Chi era Yigal Amir? Il suo ritratto in una storia che indaga l’animo umano. E che in ebraico è intitolata Yamim Noraim, in riferimento ai giorni dell’introspezione che separano Rosh Hashanà e Kippur
Si dice che in Israele non si può mai stare da soli e in un certo senso questo è molto vero. Ai tassisti bastano poche informazioni generiche sul passeggero per elargire consigli di vita, uno sconosciuto sul treno ti spiegherà perché non capisci niente di politica dopo aver adocchiato il giornale che stai leggendo, il cassiere del supermercato commenterà i prodotti che compri e ti chiederà se sei proprio convinto perché lui ne avrebbe scelti altri. Naturalmente, questi sono esempi caratteristici di una società particolare, ma è vero a tutte le latitudini che non siamo mai soli. Le nostre azioni, le nostre decisioni, i nostri pensieri, difficilmente sono il frutto di un processo compiuto nell’isolamento, sono di solito il risultato di interazioni, suggerimenti, impulsi che in modo attivo o passivo accogliamo e facciamo nostri. Fino a dove si può spingere questa dinamica?
Sembra essere questo il nodo di Incitement, l’ultimo film di Yaron Zilberman che il 22 settembre si è aggiudicato il premio Ophir (il cosiddetto “Oscar israeliano” assegnato dall’Accademia Israeliana del Cinema e della TV) ed è perciò stato selezionato per rappresentare Israele nella sezione Miglior Film Straniero alla prossima notte degli Oscar. Presentato per la prima volta in agosto al Festival Internazionale del Cinema di Toronto, il film racconta il processo che culminò nell’assassinio del premier Yizhak Rabin (4 novembre 1995)
dalla prospettiva di chi lo commise, lo studente venticinquenne Yigal Amir.
La prima cosa interessante del film è il doppio titolo. Perché se in inglese è Incitement, in ebraico è Yamim Noraim, proprio come il periodo di dieci giorni tra Rosh Hashanà e Yom Kippur. Un periodo che chiama all’introspezione, all’indagine dell’anima, proprio come quella – spiega il regista in questa intervista – che Israele non ha mai fatto completamente riguardo quegli accadimenti. Zilberman chiarisce le ragioni del doppio titolo. Yamim Noraim in inglese non avrebbe funzionato: non sarebbe stato possibile conservare questo riferimento così forte alla tradizione ebraica, tanto più che nessuna traduzione rende giustizia all’espressione. Quella letterale, “Giorni Terribili” smarrisce il senso di solennità del periodo che di per sé non ha una connotazione unicamente negativa. E così si è pensato a Incitement: una scelta, precisa il regista, appropriata e contemporanea, perché interroga anche e soprattutto le nostre società.
Il film – arricchito da materiale filmico originale sugli accordi di Oslo – è ambientato nell’anno che precede l’assassinio e segue il processo di radicalizzazione di Amir. È la sua storia, ma anche la storia di molti altri. Degli ambienti, delle amicizie, degli esempi di vita all’interno dei quali i suoi propositi sono maturati. Dei poster che ritraevano Rabin con la svastica e del pensiero che ucciderlo fosse un compito religioso, una via per onorare la Torah. Una storia sulle divisioni della società, sul ruolo degli influencer su una personalità fragile e alla ricerca di un’opportunità di riscatto: famiglia yemenita, nella vita nulla di regalato, una fidanzata, Nava, che lo lascia dopo pochi mesi per uno dei suoi amici (e lo invita pure al matrimonio) a causa del suo non essere ashkenazita.
L’epifania di Amir (interpretato da Yehuda Nahari Halevi) ha luogo, racconta il regista, nella scena in cui assiste al funerale di Baruch Goldstein, l’estremista che il 25 febbraio 1994 aprì il fuoco sui musulmani raccolti in preghiera Alla Tomba dei Patriarchi a Hebron, uccidendone 29 e ferendone 150. Nel momento in cui il feretro viene sollevato, Amir pensa che anche lui, forse, potrebbe essere un eroe, anche per lui può esserci la possibilità di contare, di liberarsi del peso dell’insignificanza. Un’operazione non priva di rischi, quella compiuta da Zilberman. Raccontare la storia dal punto di vista dell’assassino inevitabilmente apre se non una porta, almeno uno spiraglio all’empatia. E forse proprio qui sta la questione: nessuna chiamata all’indulgenza o alla giustificazione, ma una “indagine dell’anima” collettiva, seria e profonda come il periodo degli Yamim Noraim richiede: come si diventa Yigal Amir?
Il candidato Dem richiama il suo costante sostegno ad Israele, l’opposizione al movimento di boicottaggio e il sostegno agli aiuti militari. Una approfondita analisi e un confronto con l’approccio di Donald Trump nei confronti di Gerusalemme
Per certuni, sarebbe un coltello da infilare in un pano di burro, tanto è facile l’obiettivo; per altri, molti altri – invece – rimane qualcosa a cui aggrapparsi, a rischio di negare la medesima evidenza. Si dirà che sono opinioni e, come tali, discutibili a prescindere. Ma ci sono opinioni che si sorreggono sulle mere credenze (le “speranze”, tali poiché prescindono dalla realtà, rivelando infine la loro natura illusoria); così come ci sono opinioni, che tali rimangono, tuttavia ancorate ad un qualche dato di fatto.
Veniamo al dunque. Nei giorni trascorsi, per meglio intenderci durante un comizio in Wisconsin, Donald Trump, dinanzi alla platea degli astanti, ha candidamente affermato che lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è il risultato non solo di un intendimento suo proprio ma soprattutto della risposta alle pressioni derivanti da una parte del suo elettorato, quello di origine e radice cristiano evangelica. Non ebraica, beninteso. E neanche «sionista», per ciò che tale aggettivazione possa a tutt’oggi significare. Per inciso, il Jerusalem Embassy Act (JEA) – una legge approvata dal Congresso statunitense nell’ottobre del 1995, a grande maggioranza (93 voti su 100 a favore al Senato; 317 su 435 alla Camera), divenuta poi atto con valore esecutivo nel mese di novembre dello stesso anno, con la quale si riconosce Gerusalemme come città indivisa e capitale d’Israele – andrebbe quindi riletto, nella sua applicazione, alla luce di una tale concessione. Non ad Israele bensì ad un segmento di elettori statunitensi. Quello che più fa chiasso e rumore. Ancora una volta: non gli ebrei, ma i militanti dei gruppi di «rinascita» evangelicale, i «rebirth» che sono parte dell’ossatura ideologica di un’America non tanto conservatrice quanto suprematista.
Per essere chiari, ricapitolando, poiché la premessa è nota ai più, va rammentato che Gerusalemme è la capitale d’Israele ma, per una significativa parte della comunità internazionale, non è riconosciuta come tale. Quanto meno, non prima di un’adeguata negoziazione del «final status» del conflitto tra israeliani e palestinesi. Che è tutta a venire. La questione, quindi, rimane aperta, altrimenti essendo ritenuta «scelta unilaterale». Di fatto, le presidenze Clinton, Bush ed Obama, di volta in volta hanno richiamato ed applicato l’opzione del rinvio dell’adempimento alla norma in ragione degli interessi di «sicurezza nazionale». Solo con Donald Trump, nell’estate del 2017, si è iniziato a procedere nei fatti, arrivando al riconoscimento definitivo, il 6 dicembre di quell’anno, di Gerusalemme come capitale dello Stato ebraico e, quindi, come legittima sede della maggiore rappresentanza diplomatica di Washington. Peraltro, anche a questa ultima manifestazione di volontà, sono seguiti passi non del tutto certi e incontrovertibili. Sta di fatto che, all’interno di questa cornice, è risaputo e riconosciuto il vivido sostegno dei cristiani evangelici rispetto ad una tale soluzione. In tutta plausibilità, maggiore di quella degli stessi ebrei americani. Poiché i primi ritengono che la cristianità possa pienamente realizzarsi solo se gli ebrei torneranno alla loro terra di origine.
Cosa c’entra tutto ciò con le elezioni presidenziali a venire?La convention democratica di Milwakee (qualcuno ricorda forse «Happy Days?») ha tributato a JosephRobinette Biden Jr, detto «Joe», la nomination per sfidare, alle elezioni di novembre, Donald John Trump. Non è stata un’incoronazione, beninteso, bensì un’investitura meditata. Biden, benché conosca a fondo i meccanismi del potere federale americano, partecipandovi da circa cinquant’anni, non è il candidato ideale per i democratici. Si tratta, per diversi aspetti, di una figura di retrofila, anche se non di retroguardia. Semplicemente, ad oggi è il meno peggio. Il problema non è neanche il suo modesto profilo (il quale, non è detto che, alla fine, non giochi a suo favore), la sua mancanza di appeal, il suo essere da sempre nelle “seconde linee” del suo partito, ma la drammatica mancanza di idee innovative tra i democratici.
Non è un suo esclusivo problema, trattandosi semmai di una condizione che è letteralmente trasversale all’intero sistema politico. In America come nel resto del pianeta. Vale quindi anche per i repubblicani ed – immediato riflesso – per i cosiddetti «indipendenti» così, come tanto più, per le ali radicali. Le quali, rifacendosi alla nozione di «identità» come indice esclusivo dell’agire politico, tanto involontariamente quanto paradossalmente, rendono omaggio (e quindi rafforzano) i sovranismi e i populismi di varia risma. Poiché questi ultimi si alimentano del declino delle società intese come cornici di una cittadinanza diffusa, sostituendo ad esse – invece – le appartenenze di gruppo. Non quelle repubblicane, costituzionali e così via bensì le dimensioni particolariste. In politica, non si vince facendo la sommatoria delle identità, come se esse da sé costituissero, infine, una maggioranza, ma cercando di dare di volta in volta corpo e forma a quest’ultima. Che va ricreata daccapo, poiché il fuoco della grande trasformazione che stiamo vivendo è proprio la disarticolazione della Middle Class. Oltreoceano come nel «vecchio Continente».
Dopo di che, conviene tornare alle elezioni americane. Biden ha ricevuto il sostegno convinto della Obama Family, che ha sostituito, negli equilibri dei democratici, quella più aristocratica e autoreferenziale dei Clinton. Non è un caso. In quanto Biden da sempre è visto come il “vice”. Non solo da quando tale carica occupò per davvero nei fatti, in ben due mandati, tra la fine del 2009 e il 20 gennaio 2017. Ma a tutt’oggi. In quanto Obama ha una chiara intenzione, ossia di tornare alla presidenza per la successiva tornata, nel 2024. Per suo diretto tramite o per quello della moglie Michelle. Da tempo, infatti, si adopera sia per allargare la sua base di consenso tra democratici in crisi di identità (tra i repubblicani, forse, le cose sono ancora peggio messe), sia per rettificare unba parte degli errori commessi durante il suo mandato: la fallimentare politica di concessioni nei confronti dell’Iran e di una parte del mondo islamico, che si disinteressa, oramai, di Washington, confidando semmai su Mosca e quant’altri; la deludente applicazione della grande riforma sanitaria, che è pesata soprattutto su un ceto medio in recessione, premiando di meno gli ipotetici destinatari e molto di più il vorace circuito assicurativo; l’attenzione per le issues legate alle identità civili (“ciò che io ritengo di essere”) ma non alla complessa trama dell’integrazione sociale (“ciò che io ritengo di potere effettivamente possedere”, ovvero le risorse materiali), hanno consegnato al suo bizzarro ed eclettico avversario Trump un vantaggio competitivo. Obama, che da tempo – dopo il pit stop di quattro anni – si è candidato a rappresentare nei tempi a venire la metà della grande mela elettorale statunitense, quella per l’appunto democratica, ci sta pensando e si allena ai bordi. Auspicabilmente, per non commettere gli errori del passato. Per il momento, tuttavia, tocca a quello che è stato a lungo il suo vice. Nel ticket Biden-Harris, adesso alla ribalta, se non avverrà una catastrofe elettorale, tuttavia molto di più dipenderà dalla seconda. Biden, infatti, non è un Mosè che divide le acque, giocando contro di sé, tra le altre cose, l’età. Ma non solo. Kamala Harris, invece, morde i freni, avendo assestato un uppercut alla potente Elisabeth Warren e silenziosamente pensando a liquidare quel pezzo di aristocrazia democratica che ruota intorno alla generazione degli ottuagenari, a partire dalla speaker della Camera Nancy Pelosy. Il tempo dirà se tali prospettive abbiano un qualche legittimo fondamento o siano solo illusioni di una tarda estate. Non per questo Biden, va ripetuto, è un “pupazzo” oppure un candidato privo di autonomia. Più semplicemente, se non esprimerà un profilo autonomo (qualora dovesse essere eletto, quando avrà terminato il suo mandato – lo ripetiamo – sarà ultraottantenne), verrà letteralmente risucchiato da un mondo che sta cambiando.
Detto questo, qual è l’atteggiamento – e con esso il programma – dei democratici riguardo ad Israele? Lo riprendiamo nei suoi passaggi di fondo. Il primo punto è cheil presidente Trump ha reso Israele meno sicuro e ha indebolito le relazioni USA-Israele». Ad egli, infatti, oltre ad una retorica denunciata come non solo inconcludente ma anche deleteria, si contesta la volontà di non volere arrivare ad una reale soluzione del conflitto con i palestinesi sulla base del principio «due Stati per due popoli». Mentre i democratici, con Obama, si sono impegnati per un sostegno economico e militare di sostanza (valutato in 38 miliardi di dollari, a partire dai programmi missilistici di difesa, a partire dal 2016, per dieci anni complessivi di investimenti), Trump si sarebbe limitato a gesti di forma, retoricamente enfatici, più di immagine che non di sostanza. In altre parole, tale condotta avrebbe risposto maggiormante a calcoli di circostanza che non di reale intenzione. Risultando infine controproducente. A tale riguardo, l’amministrazione Trump, ritirando il contingente americano dalla Siria alla fine del 2019, non solo avrebbe abbandonato i curdi al loro destino ma, lasciando un vuoto di potere a favore dell’Iran, ne avrebbe favorito le manovre al confine settentrionale di Israele.</pre>
Il piano di pace Kushner, lanciato dall’attuale Amministrazione con grande enfasi nei mesi scorsi, sarebbe da sempre una sorta di lettera morta, incoraggiando piuttosto l’annessione unilaterale di una parte dei territori della Cisgiordania (con un grave nocumento per le future trattative, altrimenti sostenute dalle precedenti presidenze, a prescindere dal colore politico). A fronte di ciò, Biden richiama, tra gli altri, il suo costante sostegno ad Israele (Paese nel quale si recò, per la prima volta, nel 1973); il suo ruolo chiave, quand’era vicepresidente, nel garantire ad Israele la necessaria sicurezza; la sua opposizione al movimento di boicottaggio, disinvestimento e a favore delle sanzioni (BDS) nonché il sostegno agli aiuti militari al Paese (a partire dal programma Iron Dome e dai programmi antimissilistici); il rifiuto nel dare corso ad atti unilaterali, destinati altrimenti a pregiudicare le trattative di pace; il sostegno alla ripresa degli aiuti statunitensi all’Autorità nazionale palestinese, tuttavia in linea rigorosa con il Taylor Force Act (che vincola gli aiuti americani alle autorità palestinesi in base al loro esplicito rifiuto del terrorismo e del ricorso alla violenza contro i civili israeliani); l’azione anti-iraniana, aprendo al piano d’azione globale congiunto (JCPOA, il Joint Comprehensive Plan of Action) contro la nuclearizzazione di Teheran. A ciò si aggiunge l’accusa, sempre rivolta a Trump, di avere vellicato, quanto meno implicitamente, l’antisemitismo presente negli ambienti suprematisti, che non hanno mai disdegnato di manifestare un qualche sostegno all’Amministrazione uscente.
Il programma di Biden, al netto dei prevedibili auspici su una proficua collaborazione bilaterale tra Washington e Gerusalemme («Israele manterrà sempre il suo vantaggio militare qualitativo»; «sostenere il fondamentale partenariato economico e tecnologico tra gli Stati Uniti e Israele, espandere ulteriormente la collaborazione scientifica e aumentare le opportunità commerciali ed alimentare la cooperazione sull’innovazione in tutta la regione»), auspica la ripresa di contatti e, in prospettiva, di negoziazioni, tra quest’ultima e Ramallah. Una tale prospettiva, scarsamente accreditata dal governo Netanyahu-Gantz, è la premessa per esercitare un lungo affondo contro il «taglio distruttivo dei rapporti diplomatici con l’Autorità nazionale plestinese» attribuito a Trump. Poiché, aggiunge il programma democratico, gli Stati Uniti non possono derogare dal loro ruolo di mediazione.
Ciò che l’attuale presidente andrebbe facendo, quindi, non è nell’interesse di Gerusalemme ma per esclusivo calcolo di parte. La propria. Al riguardo, viene ribadito che: «le azioni di Trump hanno ostacolato le prospettive di una soluzione a due Stati. Il piano di pace era morto in origine, nonostante fosse stato pubblicizzato dalla Casa Bianca come “l’accordo del secolo”, ovvero una soluzione alle sfide di Israele. L’Amministrazione ha proposto un piano che è stato concepito senza alcun contributo da parte dei palestinesi ed è stato respinto all’unanimità dalla Lega araba. Il piano di Trump ha reso [quindi] più sfuggente una soluzione negoziata a due Stati del conflitto israelo-palestinese, codificando misure estreme come l’annessione e il trasferimento della cittadinanza araba. Se Israele annettesse unilateralmente ampie aree della Cisgiordania, come previsto nel piano di Trump, metterebbe definitivamente in discussione il suo futuro come Stato sia democratico che ebraico». A tale riguardo, «la proposta di Trump ha scatenato grandi proteste in Giordania, mettendo a repentaglio la stabilità di un alleato regionale già fragile ma cruciale. L’annuncio di Netanyahu che avrebbe annesso la Cisgiordania e la Valle del Giordano ha anche messo a rischio un accordo di pace di lunga data tra Israele e Giordania, vitale per la sicurezza di Israele». In buona sostanza, «il fallimento dell’amministrazione Trump nell’opporsi all’annessione mette in discussione il suo impegno per la sopravvivenza di Israele come stato ebraico e democratico». Un altro punto è quello per cui «le politiche di Trump stanno rendendo il Medio Oriente più pericoloso per Israele». La vocazione “isolazionista” sta lasciando varchi aperti all’Iran, ad Hezbollah, ai gruppi sovversivi e terroristici presenti in Siria. Bisognerà quindi considerare ogni passo in base alla geopolitica russa, turca e iraniana. In quest’ultimo caso, «il ritiro di Trump dall’accordo con l’Iran, mentre quest’ultimo era ancora in regola, ha danneggiato la credibilità degli Stati Uniti, ci ha alienati dai nostri alleati, ha aumentato la probabilità che l’Iran stesso potesse acquisire armi nucleari e ci ha lasciato con meno strumenti per contrastare Teheran. La cosiddetta pressione che l’Amministrazione ha esercitato sull’Iran non ha quindi cambiato in meglio il comportamento delle sue classi dirigenti».
A fronte di ciò, «Trump ha alimentato l’ascesa dell’antisemitismo e del nazionalismo bianco». Seguono una serie di affermazioni per cui<b> «</b>l’81% degli ebrei americani è maggiormente preoccupato per l’antisemitismo da quando Donald Trump è diventato presidente. Secondo un altro sondaggio, il 68% degli elettori ebrei si sentirebbe meno sicuro di due anni fa e il 71% degli ebrei disapproverebbe il modo in cui il presidente ha gestito la questione dell’antisemitismo». A rinforzo di ciò, «Trump ha ripetutamente fatto osservazioni antisemite nei confronti degli ebrei americani, tra cui l’accusarli di essere “sleali” nei confronti di Israele votando per i democratici, dicendo [inoltre] che “non amano abbastanza Israele” e suggerendo che i suoi sostenitori ebrei votino per lui solo per proteggere la loro ricchezza. La campagna presidenziale di Trump ha adottato stereotipi antisemiti […]. Nell’ottobre del 2018, Trump ha promosso una teoria del complotto antisemita su Twitter. Trump ha accusato gli ebrei di doppia lealtà al White House Hanukkah Party del 2018 e nell’aprile 2019 a Las Vegas. Trump ha affermato, nell’agosto 2019, che gli ebrei americani che votano democratico […] sono ignoranti o “sleali”. Quando gli è stato chiesto di chiarire, ha detto che intendeva “sleali verso Israele”. Nel dicembre 2019 Trump ha nuovamente invocato paradigmi antisemiti sulla doppia lealtà e l’avarizia, ebraica che i gruppi ebraici hanno [poi] denunciato. Trump ha emesso un ordine esecutivo sull’antisemitismo quattro giorni dopo aver formulato osservazioni antisemite che molti gruppi ebraici hanno denunciato in quanto tali». In ultimo, «i nazionalisti bianchi e i neonazisti sostengono e sono incoraggiati da Trump, [mentre] lui peggiora le cose rifiutandosi di condannarli chiaramente». La dura sequela di condanne prosegue, seguendo quattro binari principali: la politica democratica contro l’Iran; la necessità di trovare, in campo palestinese, un interlocutore credibile, anche nell’interesse di Gerusalemme; la condanna dell’antisemitismo e del razzismo («Trump non unisce, semmai divide»); la rivendicazione, nella tradizione democratica, di una netta e prevalente posizione a favore degli ebrei.</pre>
Non è plausibile che l’esito del confronto tra Biden e Trump si giochi solo su questi piani. L’elettore americano, infatti, è preoccupato soprattutto dagli effetti economici della pandemia. Si intende poco, se non nulla, delle questioni internazionali. Il Medio Oriente, per molte famiglie, è soprattutto il luogo in cui uno dei loro figli è andato a fare una corvée militare. Così come la considerazione nei confronti degli ebrei segue spesso andamenti molto differenziati a seconda delle contee e degli Stati presi in considerazione. L’antisemitismo, non a caso, è maggiormente diffuso in ambito rurale, a tratti appartenendo quasi ad una sorta di “deep tradition”. Il punto è che per Trump una parte non secondaria dei consensi arriva proprio da quell’America profonda, ancora perlopiù Wasp (White Anglo-Saxon Protestant), ma non solo, che fatica sempre di più a stare dietro al vortice dei cambiamenti in atto. Su come una tale carta verrà giocata dai democratici, fortemente ancorati anche al voto metropolitano, ce lo dirà a breve, tra le altre cose, la tornata elettorale che si sta approssimando.
Tutti ruoli delle parti in gioco in un’approfondita analisi di Claudio Vercelli
Torinese del 1964, è uno storico contemporaneista di relazioni internazionali, saggista e giornalista. Specializzato nello studio della Shoah e del negazionismo (suo il libro Il negazionismo. Storia di una menzogna), è esperto di storia dello stato di Israele e del conflitto arabo-israeliano.
Non si sono fatti la guerra direttamente ma da sempre condividevano un’ostile separazione. Sputi a distanza, per intendersi. Israele ed Emirati Arabi Uniti, con la mediazione di Washington, stanno invece ora per firmare un accordo di pace che porterà, a breve, all’auspicata normalizzazione dei rapporti diplomatici e politici. Per chi conosce le dinamiche del Medio Oriente non è per nulla una sorpresa poiché già da alcuni anni era in corso un lento ma inesorabile processo di avvicinamento tra i paesi sunniti del Golfo e Gerusalemme.
Rimane il fatto che nel momento in cui verrà definitivamente siglato un trattato che si lascerà alle spalle quello che è stato (così anche quello che non è stato, benché avrebbe potuto essere, nel qual caso a beneficio di tutti), senza scomodare enfatiche espressioni come «svolta epocale», tuttavia si potrà dire che si è voltata una importante pagina in un libro che altrimenti continua ad essere scritto con un inchiostro incolore su pagine oramai incollate tra di loro. I
Termini enfatici, dettati anche dal calcolo politico interno alle proprie amministrazioni, non difettano. «L’inizio di una nuova era», ha dichiarato il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che, in tutta probabilità, si prepara ad un orizzonte di inedite conflittualità politiche interne ad Israele e, forse anche, ad un nuovo passaggio elettorale, a partire dal tardo autunno. Un primo passo verso nuovi accordi con altri paesi arabi, ha evidenziato il Presidente Usa Donald Trump, definendo l’intesa come un «enorme successo». Suo, si intende. È buona cosa lasciare sedimentare gli entusiasmi per poi, a cose maturate, capire fino a quale punto ci si possa spingere nel dire qualcosa piuttosto che altro. Afferma il brogliaccio diplomatico dell’amministrazione Trump, e viene ripetuto dalle prime dichiarazioni congiunte, che «le delegazioni di Israele e degli Emirati Arabi Uniti si incontreranno nelle prossime settimane per firmare accordi bilaterali riguardanti gli investimenti, il turismo, i voli diretti, la sicurezza, le telecomunicazioni, la tecnologia, l’energia, l’assistenza sanitaria, la cultura, l’ambiente, la creazione di ambasciate e altre aree di reciproco vantaggio».
Verosimilmente, se nulla di catastrofico nel mentre interverrà, le cose dovrebbero andare in una direzione destinata ad essere irreversibile. In cambio della formalizzazione dei rapporti diplomatici, economici e commerciali, Israele si è impegnata a sospendere il piano di annessione di parte della Cisgiordania, annunciato – tra molti distinguo e critiche anche in casa propria – qualche settimana fa dal Premier israeliano Benjamin Netanyahu. Quest’ultima notizia, invero, è accreditata soprattutto da parte araba, poiché sul versante israeliano non si può dire la medesima cosa. Ciò che probabilmente ne deriverà è invece un’anestetizzazione del processo di omologazione e incorporazione di una parte della Cisgiordania allo Stato d’Israele. Difficile comunque pensare che una volpe come Netanyahu non ci avesse già pensato, al netto delle propagande incrociate. Il premier, nonché leader del Likud, non crede alla necessità storica di incrementare le dimensioni geografiche del suo Paese come precondizione per garantirne un futuro prospero.
Mentre sa che esso sempre più spesso sarà giocato sul versante della capacità di giocare la parte dell’ago della bilancia nei conflitti in corso nel Medio Oriente e nel Mediterraneo: l’escalation tra Grecia e Turchia sul controllo dei giganteschi depositi di gas naturale e metano; il destino dei territori frammentati e feudalizzati della Siria, dell’Iraq e della Libia (aree di influenza, all’interno di società nelle quali la statualità novecentesca è tramontata per sempre); la feroce contrapposizione tra «asse sunnita» del Golfo e componenti sciite. Netanyahu, per parte sua, ha una carta fondamentale da giocarsi: non ha mai creduto, contrariamente ai suoi oppositori interni, che si debba esistere in quanto “amati” bensì poiché temuti. Anche per questo, in tutta plausibilità, potrebbe incassare da sé l’assegno in bianco che gli deriverà da un tale accordo: dopo l’Egitto (1979) di Begin e la Giordania (1994) di Rabin, adesso potrebbero arrivare i «principi», gli «sceriffi», le dinastie – in una parola i maggiorenti – sunniti. Per una controparte apparentemente non così importante, non almeno per lui, ossia quegli insediamenti ebraici invisi non solo a buona parte della politica internazionale ma anche da significativi segmenti dell’elettorato nazionale israeliano. Netanyahu non li odia e neanche li ama. Semplicemente, si chiede quanto possano servirgli. Per preservare se stesso. Non è cinico: è un politico formatosi alla scuola degli Stati Uniti.
Peraltro, l’interesse comune di Israele e degli Emirati è il doppio fronte sia anti-sciita che avverso al radicalismo sunnita, laddove quest’ultimo si manifesti. Entrambi vogliono contenere l’espansionismo degli odiosi ayatollah iraniani e, allo stesso tempo, fermare il virus islamista dei Fratelli musulmani diffuso da Qatar e Turchia in tutto il Medio Oriente, dal Golfo fino a Gaza con Hamas ed anche in Egitto. Senza contare Hezbollah, protagonista ma anche subalterno al declino libanese. Insomma, la scena si è troppo movimentata per non entrare in gioco. Il principe ereditario degli Emirati Arabi Uniti Mohammed Bin Zayad ha non a caso affermato che «nel corso di una conversazione telefonica con il presidente Trump e il premier Netanyahu è stato raggiunto un accordo per fermare ulteriori annessioni di territorio palestinese. Gli Emirati e Israele hanno convenuto di cooperare e di stabilire una road map per l’istituzione di relazioni bilaterali». Sembra una foglia di fico. In franchezza, risulta difficile pensare che per gli emiratini il destino dei palestinesi stia alla sommità delle loro preoccupazioni. Anche perché la progressiva normalizzazione delle relazioni con il mondo sunnita – ci vorranno comunque molti anni – potrebbe suonare come una campana a morto per Ramallah.
Semmai, per meglio intendere il quadro corrente, bisogna chiedersi quali siano i veri interessi della monarchie del Golfo. Giacché, proprio ciò ci dice che, oltre all’avversione rispetto al pericoloso interventismo di Teheran, entra in gioco la contesa con la Turchia e il Qatar per l’egemonia sul fronte sunnita. Forse il fuoco odierno delle tensioni si alimenta nella Libia divisa tra fazioni, dove la leva residua per gli americani (e gli Emirati) è il generale Haftar (di contro al premier Serraj, sostenuto anche dall’Italia). Ma è solo un frammento di scenario, beninteso. Non di meno, Netanyahu, che conosce benissimo l’area composita dei suoi sostenitori, non ha alcun interesse ad accreditare, secondare e vidimare le posizioni più radicali, quelle che vorrebbero cancellare, con un tratto di penna e un’azione di forza, la controparte palestinese. Non avrebbe nulla da guadagnarci, beninteso. Poiché «Re Bibi» domina la politica israeliana da almeno venticinque anni in quanto capace di dosare l’identitarismo e il sovranismo della destra più radicalizzata con le istanze di mediazione che qualsivoglia azione politica necessariamente implica. Sempre e comunque. A meno che non si cerchi la miccia di una nuova Sarajevo, come nel 1914. Cosa del tutto estranea a Washington al pari di Gerusalemme. Poiché ciò che Donald e Bibi condividono è la consapevolezza che la guerra si farà comunque, ma non come di prassi, usando l’esercito di terra e di aria, bensì l’economia digitale e tutto ciò che si trascina con essa. Si tratta di un differenziale profondo, nonché nettamente marcato, rispetto alla precedente presidenza interventista di George W. Bush (giudicata severamente da Trump, ricambiato in ciò dall’ostilità di buona parte degli ambienti dei cosiddetti «neocons», contrastati a loro volta dall’alt-right populista). Netanyahu, per parte sua, ha capito che la vecchia destra likudista e nazionalista non solo è sfiancata bensì anacronistica. Le reazioni secche di molti likudnikim, a partire dal presidente Reuven Rivlin, rivelano di un tale divorzio da tempo. Da almeno due anni in qua.
Non è questione, quindi, di tessere le lodi del primo ministro israeliano o di descriverlo come un manipolatore. Semmai, è necessario capire per quale ragione la sua leadership esprima una così lunga durata, ovvero su quali binari riesca comunque a rigenerarsi, spesso al pari di un’araba fenice. Il premier israeliano, che da sempre può gettare sul tavolo della discussione la carta di «mister sicurezza», oltre a rassicurare i suoi connazionali, si rivela capace di coalizzare contro il nemico di sempre (ossia, dal 1979, con la rovinosa caduta dello Scià, l’Iran teocratico, quello che parla della politica mondiale come di una sorta di continua Armageddon), un connubio tra risorse economiche del Golfo (meridionale nonché sunnita), interventismo (residuo) statunitense ed eccellenza tecno-securitaria nazionaledi Gerusalemme.
Inutile aggiungere che un Trump, altrimenti affaticato dalla pandemia e dalle difficoltà economiche in casa, si giochi questo risultato, peraltro silenziosamente perseguito da tempo, al netto dello stesso piano di Jared Kushner su un definitivo accordo tra Gerusalemme e Ramallah, per accreditarsi rispetto ad una parte dell’elettorato nelle elezioni presidenziali di novembre. Il codice che il presidente uscente userà, per convincere i suoi potenziali elettori, non sarà quello del nuovo interventismo americano (che aborre, al pari di quanti credono in lui) ma della sua “persuasività” così come dell’arrendevolezza altrui (qualcosa del tipo: «Politics as a business», la melodia che molti dei suoi elettori meglio intendono). Tradotto in parole povere: “noi, americani, garantiamo ai nostri interlocutori le migliori condizioni di accordo; sta poi a loro usarle a proprio beneficio”. Plausibile, quindi, che la firma di un qualche trattato formale tra Gerusalemme e Abu Dhabi possa verificarsi prima della data delle presidenziali americane. Trump ha stracciato la politica di appeasement di Obama (e in parte dell’Unione Europea) con l’Iran. Guarda con belluina determinazione ad Erdogan, Putin e alla Cina di XI Jinping. Anche per questo continua a piacere a certuni. Fuori di Washington, si intende.
Quanto ai palestinesi, per l’ennesima volta emerge la scarsa rilevanza del loro futuro rispetto ai pur precari equilibri che sono venuti definendosi dal 2000 ad oggi. Il fatto che una parte della loro bulimica e inamovibile leadership abbia reagito denunciando un «tradimento dei nostri fratelli arabi», semmai conferma questo stato di cose. Lo stesso Egitto di al Sisi non nasconde la sua mitigata soddisfazione per la configurazione che si va definendo del quadro regionale. Il Cairo ha bisogno del sostegno di Gerusalemme. Non si tratta di un destino «cinico e baro» ma, più semplicemente, della differenza tra il fare politica e il pensare che basti dichiarare di volerla fare per ottenere un qualche risultato premiante.
Stefano Jesurum , Setirot, pubblicato in Attualità il 20/08/2020
Nello speciale dell’ultimo numero di Pagine Ebraiche Daniela Gross segnala la mostra “Hannah Arendt and the Twentieth Century” (curata dalla filosofa Monica Boll; fino al 18 ottobre al Deutsches Historisches Museum di Berlino). Punto focale è il poco conosciuto talento fotografico della grande intellettuale, e la conseguente raccolta di scatti che documentano sentimenti, quotidianità, volti più o meno noti, frammenti di vita che scorrono per decenni, attimi felici, ritratti rubati, album estemporanei. Icona del ‘900, lei e le sue riflessioni sul totalitarismo, sul razzismo, e la fuga negli anni della persecuzione nazista, la complicata vita sentimentale, le amicizie con i Grandi… … e così sono andato a rileggere un libriccino che consiglio a chi ad Hannah Arendt abbia voglia di sentirsi un po’ più vicino. Eichmann. Dove inizia la notte, atto unico teatrale di Stefano Massini (Fandango Libri).
La rappresentazione di vittima e carnefice. Centoquattordici pagine dirompenti, fredde, viscerali, profondissime, razionali, emotive, piene e vuote di passione. Massini, un cantastorie che mi piace molto, con quegli occhi che sprigionano la durezza della bontà e la follia della ragionevolezza. Sul palcoscenico delle pagine ci sono solamente loro due, come li ricordiamo dai filmati del processo o dalle immagini di archivio. E le loro parole, incessanti, attanaglianti. «Il linguaggio, Herr Eichmann. Il linguaggio è lo specchio, sempre, di cosa sentiamo davvero. Ci pensi: la chiamavate “Soluzione Finale”. Non avevate il coraggio di dire “Massacro”. E il gas di Globočnik? Era un “Trattamento Speciale”». Ma poi, dice Hannah, «le grandi masse fanno così: scordano tutto, velocemente, in un attimo. E non per distrazione, no. Lo fanno perché condannare gli altri – condannarli davvero – è pericoloso: corriamo il rischio, prima o poi, di sbagliare tutti. E nessuno vuol essere fatto a pezzi». Ci vuole coraggio. Anzi, no, non il coraggio, la dignità. «Il coraggio in fondo è una cosa di un attimo», vero Herr Eichmann?, il coraggio «fa rumore, abbaglia. Ci senti sotto l’orchestra. Ecco, sì, il coraggio è cinema. Perfino un vigliacco può avere un attimo di coraggio, nella vita, e non cambia il fatto che era e resta un vigliacco. No. Più del coraggio è la dignità. Molto di più. Perché la dignità, se ce l’hai, ti resta incollata addosso, è parte di te». «Ognuno ha la sua idea di dignità: per lei, Hannah, è ribellarsi. Per me era rispettare gli ordini. Stiamo su due fronti opposti». Già, due fronti opposti. Ieri, oggi, domani. Così il dialogo immaginario tra l’SS-Obersturmbannführer Eichmann, esperto di questioni ebraiche, responsabile operativo della soluzione finale, organizzatore del traffico ferroviario per il trasporto dei deportati ai campi di sterminio (sfuggito al processo di Norimberga, scappato in Argentina, individuato e rapito dal Mossad, processato in Israele, condannato a morte per genocidio e crimini contro l’umanità) e la giornalista politologa filosofa Hannah Arendt (suo il resoconto del processo ad Eichmann per il New Yorker, poi diventato il saggio La banalità del male), ci interroga senza un attimo di tregua. Si è appena concluso il processo. Siamo nel 1961. E oggi con la Arendt noi cerchiamo, grazie a Massini, dove comincia e perché comincia il male. «Ci sarà un momento, preciso, in cui prende forma. O no? Deve esserci. Tutto ha un inizio. Quell’attimo impercettibile in cui si passa dal nulla al qualcosa. È questo che cerco io, da lei». Anche oggi, no? C’è qualcosa di talmente… stupido nel male. «Sì: stupido. E guardi che non parlo delle coincidenze. Dico che il male si nutre di paura. Ne ha bisogno. Voi eravate fieri che la gente tremasse, anche solo a vedere una divisa. Portavate i teschi coi coltelli incisi nei distintivi. La paura, certo, la paura. Eppure, a sentirvi parlare, è così chiaro che ad avere paura eravate per primi voi». La paura. Non ci dice qualcosa? Herr Eichmann si indigna: «Non mi pagavano». «Oh sì. La pagavano con un verbo essere: “Sono un SS”. Dare a qualcuno un verbo essere è una buona forma di stipendio».
Il nodo dell’identità. Corriere della sera 2 agosto 2020
Lorenzo Cremonesi intervista Yael Tamir
“Appartengo alla generazione cresciuta con le canzoni di John Lennon. Avevo 17 anni nel ’71 quando ascoltai per la prima volta Imagine e come tanti giovani occidentali m’innamorai subito del sogno, anzi dell’utopia, di un mondo aperto e pacifico. Lennon e Yoko Ono forgiarono il nostro immaginario con la loro Nutopia, uno Stato senza confini. Bene, oggi non esito a sostenere che fu un’utopia sbagliata, una fantasia pericolosa. Un mondo senza frontiere non è affatto un mondo ideale: non può essere né democratico, né giusto. E comunque quell’utopia è stata cancellata in pochissimo tempo dopo l’esplodere della pandemia del Coronavirus. In un pugno di giorni sono stati chiusi i confini, è stato sospeso il trattato di Schengen. Per garantire la vita dei loro cittadini anche le democrazie hanno sbarrato le frontiere». Attivista della sinistra israeliana da quando era liceale, paladina dei diritti civili e della nascita di uno Stato palestinese, fondatrice nel 1978 con un pugno di compagni del movimento Pace Adesso contro l’occupazione di Cisgiordania e Gaza, quindi deputata e ministra laburista sino al 2020, oggi docente universitaria, Yael Tamir non smentisce nulla del suo passato. «Rimango una convinta laburista, anche se non esisto a definirmi una liberale nazionalista. Credo che le élite della sinistra illuminata e cosmopolita abbiano commesso gravi errori e nei miei lavori accademici studio le radici e gli sviluppi del nazionalismo», spiega a «la Lettura», presentando il suo Le ragioni del nazionalismo (Bocconi).
Tra gli argomenti che cita per criticare
l’illusione cosmopolita, ci ricorda che solo il 3,3 per cento della popolazione
mondiale vive in un Paese diverso da quello di nascita. Ma come replica a chi
ci ammonisce in Europa sui disastri provocati dal nazionalismo, responsabile di
due terribili guerre mondiali? «Certo,
temo gli estremismi e il nazionalismo xenofobo. Amo sempre ricordare gli
insegnamenti di Isaiah Berlin, mio tutor al dottorato di Oxford tanti anni fa
ormai, che spesso parlava della necessità di relativizzare le proprie
convinzioni. Il modo in cui le si sostiene differenzia il civilizzato dal
barbaro. Una volta sottolineati i pericoli del nazionalismo estremo, io miro a
porre l’accento su quelli altrettanto gravi del distacco tra le classi
dirigenti illuminate ma sradicate, individualiste, prive del senso di
solidarietà sociale per i propri concittadini, e invece gli strati meno
abbienti della popolazione, che si sentono traditi, abbandonati e tendono a
votare per i partiti populisti. Theresa May, quando era premier britannica,
parlava non a torto di “cittadini del mondo che in realtà sono cittadini
di nessun luogo”. Individui che vanno a sciare a Cortina, al mare alle
Maldive e per i weekend a Parigi. Sono coloro che mandano i figli nelle grandi
scuole internazionali, dispongono delle ricchezze per farlo, e non sono toccati
dai problemi delle periferie urbane, dove i genitori non vogliono avere i
bambini dei migranti in classe con i loro figli. Tanto dove studiano i figli
dei cosmopoliti abbienti i migranti non ci sono. Un moderato nazionalismo
trasforma invece lo Stato in patria, dà forza e sostanza al Welfare State, crea
la solidarietà comunitaria, ci fa sentire tutti parte di una stessa casa. II
problema delle sinistre è che spesso non comprendono il bisogno dell’elettorato
popolare di vivere in una società dai confini chiari e sicuri. Ancora, lo ha
dimostrato il virus: solo nei nostri confini possiamo aiutarci gli uni con gli
altri nell’emergenza, sappiamo a chi dare e a chi prendere. La verità è che non
esiste un welfare globale».
Concorda con chi vorrebbe bloccare i
migranti? «Non ho detto questo. Dico che occorre
una chiara politica sulle migrazioni. Lo Stato deve controllare i flussi. La
scelta della composizione demografica di un Paese non può essere lasciata alle
organizzazioni non governative. La popolazione in genere teme le migrazioni non
controllate. I meno abbienti hanno paura degli stranieri, li vedono come
concorrenti in casa loro. Il dramma dei progressisti in Italia è stato che,
accecati dall’ideologia globalista, non hanno capito i bisogni e le paure più
elementari degli elettori».
I suoi argomenti non fanno il gioco
delle destre israeliane e dei coloni, che vorrebbero espellere i palestinesi?
In queste settimane il premier Benjamin Netanyahu cerca di mettere a punto
l’annessione di larga parte della Cisgiordania. Che ne pensa? «Contesto Netanyahu e chi lo sostiene. Non ho mai
cambiato idea dai tempi di Pace Adesso: sono per la soluzione dei due Stati,
uno accanto all’altro. E ciò non contrasta con le tesi dei miei libri. Noi
israeliani abbiamo bisogno di uno Stato sicuro e socialmente solidale e di
altrettanto necessitano i palestinesi. La pace sta nella divisione della terra,
assolutamente non nell’annessione. La considero un disastro per entrambi i
popoli».
Ma non crede sia troppo tardi? Di fatto
l’espanslone delle colonie ebraiche negli ultimi decenni ha reso impossibile la
spartizione. «Certo, ogni giorno che passa rende le
cose sempre più difficili. Ma la situazione è reversibile, penosa, eppure la
terra può ancora venire divisa. Non ci sono altre vie che abbiano senso e non
comportino tragedie. L’alternativa sarebbe comunque peggio: uno stato continuo
di tensione, guerriglia e addirittura guerra a bassa intensità, con picchi di
violenza molto gravi. Sarebbe come la ex Jugoslavia negli anni Novanta».
Nel libro cita la famosa frase di
Massimo D’Azeglio, per cui, fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani. Una
dinamica del nostro Risorgimento a cui guardava anche il movimento sionista
delle origini e poi alla nascita di Israele nel 1948. Che cosa altro individua
di positivo nel nazionalismo moderato?
«I due Risorgimenti hanno avuto dinamiche simili e i sionisti guardavano con
ammirazione all’esempio italiano. Nel nazionalismo si trovano l’amore per la
storia e per la natura del luogo in cui si vive, il senso di appartenenza
individuale che coincide con quello collettivo. Ogni volta che vengo in Italia
resto stupefatta da come voi valorizzate il vostro passato: si vede nelle
statue, nelle piazze, nei palazzi, nelle targhe delle vie, di fronte alle
fontane, nelle basiliche. Il vostro rispetto reciproco è stato encomiabile
durante la fase di massima crisi del virus. Oltretutto, il nazionalismo aiuta a
dare un senso alla propria esistenza in un mondo secolarizzato. Prevale l’idea
che, dopo la nostra morte, la patria, la collettività a cui siamo appartenuti,
continuerà a vivere. La nostra esistenza non sarà stata vana».
Pubblichiamo una serie di interventi originati dalla segnalazione di Vittorio Pavoncello in merito al film Nabka 72 , trovato per caso sulla cineteca del movimento operaio e che si può vedere sul link https://www.aamod.it/2020/05/13/nakba-72/
Da Vittorio Pavoncello con il contributo di Gabriele Eschenazi e Luciano Belli Paci
Al Direttore Vincenzo Maria Vita
Ci
sono molti modi di vedere il conflitto israelo-palestinese, questi modi possono
essere neutrali, o di parte e per parte dobbiamo intendere una visione del
problema più orientata verso Israele o più orientata verso i palestinesi. Tutto
ciò è giusto oltre che legittimo. Diverso è il caso dove una visione di parte
viene supportata da menzogne, non da fake news che sono altra cosa, ma da
menzogne vere e proprie, ed è questo il caso del film NAKBA 72 di
Monica Maurer regista e documentarista tedesca, membro del consiglio direttivo
dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio di Roma.
Monica
Maurer può rielaborare tutto ciò che vuole e sembra che questa sia una sua
tecnica costante se dobbiamo far fede ad una intervista che ha rilasciato a
Invicta Palestina dove narra dei suoi esordi da Film Maker: “Lavoravo
nell’archivio, usando i vecchi film per creare dei fillers, montavo nuovi
filmati utilizzando materiale d’epoca”. Questa tecnica di rielaborazione libera
in termini estetici può essere un modo per creare, ma se si è un artista di
regime le proprie opere diventano pura propaganda. Ed è quanto accade con il
suo film NAKBA 72 “riempito” di propaganda antisemita e non di storia del
conflitto israelo-palestinese e che ricorda molto da vicino il film nazista Der
Ewige jude (L’ebreo eterno).
Nel
filmato si descrive inopinatamente l’immigrazione ebraica come un progetto di
“pulizia etnica” facendo in questo caso davvero “pulizia della storia” così
come è stata raccontata da diversi libri sull’argomento redatti da ricercatori
anche critici, ma capaci di suffragare le proprie tesi con fatti reali e
mantenendo equilibrio di giudizio. Si parla dell’accoglienza dei profughi ebrei
espulsi dai paesi arabi e depredati di tutto come “importazione” quasi si
trattasse di merci.
La
prima guerra del 1948 è raccontata in modo fantasioso omettendo che ben 5 Stati
(Egitto, Siria, Libano, Transgiordania e Iraq) attaccarono l’appena proclamato
Stato d’Israele proponendo, loro sì, una totale pulizia etnica
(“buttiamo a mare gli ebrei” era la loro parola d’ordine) e realizzandola di
fatto in tutti i territori sotto il loro controllo. Quel progetto di
sterminio non si realizzò solo perché furono sconfitti. Lo stato di
Palestina non poté nascere perché il territorio assegnato dall’ONU ai
palestinesi e rimasto in mani arabe venne annesso, parte dalla Giordania e
parte dall’Egitto.
Il
video nell’ipotizzare un complotto ebraico/sionista ai danni dei palestinesi
rimanda direttamente ai Protocolli dei savi di Sion.
Come militanti
dell’associazioneSinistra per Israele, da sempre paladina
della soluzione “Due popoli per due stati” ci meravigliamo di come questo
filmato possa essere proposto nell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio
di Roma lasciando intendere che l’Archivio sposi le tesi esposte nel video. Non
possiamo pensare che sia questo l’intento dell’Archivio, che certamente ha ben
presente quale sia il valore dell’esistenza di uno stato ebraico riconosciuto
dalle Nazioni Unite.
Il
conflitto israelo-arabo-palestinese ha una storia lunga e complessa dove torti
e ragioni si sovrappongono e confondono. Una soluzione fino ad oggi non è
arrivata nonostante a volte sia sembrata anche piuttosto vicina. Estremisti da
una parte e dall’altra hanno impedito che avvenisse una riconciliazione e la
fine degli spargimenti di sangue. Non possiamo cessare di sperare e lottare
affinché una soluzione alla fine si trovi. Ma questo non potrà avvenire
seminando odio, risentimento e demonizzazioni nei mezzi di
comunicazione. Nelle società israeliana e palestinese non mancano forze che
operano per il dialogo e il rispetto reciproco. Noi le sosteniamo e così
dovrebbe fare anche l’Archivio del Movimento Operaio di Roma evitando di
proporre ai suoi visitatori video come NAKBA72.
Riportiamo qui l’importante contributo di Bruno Segre al nostro dibattito
Sono uscito d’ospedale cinque giorni fa, il 15 luglio, dopo sei settimane di degenza, per ritrovarmi subito immerso nel mondo della comunicazione pubblica e nel clima pesante del Kulturkampf che Donald Trump sta da anni spargendo ovunque. Nel particolare, ho preso visione del film Nakba 72 – Aamod e ho letto il testo scritto da Vittorio e poi rielaborato da Gabriele. Di quest’ultimo condivido tutto, comprese le virgole e gli spazi vuoti. Faccio invece più fatica a consentire con Vittorio che, “capitato per caso” nel catalogo dell’archivio del movimento operaio e dell’audiovisivo, vi trova “con sorpresa” il manufatto antisemita realizzato nel 2018 da Monica Maurer. Sull’intera vicenda e sul seguito SpI che poi ne è nato, desidero proporre qualche considerazione.
– Nel corso dei miei novant’anni non ricordo d’avere mai visionato un documento di propaganda “filopalestinese” altrettanto sgangherato, controproducente, poco credibile sino al limite dell’imbarazzante. Persino nella scelta del materiale iconografico la sedicente “documentarista” tedesca ne ha combinata una più del diavolo: secondo lei, quando nel maggio 1948 Israele “scatenò la sua premeditata aggressione” contro l’Egitto, il Libano , la Transgiordania eccetera, gli aerei “degli ebrei” − guardateli bene − erano degli Stukas! Ma nel confezionare il suo capolavoro, da chi si è mai fatta ispirare la Maurer? dal Mossad? – Gli unici “utenti” ai quali un documento di questo tipo può dare soddisfazione sono coloro che criticano Israele perché già animati da inguaribile giudeofobia (non tutti i critici di Israele, dunque), e più in generale gli antisemiti tout court. – L’antisemitismo è una malattia dalle radici antichissime, che purtroppo l’universo cristianizzato si porta dentro sin dai tempi degli imperatori Costantino e Teodosio, e che in forma palese e/o sotterranea continuerà, temo, a circolare ancora fra i nipoti dei nostri nipoti. Per cancellare gli effetti di quasi duemila anni di demonizzazione non sono sufficienti una Shoah o un Concilio Vaticano II. Gli antisemiti sono ancora abbondantemente presenti fra di noi: antisemiti di destra, di centro e di sinistra. In vita mia ne ho incontrati molti e, personalmente, ho imparato a farmene una ragione. – Mentre non credo, in buona sostanza, che la visione di Nakba 72 – Aamod possa portare a un significativo aumento del numero degli antisemiti già normalmente circolanti, temo che neppure l’eccellente testo di Gabriele abbia la virtù di convincere qualche antisemita a lasciar cadere il pregiudizio e a cambiare idea. – Che cos’è e che cosa rappresenta questa cineteca del movimento operaio nel cui archivio giace Nakba 72 – Aamod? È vero, noi di SpI siamo piccoli, abbiamo scarsa visibilità e poca voce, ma ho la netta sensazione che la citata cineteca sia ancora meno visibile di noi. Insomma, mi domando se valga la pena che spendiamo preziose energie per segnalare al nostro modestissimo pubblico l’esistenza di una simile inesistenza. – Infine, sul tema “Sinistra-Israele” propongo un’ultima considerazione, o meglio, sollevo un’ultima pesante domanda. Qualcuno di voi riesce ancora a vedere “qualcosa di sinistra” in ciò che si muove nel complesso garbuglio vicino-orientale? L’intero Israele, come ben sappiamo, è in mano a un ampio ventaglio di destre, secolari e religiose, ma altrettanto può dirsi dei palestinesi (Olp e Hamas) e dei diversi Stati arabi e musulmani con i quali i governanti di Israele stanno facendo affari e stanno progettando le future carte geopolitiche della regione. Qui, allora, la questione di fondo non sarà più quella di “difendere Israele dagli antisemiti di sinistra”, come nei decenni scorsi, ma sarà quella di spingere la sinistra − in Israele, nel Vicino Oriente e nel più grande mondo − a ritrovare se stessa. Non sarà che, per caso, dovremo cambiare denominazione e chiamarci “Sinistra per la Sinistra”?
Bruno Segre
Riportiamo infine l’interessante contributo di Enrico Fink
Mi permetto di intervenire anche se sono da sempre quasi
del tutto assente dalla vita attiva di questo gruppo; più un “lurker”, come si
dice, che altro, ma un lurker che segue e legge sempre avidamente tutto quanto.
La polemica che vedo fiorire in questi giorni un po’ mi
rincuora perché mostra ancora una volta quanto questi temi siano urgenti per
molti di noi, ma anche ovviamente mi preoccupa. Ho avuto qualche settimana fa
anche una brutta esperienza sul sito facebook “progressisti per israele”
che colgo l’occasione per chiedere, è gestito da SPI? Non ci entro, ma anche lì
ho notato un astio e un modo di relazionarsi che mi inquieta.
Trovo interessanti e costruttivi tutti gli interventi e
le varie bozze proposte, ma manca ancora secondo me l’espressione chiara di ciò
che ci distingue da i vari IC tanto presenti sul web. Ed è importante forse
dirselo oggi, che ci ritroviamo spaccati e rancorosi, importante ricordarsi chi
siamo, anche al di là dell’intervento nei confronti dell’archivio in questione.
Mi spiego. Non basta dire, come pur bene scrive Gabriele,
che stare dalla parte dei palestinesi o di Israele sono entrambi posizioni
giuste e legittime. Bisogna dire che se abbracciate correttamente e
onestamente, le due cause sono una. Nella mia esperienza di discussione
pubblica sui nostri temi, ho sempre trovato vincente far capire alla parte
“avversa” che, in questo caso, avevano di fronte qualcuno di non nemico, ma
potenzialmente alleato. Quello che ci caratterizza come “sinistra per Israele”,
al di là delle amare considerazioni che qui abbiamo tutti letto, è che tutti
quanti crediamo che – praticabilli i due popoli due stati o meno, per adesso –
non ci sia comunque prospettiva positiva possibile per una parte se non anche
per l’altra, contemporaneamente. Che, per quanto faccia sorridere oggi dirlo,
non si possa veramente e onestamente essere filopalestinesi senza al contempo
essere anche filoisraeliani, e viceversa. Nel vero senso di quelle parole. È
chiaro che è un discorso utopistico, ma è ciò che ci motiva e ci rende non solo
diversi, ma necessari. Se ci rivolgiamo a un ente di sinistra, io do per
scontato che gli ideali che lo animano sono, potenzialmente, anche i nostri; ma
stanno sbagliando metodo, visione politica, strategia. Questo gli dovremmo spiegare.
Caro archivio del mondo operaio, siamo ANCHE NOI dalla parte dei palestinesi,
oltre che degli israeliani. Ma voi, siete sicuri che perdurare in una critica
violenta becera e “sgangherata”, per citare Bruno, sia una strada che porta da
qualche parte? Non vedete che condannate voi stessi e chi vi segue
all’abbraccio mortale con chi in realtà desidera l’annientamento dell’altro?
Con la destra, alla fin fine? Da voi, che siete sensibili alla causa dei
palestinesi, pretendiamo intelligenza politica, onestà intellettuale, perché la
vostra causa lo merita. Ne abbiamo bisogno tutti. Falsità come quelle della
Maurer sono un contributo negativo a qualunque prospettiva di pace. Venite
dalla nostra parte, compagni, e abbracciate la complessità del tema Israele/Palestina.
Se chi come voi appoggia il movimento palestinese non farà questo sforzo,
sarete complici di chi mantiene da decenni la situazione così com’è, e specula
sulla pelle dei palestinesi ai quali vi rivolgete. Noi già da tempo siamo fra
quelli che, fra chi ama Israele, rifiutano soluzioni unilaterali e aggressive.
Siamo piccoli, quasi inesistenti, ma ancora oggi non si vede una soluzione di
pace che non passi per una visione come la nostra. Abbiamo bisogno di voi.
Questo secondo me il messaggio che dovremmo cercare di
portare in situazioni come queste. Questo il senso del nostro agire. Non ci
spacchiamo lungo linee di polemica e divisione personale.
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