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Esodo moderno, perché la popolazione ebraica europea è diminuita del 60% negli ultimi 50 anni

Simone Benazzo Linkiesta 7 Novembre 2020

Oggi risiede nel Vecchio Continente solo un ebreo su dieci, come nel XII secolo. Una ricerca fotografa il declino demografico di una delle più antiche comunità etnico-religiose

L’Institute for Jewish Policy Research (Jpr) di Londra ha pubblicato uno studio dedicato alla situazione demografica degli ebrei europei, curato dai professori Sergio Della Pergola, nato a Trieste durante l’occupazione tedesca (1942), e Daniel Staetsky.

Il report illustra la costante riduzione del numero di ebrei verificatasi a partire dal secondo dopoguerra in quasi tutti gli Stati europei, includendo nel novero i 27 Ue, i paesi dell’ex Unione sovietica (tre baltici esclusi) e tutti quelli che non rientrano in queste due categorie, come il Regno Unito.

La ricerca inizia sottolineando che, poiché fenomeni come la crescita dell’estremismo di destra e di sinistra e la comparsa della minaccia islamista hanno portato alla diffusione di razzismo e xenofobia, è aumentata in parallelo anche la declinazione di questa ostilità popolare verso le minoranze che colpisce gli ebrei, l’antisemitismo. Osservazione che riecheggia le conclusioni di un approfondito studio sul tema pubblicato nel 2018 dall’Agenzia Ue per i diritti fondamentali.

Anche il futuro di questa longeva comunità europea dipende così dalla tenuta geopolitica dell’Ue e dalla resilienza che essa saprà opporre a estremismi e autoritarismi di sorta. Come sintetizzano le conclusioni, “gli ebrei d’Europa andranno dove andrà l’Europa”.

Gli ebrei, minoranza senza terra, hanno infatti sempre sostenuto storicamente la creazione di strutture multinazionali non esclusive e non vincolanti culturalmente. il genere di entità politico-amministrative dove più hanno potuto prosperare e integrarsi, grazie alla tolleranza de facto garantita dalle autorità. Coerentemente, anche oggi tendono a essere più europeisti dei loro connazionali, soprattutto oltrecortina. Se nei paesi dell’Europa occidentale soltanto una fascia compresa tra l’8% e il 21% si sente “molto attaccata all’Ue”, comunque superiore alle medie nazionali, in Europa centro-orientale – Ungheria e Polonia – questa adesione è invece vistosamente più marcata. Quasi la metà degli ebrei ungheresi e polacchi si definisce “molto attaccata all’Ue”, contro medie nazionali inferiori al 20%.

Si stima che oggi in Europa vivano circa 1,329,400 milioni di ebrei: 788,800 (il 59%) nei 27 paesi Ue, 210,400 (il 16%) in paesi ex sovietici (baltici esclusi) e 330,220 (25%) in paesi terzi – quasi tutti nel Regno Unito (90%).

Tra questi si contano circa 70 mila cittadini israeliani, distribuiti perlopiù tra Regno Unito (18 mila), Germania (10 mila), Francia (9 mila) e Paesi Bassi (6 mila).

Il calcolo è notevolmente influenzato dalla scelta tassonomica, in quanto ci sono vari modi di delimitare il concetto di “ebreo”. Le stime menzionate considerano solo il cosiddetto “nucleo della popolazione ebraica”, cioè le persone che si auto-identificano come ebrei per religione, etnia o cultura. Ma includendo per esempio i possibili beneficiari della Legge del ritorno – la norma che garantisce la cittadinanza israeliana a chiunque possa dimostrare di aver madre ebrea o di essersi convertito all’ebraismo, e non praticare alcun altro culto – il totale arriva a 2,820,800, più del doppio degli ebrei europei identificati tramite la concettualizzazione più riduttiva.

Un divario così cospicuo tra le due cifre si spiega con il fatto che centinaia di migliaia di individui, specialmente in Europa centro-orientale, non si definiscano “ebrei” tout court, verosimilmente perché assimilati o perché timorosi di subire ritorsioni, ma potrebbero rivendicare ascendenze ebraiche.

Un ulteriore problema nomenclaturale, inoltre, riguarda i fondamenti di questa auto-definizione. Nei paesi post-comunisti prevalgono i criteri di etnia e cultura, mentre in Europa occidentale – pur con differenze tra i vari paesi – è la religione il principale tratto distintivo. A Est si è quindi etnicamente o culturalmente ebrei, a ovest lo si è perlopiù per credo.

Conteggiando solo gli individui che compongono il “nucleo della popolazione ebraica”, l’attuale proporzione di ebrei europei (9%) sul totale della popolazione ebraica mondiale è paragonabile a quella (12%) stimata nel 1170 da Beniamino di Tudela, antesignano di Marco Polo. E oggi come allora gli ebrei rappresentano meno dello 0.5% della popolazione europea.

La presenza demografica degli ebrei in Europa, insomma, è tornata ai livelli del XII secolo, dopo aver vissuto una crescita pressoché costante fino al primo Novecento.

Nel 1880 nel Vecchio continente viveva l’88% degli ebrei mondiali, suddivisi tra Europa centro-orientale (75%) e Europa occidentale (13%). Mezzo secolo più tardi (1939), nonostante l’emigrazione in massa verso il Nuovo Mondo, gli ebrei europei costituivano ancora la maggioranza assoluta (58%). Alla vigilia della Seconda guerra mondiale il nostro continente ospitava più di diciassette milioni di ebrei, un numero vicino all’attuale popolazione dei Paesi Bassi.

Nel 1945 saranno undici. La Shoah estirperà quasi interamente le comunità ebraiche di alcuni Stati, principalmente in Europa orientale e nei Balcani. Un trauma collettivo di questa portata renderà impossibile a gran parte dei sopravvissuti e dei loro discendenti sentirsi di nuovo sicuri e accettati nei territori che erano abituati a considerare la propria patria, invogliandoli a emigrare non appena si fosse presentata l’occasione propizia. Che arriverà tre anni e una settimana dopo la resa della Germania nazista. Il 14 maggio del 1948 David Ben-Gurion fonda lo Stato di Israele.

La nascita dello Stato ebraico è stato il primo evento geopolitico post-Seconda guerra mondiale a plasmare radicalmente le traiettorie demografiche degli ebrei europei. Ha agito fin da subito da catalizzatore per gli ebrei di tutto il mondo, ma in particolar modo per quelli europei, traumatizzati dalla Shoah. Tra 1948 e 1968 circa 620 mila ebrei abbandonarono l’Europa orientale; mezzo milione di loro si trasferì in Israele.

Tuttavia, il calo della popolazione ebraica nell’Europa comunista (-22%) venne in parte contemperato dall’aumento di quella in Europa occidentale (8%), principalmente a causa della disgregazione degli imperi coloniali.

La decolonizzazione è stato infatti il secondo degli eventi destinati a stravolgere le vicende umane e collettive degli ebrei del nostro continente.

Il graduale ritiro soprattutto della Francia dai possedimenti coloniali in Africa settentrionale e Asia, ma anche quelli di Regno Unito, Italia, Belgio e Paesi Bassi, fu nefasto per gli ebrei residenti – a volte da secoli – in queste colonie extra-europee. Non solo, avendo sovente svolto la funzione di intermediari sociali ed economici tra potenza occidentale occupante e popolazione locale, gli ebrei furono reputati collusi con gli invasori, ma dopo l’esplosione dei conflitti arabo-israeliani iniziarono a venir sempre più identificati con Israele, il nemico numero uno delle popolazioni arabo-musulmane. Sottoposti a intimidazioni e soprusi continui, molti di loro scelsero di emigrare, spesso nelle metropoli europee, rimpinguando le comunità ebraiche di questi paesi decimate dalla Shoah. A partire dagli anni ‘50 la Francia da sola accolse oltre 250 mila ebrei, provenienti perlopiù dal Maghreb ex-francese.

Un terzo evento è stato però quello più determinante nell’epopea degli ebrei d’Europa: il collasso del sistema comunista nel biennio 1989-91. Già a partire dai tardi anni ‘60, alcuni minimi allentamenti dei divieti imposti dal potere sovietico avevano permesso a molti ebrei di lasciare il paradiso dei lavoratori ed espatriare (solitamente in Israele). Il crollo del Muro di Berlino innescò però un esodo ingente, trascinatosi anche per i tre decenni successivi. Tra 1969 e 2020 più di 1,8 milioni di ebrei hanno lasciato la metà (post)comunista del continente.

In termini percentuali, nell’ultimo mezzo secolo l’Europa ha perso il 59% della propria popolazione ebraica: solo il 9% di quella rimasta in Europa occidentale, ma l’85% di quella dell’Europa orientale.

Se il picco dell’emorragia demografica si è avuto negli anni ‘90, ancora negli ultimi due decenni circa 335 mila ebrei europei sono trasmigrati in Israele, quasi due terzi dei quali dalle sole Russia e Ucraina. Secondo gli autori del report, si sarebbe ora in una fase di assestamento: la stragrande maggioranza (84%-92%) degli ebrei che abitano in Europa ha in programma di rimanerci. Tuttavia, anche qualora l’emigrazione cessasse, le comunità ebraiche europee potrebbero comunque assottigliarsi a causa di altri fattori – aumento dei matrimoni misti, assimilazione, progressivo invecchiamento.

Gli ebrei non sono fuggiti dai paesi del Patto di Varsavia solo per le motivazioni che hanno spinto migliaia di concittadini a compiere la stessa scelta dopo il Crollo del Muro di Berlino: salari più alti e benessere a Ovest, polverizzazione dello Stato sociale e insicurezza generalizzata in patria. Come testimoniano le opere di Vasilij Grossman, l’antisemitismo era molto diffuso anche in Unione sovietica. E non ne soffriva solo il popolino, bensì anche l’intelligentia e le alte sfere, si veda il cosiddetto “complotto dei camici bianchi” scatenato da Stalin poco prima di morire.

Un’interpretazione storiografica grossolana – opposizione dicotomica e irriducibile tra nazisti persecutori degli ebrei e sovietici liberatori dei lager – e le scorie della martellante retorica sovietica dell’amicizia tra i popoli, con cui il regime tentava di negare le tensioni interetniche e la xenofobia latenti nella popolazione, sono tra i fattori che hanno contribuito a occultare questa pagina ingloriosa. Iniziative propagandistiche come la tragicomica vicenda dell’Oblast’autonoma ebraica poco riuscirono a scalfire il radicato antisemitismo cui indulgeva così volentieri anche l’homo sovieticus.

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In memoria di Ytzhak Rabin

(Gerusalemme, 1º marzo 1922 – Tel Aviv, 4 novembre 1995)

Nel 25° anniversario dell’assassinio di Rabin, mi piace ricordarlo pubblicando il discorso che egli pronunciò a Washington il 13 settembre 1993, in occasione della firma degli “accordi di Oslo” con l’OLP.
Luciano Belli Paci

DISCORSO DEL PREMIER ISRAELIANO YITZHAK RABIN PRONUNCIATO DOPO LA FIRMA DELL’INTESA ISRAELO-PALESTINESE.


Siamo venuti da Gerusalemme, l’antica ed eterna capitale del popolo ebraico.
Siamo venuti da una terra tormentata e addolorata.
Siamo venuti da un popolo, una casa, una famiglia, che non ha conosciuto un solo anno, un solo mese, in cui le madri non abbiano pianto i loro figli.
Siamo venuti per cercare di mettere fine alle ostilità in modo che i nostri figli, i figli dei nostri figli, non debbano più sperimentare il doloroso costo della guerra, della violenza e del terrore.
Siamo venuti per tutelare le loro vite e alleviare il cordoglio e i ricordi dolorosi del passato, per sperare e pregare per la pace.
Lasciate che dica a voi, palestinesi, che siamo destinati a vivere insieme sullo stesso suolo, sulla stessa terra.
Noi, soldati tornati dalle battaglie macchiate dal sangue; noi, che abbiamo visto i nostri parenti e amici uccisi davanti ai nostri occhi; noi, che abbiamo partecipato ai loro funerali e non possiamo guardare negli occhi i loro familiari; noi, che siamo venuti da una terra dove i genitori seppelliscono i figli; noi, che abbiamo combattuto contro di voi, palestinesi, noi vi diciamo oggi a voce alta e chiara: basta col sangue e le lacrime.

Basta.

Non abbiamo desideri di vendetta… non nutriamo odio nei vostri confronti.
Noi, come voi, siamo gente… gente che vuole costruire una casa, piantare un albero, amare, vivere al vostro fianco con dignità, in affinità, come essere umani, come uomini liberi.
Noi diamo oggi un ‘occasione alla pace, e vi diciamo ancora “basta”.
Preghiamo che arrivi il giorno in cui noi tutti diremo addio alle armi.

La foto : Rabin e il testo della canzone Sir Leshalom che aveva cantato poco prima di essere assassinato

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Le parole cambiano il mondo

David Grossman 16 Ottobre 2020

Nell’era della pandemia il potere della scrittura può essere salvifico anche ricordandoci chi eravamo. Con questo intervento il grande scrittore israeliano ha inaugurato l’edizione virtuale della Buchmesse di Francoforte

Capita che, a metà giornata, io alzi la testa dalla tastiera e pensi a uno o due scrittori miei amici.
Li immagino seduti al computer come me, alla ricerca di un vocabolo o di un tratto elusivo del carattere di un personaggio. Li immagino tamburellare con le dita, prepararsi l’ennesimo caffè. Camminare su e giù per la stanza perché la frase che hanno appena scritto non suona come dovrebbe. Li immagino a casa loro. La pandemia infuria, magari ha già bussato alla loro porta, eppure loro sono completamente assorti, quasi accordassero uno strumento musicale. Immagino una sorta di rete invisibile, sottile ma forte, tessuta da migliaia di scrittori e poeti che vivono in ogni parte del mondo. Alcuni hanno già pubblicato libri, altri sono alla loro prima esperienza. Gran parte di loro non è nemmeno consapevole dell’esistenza degli altri, ma insieme fanno qualcosa di importante: correggono un poco la dissonanza generale. Creano un’opera d’arte.
Qui, oggi, noi scrittori, poeti, traduttori, redattori, editori, agenti ma soprattutto lettori, paragoniamo tristemente le circostanze odierne a quelle degli anni passati e ci chiediamo quale sia il nostro compito nell’attuale realtà. Potremmo dare un qualche contributo? Creare una sorta di “anticorpo” o di “vaccino spirituale” al virus? Contrapporre qualcosa di significativo al senso di restrizione e di annientamento generato dalla pandemia?

Credo che questo “qualcosa” sia la nostra capacità di osservare. Il modo in cui guardiamo il mondo e descriviamo ciò che vediamo. L’osservazione è il fulcro della nostra arte. Ciò che fa di noi degli scrittori, e forse le persone che siamo. E c’è molto da osservare. E da raccontare. In quasi tutti gli ambiti della vita avvengono, e avverranno, cambiamenti. Sistemi economici, politici, sociali, culturali collasseranno o assumeranno nuove fisionomie. Probabilmente anche i rapporti tra le persone, tra famigliari, tra amici, tra coppie muteranno.

Forse la prossimità alla morte farà sì che donne e uomini, dopo la pandemia, vedano la loro vita in una luce diversa e non vogliano più accettare compromessi. E forse scopriranno quanto siano significativi e importanti i rapporti di amicizia e d’amore. Ma fino a quel momento il coronavirus continuerà a imperversare e, come sempre, man mano che le fondamenta della società verranno minate e la sicurezza personale e nazionale diminuirà, probabilmente assisteremo a un aumento degli episodi di nazionalismo, di fondamentalismo religioso, di xenofobia, di razzismo e a gravi violazioni della democrazia e dei diritti civili. E noi scrittori osserveremo, scriveremo, documenteremo e metteremo in guardia da chiunque cerchi di attuare manipolazioni linguistiche e cognitive. Da chiunque minacci i nostri diritti civili e umani. Un evento come l’attuale pandemia di coronavirus avviene forse una volta in un secolo. Il destino ha voluto che accadesse a noi. È una malattia orribile, letale, che ci fa sentire impotenti. Osservarla, osservarne le conseguenze, è come fissare il sole. Ma gli scrittori hanno sempre fissato questo o quel sole e raccontato ciò che hanno visto. È la natura di questa strana professione. Vogliamo osservare quest’epoca e ricordare com’eravamo. In che modo abbiamo resistito o non resistito. Dove si sono rivelate le nostre debolezze – individuali e sociali – e in quali momenti abbiamo scoperto di essere più deboli di quanto pensassimo e più forti di quanto credessimo.

Saremo testimoni attivi, curiosi, acuti. Scrivere, non necessariamente della pandemia, è anche il nostro modo di resistere ai cliché, a vuoti slogan, ad affermazioni indiscriminate che spianano la strada all’istigazione, al pregiudizio e al razzismo. Ciò che facciamo riuscirà a indebolire anche minimamente lo slancio del coronavirus? Ovviamente no. Però ci permetterà di rafforzare un poco il nostro sistema immunitario. Di ricordare a noi stessi chi eravamo prima della pandemia. E di quanto potrebbe essere bello e luminoso il mondo dopo che saremo usciti da questo incubo.

Prima di concludere vorrei raccontarvi una storia così come mi fu riferita da Abraham Sutzkever, uno dei più grandi poeti yiddish, vissuto nel ghetto di Vilnius durante la seconda guerra mondiale.
Così Sutzkever mi narrò della notte in cui scappò dal ghetto: “Mi convinsi del potere racchiuso nella poesia nel marzo del 1944, quando dovetti attraversare un campo minato. Nessuno sapeva dove fossero le mine. Vidi persone fatte a pezzi. Vidi uno stupido uccello che si era avvicinato troppo. Qualunque direzione prendessi, qualunque passo facessi, avrebbe potuto significare la morte. Ma fra me e me ripetevo una melodia” (e per “melodia” lui intendeva una poesia). “E al ritmo di quella melodia camminai per un chilometro nel campo minato, e ne uscii”. Poi disse la seguente, sorprendente, frase: “Potresti ricordarmi che melodia era? Io non ricordo…”. E io posso immaginarlo con un sorrisetto, quasi a dirci che la melodia la si dimentica sempre. Sta a noi reinventarla, con parole nostre, per non sentirci impotenti, sconfitti, persino nel mezzo di un campo minato. Per avere ancora speranza.

Traduzione di Alessandra Shomroni

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ISRAELE, EMIRATI ARABI E BAHREIN: LA PACE PUÒ DIVENTARE CONTAGIOSA

di Gabriele Eschenazi Gariwo 12 Ottobre 2020

Nessun ballo per le strade ha accompagnato in Israele l’annuncio dell’accordo di pace con Emirati Arabi e Bahrain. Nelle piazze gli israeliani c’erano e ci sono, ma per un altro motivo: manifestare contro un governo non solo capeggiato da un primo ministro sotto processo per corruzione, ma assolutamente incapace di gestire l’emergenza sanitaria ed economica legata alla diffusione del Covid-19. Questa pace per i comuni cittadini non sembra al momento contare nulla. Eppure è da sempre il loro sogno, tema di canzoni celebri, preghiere e opere artistiche. Leader che hanno concluso accordi di pace come Begin o Rabin sono entrati nel mito quasi quanto David Ben Gurion. Succederà anche con Benjamin Netanyahu e la sua pace con Emirati Arabi e Bahrein? Da dieci anni al potere aspetta invano di entrare anche lui nel pantheon dei primi ministri che hanno fatto la storia dello Stato ebraico. Pensava di farlo con l’annessione dei territori, ha scelto di farlo con questi accordi, ai quali dovrebbero seguirne altri. Finora, però, questa mossa non ha pagato. Migliaia d’israeliani radunati in massa sotto casa sua continuano a chiedergli di andarsene. E anche i suoi sostenitori di destra non hanno apprezzato. Per loro l’annessione ora “congelata” era più importante di qualsiasi pace, che in un primo momento ha più che altro entusiasmato uomini di affari e tour operator, pronti a proporre ai loro concittadini trasferte da sogno in Paesi dal consumismo e dal lusso sfrenato.

Gli arabi israeliani da parte loro si sono domandati quando un governo israeliano firmerà una pace anche con loro. Netanyahu negli ultimi anni ha fatto di tutto per delegittimarli come cittadini di pari diritti. Ha fatto approvare la Legge della Nazione, durante le campagne elettorali gli ha additati come pericolo per la democrazia. “Votano in massa”,”Ci odiano, ci vogliono uccidere”, i suoi messaggi diffusi a ripetizione sui social media con l’aiuto di suo figlio Yair, “odiatore” di professione. Gli arabi locali, i palestinesi, sarebbero gli arabi cattivi e quelli della penisola arabica gli arabi buoni, educati, civili e filoebrei. Ma cosa succederà quando pellegrini degli Emirati, Bahrein e poi Arabia Saudita verranno in visita a Gerusalemme per pregare nei luoghi santi? Saranno più liberi di muoversi dei loro fratelli palestinesi? Potrebbero essere decine di migliaia i nuovi visitatori del Monte del Tempio e della moschea di al-Aqsa. Ma non si può dimenticare che questo è un luogo di preghiera rivendicato anche dagli ebrei ortodossi più oltranzisti che sognano il “terzo tempio”. Palestinesi, turisti-pellegrini dal mondo arabo, ebrei ortodossi: un insieme di comunità diverse da gestire in pochi chilometri quadrati. Interessante, tra l’altro notare, come Netanyahu non abbia richiesto di inserire nell’accordo il riconoscimento d’Israele come “Stato del popolo ebraico”, clausola da lui definita irrinunciabile per ogni accordo con i palestinesi, ma di fatto pretestuosa e senza senso.

La destra annessionista si preoccupa del destino del suo disegno della Grande Israele. Gli accordi su questo tema sono volutamente ambigui. In un passaggio parlano di “una soluzione che tenga conto delle esigenze e delle aspirazioni di entrambi i popoli” senza però menzionare il termine “diritti” che c’era negli accordi di Camp David. In un altro, invece, facendo riferimento al piano Trump parlano di “una soluzione giusta, completa, realistica e duratura al conflitto israelo-palestinese”. Il termine “realistica” potrebbe lasciar intendere una soluzione alla Trump, che tenga cioè conto della realtà attuale sul territorio con colonie e Gerusalemme annesse a Israele, ma anche delle esigenze dei palestinesi privati di risorse e spazio vitale da 43 anni di occupazione.

Rimane il fatto che questi accordi pace sono stati raggiunti ancora una volta come in passato senza proporre un soluzione definitiva al problema palestinese. Era già successo al tempo degli accordi di pace con Egitto e Giordania, ma c’è una differenza. Nei casi precedenti questi due Paesi furono aspramente criticati dal mondo arabo per aver abbandonato la causa palestinese, mentre questa volta a curare la regia degli accordi è un paese come l’Arabia Saudita, custode dei luoghi santi dell’Islam sul suo territorio, ma che potrebbe aspirare a mettere sotto la sua tutela anche Gerusalemme che Israele rivendica come sua capitale unica e indivisibile. Come saranno regolati i rapporti del mondo musulmano con la Città Santa? La questione è in sospeso, ma intanto Emirati Arabi e Bahrein si sono aperti una porta per il controllo della Gerusalemme araba.

Ma questo non è il loro unico successo politico. Hanno ottenuto dagli Usa senza veto israeliano di poter acquistare gli aerei da combattimento F-35, ora richiesti anche dal Qatar. L’accordo inoltre prevede che eventuali operazioni militari israeliane nella regione avvengano in coordinamento con gli Usa e con i suoi alleati arabi. Un vincolo alla libertà di manovra militare da sempre rivendicata da tutti i governi israeliani. Le alleanze come sempre aiutano chi le stringe, ma legano anche le mani.

Timori per le conseguenze dell’accordo investono l’Egitto, buon alleato degli Emirati, dai quali riceve come peraltro anche la Giordania copiosi finanziamenti al suo sviluppo dell’ordine di miliardi dollari. Il regime di al-Sisi si è giovato dei rapporti di pace con Israele per ritagliarsi spesso un ruolo di mediazione con Hamas, l’amministrazione palestinese e altri Paesi musulmani come il Sudan. L’allargamento della cerchia dei Paesi alleati d’Israele inevitabilmente diminuirà il peso diplomatico dell’Egitto sullo scacchiere mediorientale.

Guardando alla politica interna dello Stato ebraico ad essere sconfitta da questo accordo sembrerebbe essere anche la sinistra israeliana, o ciò che ne rimane dopo la quasi ormai certificata scomparsa del partito laburista. In realtà potrebbe essere un’occasione da cogliere. Il mantra che la pace col mondo arabo non si risolverà senza una soluzione del problema palestinese si è improvvisamente capovolto diventando “il problema palestinese non si risolverà senza che il mondo arabo non sia in pace con Israele”. L’iniziativa di pace promossa nel 2002 dalla Lega Araba su ispirazione saudita è ormai superata dagli eventi. Emirati e Bahrein con i sauditi sullo sfondo hanno deciso di rompere un tabù per convenienza strategica, ma anche guardando al futuro. E in questo modo sono venuti in effetti in soccorso del movimento della pace israeliano. Hanno bloccato la progettata annessione dei territori e ne hanno impedito la strumentalizzazione a Turchia e Iran. Hanno indebolito Hamas e Hezbollah, sempre più debole in Libano. Il concetto caro alla destra “tutti sono contro di noi” si sta ora sgretolando e anche i palestinesi si trovano ora di fronte a una realtà che non hanno mai voluto ammettere e che ha impedito loro in passato di accettare i vari piani di pace a loro proposti. Gli accordi di pace con Emirati e Bahrain, che “minacciano” di essere più caldi di quelli con Egitto e Giordania, parlano di cooperazione economica, tecnologica, scientifica e ambientale. Riconoscono in Israele una risorsa della regione e non un corpo estraneo. Ai palestinesi non rimarrà che prendere atto che il loro nemico non sarà mai sconfitto né con razzi, né con palloncini incendiari, né con missili, né con attentati, né con nuove Intifada.

Sarà sconfitto con la pace, rinunciando all’irrealistico “diritto al ritorno dei profughi”, chiedendo invece di abbattere muri e posti di blocco, cancellare le discriminazioni e restituire territori e risorse vitali alla creazione dello Stato palestinese. Sembra che una parte importante del mondo arabo abbia appreso la lezione di Nelson Mandela quando disse:”Se vuoi fare la pace col tuo nemico, devi lavorare col tuo nemico. Così lui diventerà tuo alleato”.

Lo stato di guerra e la violenza hanno da sempre aiutato la destra israeliana e Netanyahu, maestro nell’usare la paura per ergersi di fronte agli elettori come unico e insostituibile scudo. Oggi che il primo ministro vende falsamente alla sua opinione pubblica “una pace ottenuta in cambio di pace e non di territori”, sta alla sinistra israeliana sbugiardarlo e ribadire che per completare l’opera serve sedersi al tavolo con i palestinesi soprattutto se questi ultimi adotteranno una linea più realistica con il sostegno dei Paesi arabi moderati.

Analisi di Gabriele Eschenazi, giornalista

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Israele: la crisi della sinistra

Giorgio Gomel – La Stampa Giovedì 24 Settembre 2020

Dopo una campagna virulenta e segnata, come nelle precedenti ele­zioni dell’aprile e settembre 2019, dall’isterismo ossessivo agitato dai partiti di destra contro gli arabi israeliani – circa il 20% dell’elet­torato – i risultati del voto del 2 marzo scorso confermano il senso di un paese fortemente diviso, polarizzato sugli estremi. Netanyahu, giunto alla sua ottava campagna elettorale come leader del Likud e premier con ininterrotta continuità da undici anni, ha improntato la campagna a un plebiscito sul suo conto nell’imminenza del pro­cesso che lo attende per casi di corruzione, frode e abuso d’ufficio. Il processo, che sarebbe dovuto iniziare il 17 marzo, è stato rinviato, su decisione del ministro della Giustizia uscente da lui stesso recen­temente nominato, prima alla seconda metà di maggio, poi a lu­glio, infine a dicembre prossimo, in ragione del diffondersi anche in Israele dell’epidemia da Coronavirus. I temi dirimenti per il futuro del paese – un accordo di pace con i palestinesi e il mondo arabo, il rispetto dello Stato di diritto e delle prassi democratiche, il legame controverso fra religione e politica, il monopolio del rabbinato orto­dosso in materia di diritto civile e di famiglia, l’acuirsi delle disegua­glianze socioeconomiche – sono stati largamente elusi.

Il premier uscente ha colorato il confronto elettorale di una forte impronta ideologica: da un lato rilanciando la campagna d’opinio­ne rivolta a delegittimare le istituzioni indipendenti e subordinare il potere giudiziario, in particolare la Corte suprema, a Parlamento e governo; dall’altro invocando l’annessione della Valle del Giordano e l’estensione anche formale della sovranità di Israele sugli insediamenti nei Territori palestinesi, rifacendosi al piano di pace dell’Amministra­zione Trump. La coalizione uscente – composta dal Likud come cen­tro di gravità e da altri partiti religiosi e della destra nazionalista – è ri­masta però al di sotto della soglia maggioritaria (59 seggi contro 61). All’opposizione la sinistra ebraica, unitasi con l’alleanza fra il Partito laburista, più attento alle istanze socioeconomiche – il degrado del welfare state, l’acuirsi delle disparità di reddito – e il Meretz, unico a sostenere con forza il diritto dei palestinesi a uno Stato e a difendere la democrazia incompiuta del paese, ha subito un’ulteriore flessione al 5% circa dei suffragi, soffrendo in parte dello slittamento del voto “utile” verso il partito di centro Blu e bianco. Solo la sinistra, con i partiti arabi, ha sollevato con forza il dilemma del futuro democra­tico del paese. Una democrazia limitata a causa: a) della legge sullo “Stato-nazione ebraico” che codifica una condizione di diseguaglian­za fra ebrei e arabi cittadini di Israele; i secondi godono di pari diritti individuali, civili e politici, ma non dei diritti collettivi di minoranza nazionale; b) del clima ossessivo volto non solo a delegittimare il po­tere giudiziario, ma anche a demonizzare l’accademia, la stampa, le ONG attive nella difesa dei diritti umani, avvicinando Israele a paesi retti da partiti nazional-populisti.

La Lista araba unita ha ottenuto un ulteriore corposo successo giun­gendo a 15 seggi: vi hanno influito la crescente partecipazione al voto dei cittadini arabi di Israele; la loro volontà di incidere in misura maggiore sul corso politico del paese in parallelo al processo di inte­grazione economica e civile nella società israeliana; infine, la stessa disponibilità manifestata dalla leadership dei partiti unitisi nella Li­sta a sostenere un governo di centrosinistra qualora fosse annullata la legge dello “Stato-nazione ebraico”, ripresi i negoziati con l’Autorità palestinese e promosso con più vigore il progresso delle comunità arabe di Israele, che soffrono di arretratezza, povertà e crimine. Al­cuni analisti dei flussi elettorali hanno sottolineato che circa 20.000 elettori ebrei hanno spostato il loro voto dai partiti classici della sini­stra ebraica alla Lista araba.

La novità dirimente post elezioni sarebbe stata l’ipotesi di un appog­gio esterno in Parlamento da parte della Lista araba a un governo guidato da Benny Gantz, il leader del partito centrista. Lo stesso Gantz aveva rigettato in verità come provocatoria l’offerta di appog­gio della Lista araba nel corso della campagna elettorale, volendosi “coprire a destra” e cedendo alle seduzioni dell’isteria antiaraba. Uno sviluppo siffatto avrebbe rappresentato la rimozione di un tabù pa­ralizzante per il sistema politico del paese sin dalle origini: soltanto il governo guidato da Yitzhak Rabin fra il 1992 e il 1995 si avvalse infatti del sostegno dei partiti arabi, che fu rilevante nelle trattative che condussero agli accordi di pace di Oslo fra israeliani e palestinesi.

Ciò non è avvenuto. La coalizione sarebbe stata in verità assai ete­rogenea, composta, oltreché dal suo partito, dalla sinistra ebraica e dal partito Yisrael Beiteinu, guidato da Lieberman, alfiere degli ebrei russi immigrati in Israele, nazionalista di destra e di impronta for­temente laica, oppositore accanito del peso coercitivo delle autorità e dei partiti religiosi sulla vita civile del paese. Il governo di unità nazionale che si è poi formato dopo una lunga crisi istituzionale rag­gruppa intorno al Likud e ai partiti religiosi una parte del partito di Gantz che ha subito una scissione e i residui del Partito laburista, ridottosi a 3 seggi.

Al di là dei fatti contingenti, è in atto da tempo uno spostamento profondo e permanente della società israeliana verso posizioni etno-nazionali­ste. Nelle inchieste d’opinione oltre il 50% degli intervistati si dichiara di destra, contro il 25% di centro e meno del 15% di sinistra, un orien­tamento prevalente soprattutto fra i giovani. Fenomeno dovuto alle trasformazioni sociali e demografiche del paese: la grande immigrazione dalla Russia postsovietica dei primi anni Novan­ta (circa 800.000 persone); il prevalere di una visione del mondo et­nocentrica, che combina in molti casi rigorismo religioso e chiusura nazionalista, fra molti dei 600.000 immigrati giunti in Israele negli ultimi venti anni da Russia, Ucraina, Francia, Stati Uniti; il crescere del peso demografico ed elettorale dei religiosi, circa il 15% del paese.

Vi è qualcosa di paradossale, quasi una scissione fra preferenze dei cittadini e comportamenti nel voto. Nelle inchieste d’opinione gli israeliani mostrano di condividere le posizioni della sinistra non solo in materia di diritti civili e sociali o di ruolo dello Stato in settori quali la sanità e l’istruzione, ma anche sul conflitto israelo-palesti­nese. Tuttavia le preferenze “rivelate” nel voto premiano la destra, in modo coerente e continuo ormai dal 2009, quando con le dimissio­ni di Olmert, imputato di corruzione, il suo partito centrista Kadi­ma capeggiato dalla Livni, pur vittorioso nelle elezioni, non riuscì a formare una coalizione di governo. Da allora la premiership è nelle mani di Netanyahu. La debolezza della sinistra è anche una conseguenza nefasta della strada nichilista imboccata dai palestinesi: l’esplodere della violenza terroristica contro civili israeliani negli anni 2001-05, la guerra di guerriglia mossa da Hamas dalla Striscia di Gaza, il rigetto da parte di Abu Mazen delle offerte positive del governo Olmert-Livni nei negoziati del 2008.

La sconfitta della sinistra ebraica è eclatante anche nella retrospettiva storica. Quella sinistra socialdemocratica fondatrice dello Stato, anzi delle prime istituzioni pre-Stato (la Histadrut, il sindacato operaio, i kibbutzim), che ha retto il paese nei suoi primi trenta anni fino alla vittoria del Likud di Begin nel 1977 e che ancora nel 1992, guidata da Rabin, ottenne il 47% dei suffragi (56 seggi su 120), è oggi ridotta al 5% (7 seggi).

La divisione fra destra e sinistra nella storia politica di Israele con­cerneva tipicamente tre questioni: a) il welfare state e l’intervento pubblico nella sfera economica; b) il rapporto fra religione e Stato; c) il conflitto con i palestinesi. La frattura fra i due schieramenti negli ultimi dieci anni ha in­vestito anche il tema del rispetto dello Stato di diritto e delle norme di una democrazia liberale minacciata dalle pulsioni autoritarie dei partiti di destra.

Due gli elementi determinanti del regresso dei partiti di sinistra. Il primo, forse preminente, attiene all’identità affermatasi via via dagli anni Novanta fra la sinistra e il “campo della pace” – partiti, movimenti, organizzazioni della società civile attivi nel promuovere prima la trattativa fra Israele e l’OLP, poi l’attuazione degli accordi di Oslo e una com­posizione negoziata del conflitto basata sul principio di “due Stati per due popoli”. Il fallimento di questo disegno nei negoziati di Camp David (2000) e Annapolis (2008), lo scetticismo circa la fattibilità della soluzione “a due Stati” – ritenuta ancora con favore dal mag­gior numero di israeliani, ma percepita come non più possibile – si è riflesso pesantemente sulle sorti politiche della sinistra, vista come incapace di guidare il paese, garantirne la sicurezza e gestire, se non risolvere, il conflitto. Meglio allora conservare lo status quo, un re­gime di occupazione di parti rilevanti della Cisgiordania e il blocco rigido della Striscia di Gaza: un’occupazione che persiste da oltre cinquant’anni, corrompe occupanti e occupati, ma protegge gli isra­eliani dal rischio di una pace vissuta come qualcosa di distante, vel­leitario o utopico. Non sono solo infatti gli oltre 400.000 israeliani che vivono negli insediamenti in Cisgiordania a rendere la soluzione di “due Stati per due popoli”, con uno Stato palestinese indipenden­te che riconosca la legittima esistenza di Israele e stabilisca con esso rapporti di buon vicinato, sempre più difficile sul terreno. Una vasta parte della società israeliana preferisce i palestinesi “invisibili” dietro il muro di separazione eretto lungo la Linea verde e per lunghi tratti assai più a est in Cisgiordania.

Su tale esito ha agito la retorica scatenata da partiti, opinion makers e media vicini alla destra e dediti a dipingere il movimento per la pace come visionario, utopista o, peggio, traditore. Smolanit, in ebraico “di sinistra”, è diventato nel lessico politico-popolare in Israele quasi un insulto, l’immagine di gente antipatriottica disposta a sacrificare le ragioni della sicurezza dello Stato per rincorrere astratti ideali.

Il secondo elemento attiene al tema delle identità in senso etnico e socioculturale. Il Likud, già dalla vittoria elettorale del 1977, ha teso a rappresentare la sinistra come espressione dell’élite di origine euro­pea – ashkenazita più specificamente – che ha dato vita al paese e alle sue istituzioni, lo ha dominato per anni sul piano economico, sociale e politico e tuttora esclude gli ebrei di origine “orientale” dal pote­re effettivo. Di qui un sentimento di frustrazione rabbiosa di molti elettori di quella parte del paese che si riversa contro la sinistra. No­nostante il tentativo del Partito laburista in anni recenti di ritornare alle sue fondamenta socialdemocratiche, enfatizzando la questione delle diseguaglianze di reddito e coltivando gli interessi degli strati emarginati della società e delle aree arretrate del paese dove sono più numerosi ebrei immigrati dai paesi arabo-islamici, l’esito sul piano elettorale è stato deludente.

L’unico modo per una riscossa del centrosinistra è forse un’intesa con la minoranza araba nel paese, un’alleanza anche politica per costruire una società fondata su principi di eguaglianza e democrazia, in base alla quale i partiti ebraici si battano per modificare la legge dello Stato-nazione e includere gli arabi nel body politico del paese alla pari e gli arabi accettino Israele come Stato democratico a maggioranza ebraica.

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L’altra Israele contro Netanyahu

DAVID GROSSMAN

REPUBBLICA 17 SETTEMBRE 2020

Nel Libro di Osea leggiamo: “Poiché costoro seminano vento, e mieteranno tempesta“. Per quasi dodici anni Benjamin Netanyahu ha seminato vento. Un vento malvagio, aberrante. Ora, nei giorni della pandemia, i risultati sono chiari: Israele è un Paese diviso e disorientato, sfiduciato nei confronti della sua leadership e di se stesso e facile preda del turbine del coronavirus.

Tiro a indovinare: se gli israeliani dovessero rispondere onestamente alla domanda “cosa vi augurate per il nuovo anno?”. A parte, ovviamente, la salute, immagino che molti di loro, inclusi i sostenitori di Netanyahu, risponderebbero semplicemente: una vita stabile, tranquilla, sicura, in cui non vi sia corruzione e si percepisca la presenza di un governo, della legge. Immagino inoltre che molti si augurerebbero anche un primo ministro (uomo o donna) che anziché essere un “mago” (come spesso viene definito Netanyahu), si occupi di questioni di stato e cerchi con tutte le sue forze di curarne le ferite.
Questo è ciò che augurerei io a tutti noi: una vita cristallina. La augurerei anche a Benjamin Netanyahu, da uomo a uomo. A volte mi chiedo se lui ricordi ancora la sensazione di una vita simile. Se ci sia ancora un posto nella sua esistenza in cui non finga, in cui sia cristallino, libero. Da anni ci ha abituati al fatto che quasi tutto ciò che tocca, in qualche modo, si intorbidisce, si aggroviglia in interessi celati, tortuosi, o ha un doppio fondo. L’ho guardato circa due settimane fa quando, riferendosi all’assassinio di Yaakub Abu Al-Kyan, ha gridato: “I cittadini di Israele pretendono di sapere la verità!” e ho pensato alle taglienti parole del profeta Isaia: “Guai a quelli che chiamano bene il male, e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro!”

Indubbiamente Netanyahu è un oratore fantastico, un arringatore straordinario. Questa settimana ha pure conseguito un grande e importantissimo risultato politico che potrebbe influire sulle posizioni di altri Paesi della regione. E allora perché così tanti israeliani si sentono stranieri ed esiliati nel proprio Paese? Perché così tanti di noi avvertono un continuo senso di soffocamento, faticano a respirare? Forse perché oggi siamo sedati e ventilati. Siamo un’ottima materia prima atta a qualsiasi manipolazione, un materiale morbido e flessibile con cui modellare la dittatura “pseudo democratica” che Netanyahu sta instaurando. Per questo motivo il movimento di protesta contro di lui è un’incoraggiante – ed essenziale – ventata di aria fresca. A un tratto echeggiano parole chiare, assertive, che trafiggono il rimbombo capzioso di quell’-Io-Io-Io che ci sommerge da anni. La protesta fa rinascere in noi un senso di benessere e, dopo anni di bugie ed esagerazioni, risuonano finalmente parole di verità.

È vero, i manifestanti appartengono a gruppi diversi e talvolta slegati fra loro, hanno una leadership frazionata e ancora arrancano alla ricerca di una direzione. Ma proprio in questo sta la loro forza, in questa goffaggine, nelle energie di chi deve scrollarsi di dosso il senso di soffocamento, nel ringhio che, corroborato da argomentazioni razionali, efficaci e ben formulate, sale prepotentemente di tono. Netanyahu accusa i manifestanti (e la sinistra e i media e la procura e l’opposizione e chi no…), di essere ossessionati dallo slogan “Chiunque, ma non Bibi”. In realtà lui stesso si è trasformato in una specie di ossessionato, di “posseduto” che stringe in una morsa un intero Paese impotente e quasi apatico dinanzi al suo egoismo aggressivo, alla sua corruzione. Un Paese che per anni, risucchiato nel vortice di Bibi, si è occupato di lui, della sua famiglia, dei suoi capi d’imputazione. È come se, intorno a noi, ci fossero mille specchi e tutti riflettessero l’immagine di Netanyahu e, quando li guardiamo, vediamo lui, non noi. Ma poiché vorremmo tornare a rivedere il nostro riflesso, poiché siamo preoccupati per Israele e abbiamo la sensazione che il miracolo che lo ha creato e la solidarietà che lo ha mantenuto saldo stiano svanendo, manifestiamo ogni settimana davanti alla residenza ufficiale del premier a Gerusalemme, davanti alla sua casa a Cesarea e su 315 ponti e crocevia in tutto il Paese.

E continueremo a farlo. Continueremo a gridare, a urlare: Bibi vattene! Esci dalle nostre vite, vai per la tua strada e lasciaci ricostruire sulle macerie che ti lasci alle spalle. L’intera società israeliana ha bisogno di riprendersi da un lungo periodo in cui ha smarrito il buonsenso. Vorrei potessimo tornare ad apprendere alcuni principi fondamentali: l’essere diversi gli uni dagli altri senza odiarci, l’avere opinioni contrastanti senza manifestare malignità, l’essere capaci di spegnere l’ostilità e il sospetto che si accendono nei nostri occhi quando guardiamo chi (i nostri fratelli, sangue del nostro sangue) la pensa diversamente da noi.

Sarà un processo lungo e complicato perché il guasto è già filtrato nelle pieghe più recondite di Israele. Ma una cosa è chiara: non potremo iniziare questo processo di guarigione fintanto che Netanyahu rimarrà al potere. Lui non porrà rimedio a nulla. Anzi. Un’eventuale prosecuzione del suo governo pregiudicherebbe la possibilità di un risanamento e condannerebbe Israele a un ulteriore deterioramento. Anche l’ipotesi di un provvedimento di interdizione temporanea dalla carica di primo ministro evoca un tipo di interdizione più profondo intrinseco in Netanyahu: lui non è in grado di risanare laddove Israele ne ha più bisogno. Semplicemente non lo è. Chi gli è stato vicino testimonia che non presta mai ascolto. È distaccato dalla realtà e vive, a tutti gli effetti, in uno spazio in cui esistono soltanto lui e i suoi interessi. Esternamente può mostrare – od ostentare con fantastica abilità – potere, aggressività, sicurezza di sé e una sorta di compassionevole e paterna preoccupazione per i suoi sudditi. Senza dubbio gli piace considerarsi un “padre della nazione”. Ma è un padre manipolatore, cinico, sfruttatore e utilitarista.

No, nonostante tutti i suoi sforzi è impossibile percepire in Netanyahu qualità taumaturgiche, terapeutiche. A dire il vero non è nemmeno possibile percepire in lui un sentimento di autentica compassione per i bistrattati israeliani che lui stesso, con il suo operato e i suoi fallimenti, ha fatto precipitare nella situazione in cui si trovano. Perciò, ormai da tempo, non è più questione di “Sì Bibi” o “No Bibi”. È una lotta contro il disfacimento, a favore di una riparazione. Contro la malattia, a favore di un risanamento. Contro la disperazione, a favore della speranza. E in questa lotta ognuno deciderà quale posizione prendere. Buon anno nuovo.

Traduzione di Alessandra Shomroni

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