austria, Ungheria, Romania e nella Russia zarista. Ugualmente meritevole di considerazione è lo spazio dedicato alle vicende del proletariato e del movimento operaio ebraico dell’Europa orientale.

L’ebreo per i socialisti italiani è l’ebreo capitalista, emancipato e borghese, ma anche l’ebreo rivoluzionario, il proletario appartenente ad una massa sfruttata. Il significato del movimento antisemita appare ambivalente. In occidente è strumento di lotta per motivi economici, e questa è la spiegazione che l’”Avanti” tentò di fornire, mentre in oriente l’antisemitismo assumeva caratteri medievali di barbara caccia all’untore, al vampiro.

Il quotidiano non si occupava dell’ebraismo italiano, sia per l’esiguità numerica sia per l’integrazione raggiunta dagli ebrei. Il progetto sionista suscitava diffidenza e critica: il fenomeno nazionalista ebraico mal si conciliava con l’ideale socialista internazionalista. Grazie al contributo di alcuni intellettuali ebrei queste diffidenze verranno chiarite.

L’affaire Dreyfus, con tutte le sue implicazioni politiche e mediatiche, venne ampiamente trattato per diversi anni dall’”Avanti”. Il J’accuse di Emile Zola fu secondo Claudio Treves un atto rivoluzionario da parte di un bravo borghese teso all’affermazione della verità e della giustizia contro l’alleanza clerico-militarista. In un articolo apparso nell’agosto del 1899 dal titolo Socialisti e antisemiti si affermava che l’antisemitismo non era un’idea ma il brigantaggio, e gli antisemiti non erano un partito, ma una banda di malfattori e concludeva dicendo che il socialismo avrebbe salvato in Francia la civiltà contro la barbarie gesuitico-antisemita per istaurare la democrazia egualitaria della gente del lavoro. E la borghesia sana e intelligente guardava al proletariato socialista come al salvatore.

Nello stesso periodo altri drammatici fatti di antisemitismo venivano ampiamente documentati dall’”Avanti”, come il caso del sindaco antisemita di Vienna Lueger che nel 1897, appena eletto, si recò in Vaticano, o come la situazione in Algeria. Sul massacro di Kishinev, come pure sui successivi pogrom di Gomel, Odessa, Kiev, Bielostock, il quotidiano socialista assunse una posizione netta di denuncia della ferocia antiebraica nella Russia zarista, con la funzione politica ben definita di deviare lo scontento e la ribellione popolare verso l’ebreo. Il propagarsi della Rivoluzione vedeva secondo l’”Avanti” gli ebrei in prima fila, grazie anche all’attività del Bund.

In occasione dell’appello contro lo zarismo lanciato nel 1906 da Bureau Socialiste International Riccardo Momigliano commentava le vicende russe e spiegava che l’essenza dell’ebraismo era il messianesimo, la tendenza incoercibile all’idealismo; egli sosteneva che accanto agli scaltri ebrei che traevano profitto ovunque, c’erano gli ebrei spiritualmente affini ai grandi idealisti e spettava proprio a loro impedire che alcuni correligionari commettessero l’infamia di sostenere finanziariamente lo zarismo.

Anche i disordini antisemiti in Romania furono oggetto in quegli anni di attente corrispondenze ed analisi dell’”Avanti”. Qui il conflitto era sia economico tra i contadini ed il capitalismo agrario accentratore e sfruttatore dei proprietari ebrei, sia lotta di religione.

Particolarmente pesante era l’antisemitismo in Polonia, dove gli ebrei erano il 40% della popolazione. Iniziata la guerra nel 1914 i polacchi accusavano gli ebrei di essere filoaustriaci e gli antisemiti ricorrevano a leggende medievali. La questione ebraica era vista per la prima volta come un problema di una nazionalità oppressa sotto il regime russo e ugualmente perseguitata sotto il regime tedesco, allo stesso modo del popolo polacco. Questo principio era sostenuto da Raffaele Ottolenghi, che affermava che dalla guerra doveva emergere il principio di cooperazione politica ed economica in ogni Stato tra le varie nazionalità, pur conservando la propria identità spirituale. A favore dell’assimilazione ebraica si era invece espresso Arturo Labriola, in netto contrasto con Ottolenghi.

Il 3 novembre 2016 l’”Avanti” pubblicò un intervento di Massimo Gorki in difesa di tutte le nazionalità presenti in Russia, che avrebbero dovuto unire le proprie forze contro un nemico molto astuto che additava l’ebreo come responsabile di tutte le sciagure del popolo russo.

Nel giugno del 1917 l’”Avanti” annunciava che la rivoluzione aveva abrogato la legislazione eccezionale e aveva restituito a 6 milioni di ebrei il diritto di cittadinanza e l’uguaglianza davanti alla legge e alla società. Nell’articolo gli ebrei erano considerati una classe e la questione dell’autonomia della cultura si risolveva applicando il principio della libertà: “autonomia della nazionalità ebraica nei riguardi delle altre nazionalità ed autonomia del cittadino nei riguardi della sua nazionalità”. Così la rivoluzione garantiva la libertà nazionale e le libertà individuali.

L’ipotesi sionista fu oggetto di intense discussioni tra i socialisti. Importante fu il contributo di alcuni intellettuali ebrei, come Felice Momigliano, che descriveva il sionismo come un fattore di rinnovamento dell’ebraismo e come un movimento del proletariato ebraico oppresso. Momigliano non credeva che il sionismo fosse un rimedio all’antisemitismo e distingueva l’antisemitismo orientale da quello occidentale, che aveva radici economiche.

Col passare degli anni l’inconciliabilità tra l’ideale socialista e il sionismo appariva sempre più netta. Angelo Treves analizzava la questione ebraica nella sua complessità, che la guerra aveva acuito. Non si trattava di dare un’esistenza politica a una delle tante entità geografiche, il popolo ebraico non era un’entità etnica, non aveva comunanza di origine, di lingua e tantomeno di aspirazioni. Nel 1917, in seguito della dichiarazione Balfour, l”Avanti” espresse un giudizio di totale dissenso dei socialisti italiani verso la soluzione sionista della “questione ebraica”. Per Treves la missione del popolo ebraico era ormai conclusa; aveva insegnato il monoteismo e attraverso il cristianesimo aveva diffuso la filosofia della libertà e dell’uguaglianza; dopo la dispersione era stato il protagonista della protesta contro le ingiustizie sociali e del progresso. La storia dei popoli andava avanti, “il regno d’Israele è morto: non si resuscitano i morti!”

All’inizio del 1920 lo scontro tra i sionisti italiani e l’”Avanti”, critico verso la presenza di elementi borghesi tra le file sioniste, portò alla precisazione da parte di Dante Lattes sul ruolo del movimento sionista alla soluzione del problema ebraico senza prendere posizioni politiche.

L’analisi di Luca La Rovere nel saggio Fascismo, “Questione ebraica” e antisemitismo nella stampa socialista, un’analisi di lungo periodo: 1922-1967. affronta un arco temporale ricco di grandi avvenimenti storici e politici.

L’avvento del fascismo ridusse l’”Avanti” ad operare in condizioni sempre più difficili, con la denuncia tenace della violenza antiproletaria e della legislazione liberticida.

La questione ebraica veniva affrontata quasi esclusivamente con lo sguardo rivolto alla situazione degli ebrei nell’Europa orientale, dove il socialismo era visto come l’unica speranza di redenzione ed emancipazione del proletariato ebraico mentre il sionismo era considerato come una perniciosa forma di nazionalismo, incompatibile con l’internazionalismo proletario.

Nel 1923 il leader socialista riformista Claudio Treves sul periodico “La Giustizia” indicava l’antiebraismo fascista come disegno di esclusione sistematica dalla vita nazionale. Nel 1928 “La Libertà” scriveva che il fascismo stava regalando “quell’altra schifosa piaga di cui finora era gloria l’Italia essere stata immune: l’antisemitismo”.

Nel 1931 Filippo Turati, denunciando l’accordo tra lo Stato fascista e la Chiesa, accese una dura polemica con il rabbino Angelo Sacerdoti, che sosteneva la piena soddisfazione dell’ebraismo italiano per la recente legislazione sui culti ammessi. Come Treves, anche Turati collegava la restrizione dell’autonomia ebraica alla logica totalitaria del regime e invitava gli ebrei ad unirsi ai socialisti contro il fascismo e le forze della reazione a difesa dei valori della libertà.

La posizione dei socialisti riformisti sull’antisemitismo non era condivisa dalla frazione massimalista, che continuava a interpretarlo come strumento ideologico utilizzato dalla borghesia per creare conflitti artificiali, sottovalutando antisemitismo fascista.

Nel 1934 l’arresto di alcuni appartenenti al movimento “Giustizia e Libertà”, molti dei quali di origine ebraica, fornì il pretesto alla stampa fascista per lanciare una campagna di stampa contro gli ebrei, assimilati all’antifascismo e quindi all’antinazione.

L’”Avanti” massimalista si chiese se l’iniziativa era un segnale che Mussolini intendeva seguire la strada di Hitler ma in realtà l’antisemitismo improvvisamente agitato dal duce era un “volgarissimo ricatto” contro certa alta banca israelita per ottenere prestiti di cui aveva bisogno.

La posizione massimalista non mutò neppure in occasione della promulgazione delle leggi razziali del 1938; secondo l”Avanti” Mussolini intendeva sfruttare la campagna contro gli ebrei per proclamarsi nemico del capitale e amico del popolo. La persecuzione non meritava attenzione secondo i massimalisti, che consideravano gli ebrei italiano capitalisti e fascisti della prima ora. L’”L’Avanti” scriveva: “Noi pensiamo che l’antisemitismo non aumenterebbe né diminuirebbe i torti del fascismo, per il fatto di estendere ad altri 40 mila italiani (ebrei) le persecuzioni di cui sono vittime 35 milioni di proletari”. L’antisemitismo, estraneo alla popolazione, era considerato un affare interno alla borghesia italiana.

Diversa la posizione riformista, anche grazie alla collaborazione di Guido Lodovico Luzzatto con l’organo del partito socialista unificato, pubblicato prima a Zurigo, poi a Parigi con il titolo de “Il Nuovo Avanti”. Il giovane esule antifascista seppe comprendere, a pochi mesi dall’ascesa al potere di Hitler, la distinzione tra l’antisemitismo ideologico del nazismo e quello fascista. Il nazismo con la persecuzione razziale escludeva per principio dallo Stato quasi due milioni di cittadini sulla base di un odio dichiarato e inconciliabile.

Gli eventi del 1938 portarono Luzzatto a collegare la svolta antisemita in Italia e la campagna razziale avviata dal regime con la guerra in Etiopia, e a rimarcare il cinismo di Mussolini nel tradire i molti ebrei che avevano aderito al fascismo e nel cacciare gli ebrei stranieri che aveva accolto, in spregio a tutti i principi del diritto internazionale. Colpiva la passiva accettazione da parte del paese della svolta antiebraica, in particolare da parte delle sue élite culturali, senza che si levasse alcuna protesta di professori e accademici. Luzzatto commentò: “maturata non è un’antipatia italiana per gli ebrei, ma lo sprofondamento più in basso, delle coscienze nell’avvilimento, nell’abbiezione”.

In più occasioni il giornale espresse la propria solidarietà nei confronti dei perseguitati, dichiarando offensiva per la coscienza d’ogni uomo civile la persecuzione senza una sola giustificazione contro gente per nulla colpevole, se non di essere nata per caso da genitori ebrei.

“Il Nuovo Avanti” definì “leggi del disonore” i provvedimenti che avevano introdotto il razzismo nella legislazione dello Stato, sanzionando di fatto la rottura del principio di eguaglianza dei cittadini. I socialisti presero l’impegno solenne, in quanto rappresentanti “dell’Italia di domani” di abbattere il vergognoso edificio legislativo voluto dal regime. Luzzatto seguì con partecipazione umana e profondità analitica l’inasprirsi della persecuzione, notando l’assenza di odio contro gli ebrei ma anche l’assoluta mancanza di indignazione per l’ingiustizia, che sarebbe diventata opportunismo e indifferenza, anche se il regime richiedeva l’attiva collaborazione dei cittadini nell’applicazione dei provvedimenti antisemiti.

Le pubblicazioni di entrambi i periodici socialisti si interruppero nel 1940 e solo dopo l’8 settembre ’43 le edizioni clandestine dell’”Avanti” diedero notizia delle deportazioni in atto, pur in qualche articolo, con la persistenza dello stereotipo dell’”ebreo ricco” e di vecchi pregiudizi.

Con la Liberazione e la ripresa dell’attività politica l’”Avanti” ritornò come organo ufficiale del Psiup. Il primo articolo dedicato agli ebrei prendeva atto della abolizione della inumana legislazione antiebraica e richiedeva alla nuova Italia la rapida reintegrazione degli ebrei nella società, a partire dagli impieghi statali.

Il tema del coinvolgimento degli italiani nella deportazione venne riportato solo a guerra finita, con una differenza di giudizio sulle efferatezze compiute dai nazisti e le responsabilità dei fascisti, mancando un collegamento tra la deportazione e l’eliminazione fisica di massa ai provvedimenti legislativi del 1938 e alla passività degli italiani.

Fu Pietro Nenni nel 1947 a denunciare la tendenza all’oblio che si registrava intorno la “più colossale delitto della storia umana” che aveva visto come vittime i milioni di sovietici, i milioni di ebrei e di ebree e le centinaia di migliaia di militanti antifascisti, e a chiedere che venisse attuata pienamente l’epurazione in Germania ed il rinnovamento del paese, che le forze di occupazione tendevano a limitare per paura del bolscevismo.

Ancora non si affrontava la connessione tra la fase della “persecuzione dei diritti” a quella della “persecuzione delle vite” ma venivano messi in luce il trauma patito con l’espulsione dalla società italiana nel 1938 e la grande difficoltà per gli ebrei di trovare ascolto nel clima postbellico.

L’alleanza degli ebrei italiani con l’antifascismo fu suggellata dall’episodio dell’assalto da parte dei neofascisti il 14 aprile 1948 e l’”Avanti” dichiarò che il Fronte popolare avrebbe difeso le minoranze religiose e in modo speciale le eroiche comunità ebraiche, che tanto sangue avevano versato per l’Italia e la libertà.

Nel corso degli anni cinquanta il rapporto tra sinistra antifascista e ebraismo si andò consolidando, con un’opera di vigilanza contro ogni reviviscenza di antisemitismo.

Significativa è la negazione assiomatica della presenza di antisionismo nell’Unione Sovietica e nei paesi dell’Europa Orientale, particolarmente evidente nelle cronache del processo Slanski e di quello dei medici nell’Urss del 1953, accompagnata dalla fideistica e acritica ripresa della denuncia dei complotti titoisti e sionisti.

Nel corso degli anni cinquanta e sessanta l’”Avanti” portò avanti una puntuale informazione sulla formazione della memoria dello sterminio, stimolando la comprensione delle ragioni di quella catastrofe e a tramandarne la memoria alle nuove generazioni. A questa azione contribuirono in maniera significativa alcuni intellettuali e uomini politici socialisti. E’ del 1956 la prima Mostra sulla deportazione, organizzata a Torino con il contributo di Primo Levi. Tuttavia a questa azione corrispose una forte reticenza nel riconoscere che l’antisemitismo sopravviveva e, anzi era coltivato a fini politici anche nei paesi del socialismo reale.

All’inizio del 1960 l’”Avanti” riportò con preoccupazione la notizia della profanazione di sinagoghe e latri luoghi simbolici avvenuti a Londra, Parigi, Vienna e diverse città tedesche. Anche in Italia apparvero simboli ed episodi neonazisti in più di venti città ad opera della componente giovanile dell’MSI. L’allarme generato dal riapparire della svastica a soli 15 anni dalla fine della guerra portò l’”Avanti” a dedicare un’intera pagina allo sterminio degli ebrei europei, dedicata soprattutto all’educazione dei giovani. Mario Berti dalle pagine di “Critica Sociale” bollava come “cretinismo” l’antisemitismo degli sparuti gruppi di giovani, che totalmente ignari di quanto avvenuto in Europa solo pochi anni prima, erano manovrati da forze reazionarie.

I fatti di Genova del luglio 1960 rappresentarono il culmine della mobilitazione antifascista contro l’MSI. Il Parlamento, grazie all’impegno dei socialisti, tra cui l’ex deportato Piero Caleffi, ratificò la Convenzione per la prevenzione e repressione del genocidio.

Con l’avvio nel gennaio del 1961 del processo a Eichmann si riaccese la battaglia per l’affermazione del carattere antifascista della democrazia italiana e l’”Avanti”, in parallelo, lanciò un’inchiesta a puntate dal titolo “I nazisti sono tra noi”, che riportava le infiltrazioni e le connessioni tra ex nazisti e neofascisti in Italia e in Europa.

Il tema dell’antisemitismo sovietico venne sollevato in termini nuovi da Piero Caleffi in un articolo che riassumeva le vicende della nascita dello Stato ebraico e la posizione dell’Unione Sovietica, sia verso Israele sia verso i cittadini ebrei della Federazione. Si coglieva il mutamento intervenuto da parte dei socialisti, ora più autonomi rispetto ai comunisti, nell’affrontare criticamente la questione dell’antisemitismo sovietico.

Dopo qualche anno si sarebbe verificata, con la guerra dei sei giorni, la rottura tra la sinistra comunista e Israele. Questo tema è ampiamente trattato nel saggio di Alessandra Tarquini dal titolo “Il Partito Socialista fra Guerra fredda e Questione ebraica: sionismo, antisemitismo e conflitto arabo-israeliano nella stampa socialista, dalla nascita della Repubblica alla fine degli anni sessanta”.

Il PSI aveva accolto con entusiasmo la nascita dello Stato di Israele e si era schierato decisamente a favore degli ebrei nella guerra del 1948, criticando apertamente la politica inglese, volta a tutelare i propri interessi economici e militari nella regione. La stampa socialista accusava gli inglesi di essere artefici di una politica colonialista e imperialista, augurandosi che il proletariato ebraico potesse allearsi con quello arabo per dar vita a una nazione socialista libera dal colonialismo e dal feudalesimo dei grandi proprietari terrieri. Il PSI chiese al governo di riconoscere immediatamente lo Stato ebraico e esprimere una posizione ufficiale di sostegno.

A questa posizione aveva contribuito Gustavo Sacerdote, spiegando le origini culturali del movimento sionista fondato da Herzl ed il legame tra socialismo e sionismo, nati dalla medesima matrice filosofica della sinistra hegeliana. Per la maggior parte degli intellettuali del PSI gli ebrei avrebbero portato il progresso e la democrazia in Medio Oriente e Sacerdote citò i kibbuz come modello di società alternativa al capitalismo.

La posizione del PSI verso Israele mutò a partire dal 1951, in particolare con una dura campagna contro Ben Gurion e con il dissenso sul ruolo di Israele nella guerra di Suez del 1956. Su “Mondo Operaio” il sionismo veniva considerato da un anonimo inviato come “un ibrido di razzismo e religione” e si sollecitava il popolo di Israele ad imporre al proprio governo una nuova politica fatta di buone relazioni con gli arabi.

Da allora i giudizi sugli israeliani divennero sempre più critici. Nel 1953 veniva pubblicato un articolo che accusava il sionismo di essere diventato uno strumento dell’imperialismo.

Nella diffusione della memoria della Shoah nell’”Avanti” mancò una riflessione sulle ragioni dell’antisemitismo nazista. Un esempio di questa tendenza fu la recensione pubblicata nel 1954 dal giornale socialista al Diario di Anna Frank, in cui non fu citato il fatto che era una giovane ebrea.

Il processo Slansky vide in quegli anni l’”Avanti” schierarsi con il suo corrispondente Carlo Bonetti per la tesi del complotto sionista e quindi per la colpevolezza degli imputati. Bonetti spiegava la distinzione fra antisionismo e antisemitismo, sostenendo che il sionismo era un movimento di classe, nemico della classe operaia, che faceva di Israele un paese pericoloso per il futuro del socialismo. Anche il processo e la condanna dei medici ebrei furono riportati dall’ “Avanti”, rigidamente in una posizione filosovietica, come la giusta conclusione di un tentativo di complotto imperialista.

In questo quadro appare chiaro come l’”Avanti” nel 1956 si schierò a favore di Nasser, che nazionalizzò il canale in risposta al rifiuto della Banca mondiale di finanziare la costruzione della diga di Assuan.

Nel 1959 la rivista “Il Ponte”, fondata da Piero Calamandrei,

dedicò un numero speciale al decennale della nascita dello Stato di Israele. I giudizi dei socialisti all’iniziativa furono discordi tra “Critica Sociale”, che accolse con entusiasmo l’iniziativa, e l”Avanti”, che colse l’occasione per criticare Israele e la sua classe dirigente.

La posizione dei socialisti mutò a partire dagli anni sessanta, con maggior attenzione all’antisemitismo in Unione Sovietica e con la riflessione proposta su Israele e sul mondo ebraico dopo il processo ad Adolf Eichmann. Alla metà degli anni sessanta ormai il PSI si schierava in favore della società israeliana e in difesa dello Stato ebraico, come si vide chiaramente in occasione della guerra dei sei giorni, in aperto contrasto con la posizione del PCI.

Dopo la guerra del giugno 1967, la stampa socialista cambiò ancora una volta la propria posizione, con riflessioni sul conflitto e sulla politica estera israeliana ed in particolare sulla questione palestinese

Gli anni successivi videro un cambiamento del clima politico generale e, soprattutto, della linea di politica interna e internazionale del PSI. In particolare, negli anni della segreteria di Bettino Craxi il partito si impegnò a favore del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. All’interno del partito si svilupparono due orientamenti divergenti che la stampa socialista puntualmente registrò con alternarsi di articoli. La corrente filoisraeliana aveva fra i suoi esponenti più autorevoli Aldo Garosci che il 15 maggio 1968, in occasione del ventennale della nascita di Israele, raccontò ai lettori dell’”Avanti” la nota di angoscia con cui aveva assistito alle celebrazioni di un paese che non aveva ancora ottenuto il diritto di esistere.

In quegli anni l’ebraismo fu definitivamente riconosciuto come una componente fondante dell’identità italiana e socialista. Nel marzo 1987, aprendo il Congresso del partito, Craxi citò l’opera di Carlo Rosselli

e Giorgio Spini, nel quadro di una rivalutazione del pensiero liberal-socialista, citò l’ebraismo del fondatore di “Giustizia e libertà” come un esempio del contributo fornito dagli ebrei alla causa della libertà e del socialismo nella storia italiana. Si trattava di un riconoscimento importante, che portava a conclusione un lungo e complesso processo di evoluzione del rapporto tra l’ebraismo e il socialismo italiano.

Nel complesso il rapporto tra ebraismo e socialismo nella storia dell’Italia contemporanea sembra pienamente in linea con la storia del PSI, segnata da contrasti interni, lacerazioni ideologiche. Gli ebrei guardarono con ottimismo e fiducia al socialismo, cui apportarono un contributo di vitalità ed esperienze, accorgendosi però che veniva più facilmente accettato il singolo mentre più difficile era il riconoscimento come comunità.

Edmondo de’Donato

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