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Le Meretz, Barak et Shaffir annoncent une fusion aux prochaines élections

Par Raoul Wootliff et Times of Israel Staff 25 juillet 2019

Le président du Meretz, Nitzan Horowitz, sera à la tête de cette liste électorale de gauche, suivi de Shaffir ; Barak s’empare de la place numéro 10, à son souhait

Le parti de gauche Meretz s’associera à Ehud Barak, ancien Premier ministre, et à Stav Shaffir, qui a récemment quitté le Parti travailliste, dans une course commune pour les élections de septembre, ont annoncé les trois partenaires jeudi matin.

Nitzan Horowitz, dirigeant nouvellement élu du Meretz, figurera en tête de liste, suivi de Shaffir.

En dépit de sa place plutôt basse sur la liste, des sources du Parti démocrate israélien ont confirmé au Times of Israël que Barak aurait la garantie de pouvoir choisir le premier un poste ministériel si l’union, nommée le Camp des démocrates, entrait au gouvernement.

La plupart des dix premières places de la liste – hormis Horowitz, Shaffir et Barak – seront données à des législateurs du Meretz. Les places 7 et 9 seront réservées à des membres du Parti démocrate israélien, qui doivent encore être nommés.

La présidente du parti Gesher, Orly Levy-Abekasis (à gauche), et le président du Parti travailliste, Amir Peretz, ont annoncé leur fusion aux élections de septembre, à Tel Aviv, le 18 juillet 2019. (Roy Alima / Flash90)

Shaffir, étoile montante du Parti travailliste, a critiqué avec véhémence ces derniers jours la décision du dirigeant du parti, Amir Peretz, de former une union avec un parti plus centriste, Gesher, en excluant toute fusion avec Meretz ou Barak. Un communiqué de la liste commune avec le Meretz indique que Shaffir a été une force unificatrice majeure dans les négociations.

La création d’un « ‘Camp démocrate’ est la première étape nécessaire dans la mission visant à remettre l’Etat d’Israël sur la bonne voie », ont déclaré les trois responsables dans un communiqué.

Une course commune évitera une situation dans laquelle les électeurs de gauche auraient été contraints de choisir entre le Parti travailliste, le Meretz et Barak – l’un d’eux serait potentiellement resté sous le seuil électoral de la Knesset, gaspillant ainsi des milliers de voix. Des militants avaient exhorté les partis à unir leurs forces afin de mettre à mal le Premier ministre Benjamin Netanyahu, qui a appelé à de nouvelles élections après avoir échoué à former une coalition en mai dernier.

L’annonce de cette union exercera probablement une certaine pression sur Peretz, qui a été pris pour cible par son camp et la gauche pour sa fusion avec la dirigeante de Gesher, Orly Levy-Abekasis.

Pendant plusieurs jours, Shaffir a critiqué Peretz pour avoir écarté une fusion avec d’autres partis, et laissé entendre qu’elle pourrait quitter le parti.

« Dans la situation actuelle, un parti ou même deux dans notre camp risquent de ne pas dépasser le seuil, a averti Shaffir. C’est tout simplement un danger pour ses précieux sièges que nous ne devons pas nous permettre de prendre. »

Mercredi, Itzik Shmuli, numéro 2 du Parti travailliste, a également critiqué Peretz pour son engagement, mais n’a pas précisé s’il quitterait ou non le parti.

Le Parti travailliste est en déclin depuis près de 20 ans. Son résultat aux dernières élections, où il a obtenu seulement six sièges, est le pire de ses 71 ans d’histoire.

Barak a été le dernier dirigeant travailliste à occuper le poste de Premier ministre, mais il s’est séparé du parti afin de rester dans une coalition avec le Likud de Netanyahu en 2011. Sa 10e place sur la liste remet à nouveau son avenir politique en question, et illustre son déclin politique depuis qu’ont été révélés ses liens avec le financier américain Jeffrey Epstein, accusés d’agressions sexuelles. Choisir lui-même la place de numéro 10 pourrait également calmer ses critiques, selon lesquelles il aurait repris la politique pour satisfaire son ego.

La population israélienne retournera aux urnes le 17 septembre, après l’échec de Netanyahu à former une coalition suite au dernier scrutin d’avril. Les partis de droite et de gauche explorent les possibilités de fusion afin de s’assurer de dépasser le seuil électoral de 3,75 %.

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‘My name is Sara’, la storia di una tredicenne ebrea parla ai ragazzi di oggi

ARIANNA FINOS 23 luglio 2019

Emozionante proiezione al Giffoni Film Festival del film che racconta la storia vera di Sara Goranik, ebrea polacca che, dopo aver visto la famiglia sterminata davanti agli occhi dai nazisti, fuggì in Ucraina e venne nascosta in una fattoria

Tra i film più applauditi in questo Giffoni edizione 49 c’è My name is Sara, storia vera di Sara Goranik, ebrea polacca che a 13 anni, dopo aver visto la famiglia sterminata davanti agli occhi dai nazisti, fuggì in Ucraina dove assunse l’identità di una amica cristiana, trovando ospitalità e lavoro in una fattoria. “La reazione dei giovani giurati al film, le loro domande profonde mi hanno commosso. I giovani sono il futuro, per questo è importante per noi essere qui. Ci sono tanti magnifici film sull’Olocausto ma noi volevamo portare una storia diversa, focalizzarci su nuove sfumature, parlare dei danni collaterali, le storie di chi è fuggito, si è nascosto, si è perso fuori dai campi di concentramento, ma anche il clima di sospetto e il deterioramento dei rapporti umani, qualcosa che per molti versi ricorda il presente”, racconta il regista esordiente Steven Oritt.

“Molti ragazzi si possono immedesimare in questa storia di una giovane che lotta per sopravvivere, possiede un solo vestito e un solo paio di scarpe. Ed è un magnifico esempio di come, se sei forte, puoi sopravvivere a qualunque cosa, come è riuscita a fare Sara”. “Se fosse viva mia madre avrebbe amato il film, avrebbe pensato che la sua storia poteva aiutare gli altri”, dice il produttore Mickey Shapiro, nonché figlio della vera protagonista della storia”. Tra le difficoltà più grandi c’è stata la ricostruzione d’epoca, il film è ambientato tra Polonia e Ucraina “l’autenticità era fondamentale, fin dall’inizio abbiamo coinvolto consulenti storici in Stati Uniti, Polonia, Ucraina. E ci siamo appoggiati alla USC Shoah Foundation (creata da Steven Spielberg ai tempi di Schlinder’s list), che ci ha dato un aiuto prezioso. La prima testimonianza di Sara l’ho vista alla Foundation, ero stupefatto dai dettagli che ricordava in modo vivido, la sua struttura di racconto era già quella di un film. Poi ovviamente il nostro non è un documentario, ci siamo presi libertà narrative pur essendo sostanzialmente fedeli alla storia”.

Molto del film poggia sulla bravura della protagonista, Zuzanna Surowy: “la ricerca dell’attrice è stata imponente. Quando ci siamo incontrati chiesi a Sara ‘come fa una ragazzina di tredici anni a sopravvivere in quelle condizioni?’ Lei mi ha risposto: ‘Ascoltando senza mai parlare’. Ho capito che dovevo cercare un’attrice che potesse calarsi così tanto nel trauma da andare avanti quasi con il pilota automatico, il pensiero fisso alla sopravvivenza. Ho visto una quarantina di attrici in America, erano giuste per età ma non ero convinto. Abbiamo riempito di volantini le città polacche, sono arrivate centinaia di ragazze. Visionando i provini mi sono imbattuto in Zuzanna, ricordo esattamente quel momento perché ho capito subito che era lei”. È andato in Polonia a conoscerla, sapendo che l’esperienza del set sarebbe stata dura: “sono rimasto conquistato: è seria, determinata, disciplinata, e sostenuta da una famiglia piena di amore. Anche se non ci sono campi di concentramento nel film, ho voluto portare Zuzanna ad Auschwitz per comprendere meglio il dramma dell’Olocausto”. La vera Sara non è mai voluta tornare in quel luogo, sarebbe stato troppo doloroso per lei. Ha sofferto a lungo di stress post traumatico, è scomparsa nel 2018, il ricordo più bello lo regala il figlio maggiore: “Prima che si ammalasse di demenza facemmo una serata in onore dei sopravvissuti, vennero Spielberg e tante star di Hollywood. Il sorriso meraviglioso di mia madre, la sua gioia di quel giorno sono l’immagine di lei che mi porto dentro”.

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La difesa postuma di Oriana Fallaci? Un inno al conformismo

di Stefano Jesurum 29giugno 2019

Con le idee che propugnava Oriana Fallaci (riposi in pace) si può essere molto, un po’, per niente d’accordo. Di fronte alla sua scrittura e alla sua professionalità di giornalista e scrittrice ci si deve inchinare e basta. Ma innalzare un peana del suo andare controcorrente a testa alta, del suo sfidare continuamente il conformismo, del suo essere ribelle davanti agli stereotipi correnti si può, se si vuole, anzi in questo caso si deve fare, ma rigorosamente swimming against the current.
Il nuotare controcorrente di skakesperiana memoria messo a incipit del pezzo per commemorare i novant’anni dalla nascita di Oriana dal professor Pasquale Hamel (gli Stati generali del 28/6/2019) suona però come un ossimoro, dal momento che è un monumento ai nuovi luoghi comuni del mainstream odierno.

Bene fece, ad esempio, la scrittrice a non accettare di indossare il velo per intervistare l’ayatollah Khomeini, però da qui a esaltarsi nel 2019 per la definizione di “stupido cencio del Medioevo”, bè, insomma, anche no. Ancora (sempre tenendo ben presente di quanti anni sono passati da quando Fallaci sentenziava “assoluti” che dopo nuove verità acquisite e analizzate più approfonditamente oggi sono per lo meno discutibili): la “rilassante vacuità del politically correct”, “intellettuali della sinistra radical chic che avevano”, dice Hamel, “l’arroganza di pensare che le proprie tesi non potevano essere messe in discussione”.

Non so come si ponga il professor Hamel di fronte alla deriva illiberale imboccata dal nostro paese. Certo è che l’Italia non è più quella conosciuta da Oriana Fallaci. Alla quale spero nessuno vorrà mettere in bocca neo sciocchezze tipo l’aggettivo buonista oppure imprecazioni razziste e fasciste come quelle urlate dal “popolo” di Lampedusa nei confronti della capitana Carola Rackete.

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La rebetsin Perele

Di Stefano Jesurum 4 luglio 2019

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Per chi come me si appassionò a Isaac B. Singer prima che vincesse il Nobel nel 1978, e sull’onda di quella passione intraprese la strada piena di meraviglie della letteratura yiddish, oggi la pubblicazione da parte di Giuntina de La moglie del rabbino di Chaim Grade è stata, giustappunto, l’ultima, ennesima meraviglia. Non soltanto perché la storia si dipana in maniera divertente e insieme profondissima tra intrighi familiari e di shtetl, intrighi che ruotano attorno a una donna di potere, la rebetsin Perele, moglie e madre perennemente delusa e incattivita, personaggio odioso e tuttavia ispiratore per taluni versi di ammirazione. Gradevolissima lettura quindi. Come dicevo, non solamente di evasione però.
Parola dopo parola, gesto dopo gesto, “sentire” dopo “sentire”, nella mirabile traduzione di Anna Linda Callow si coglie la sostanziale differenza (che Callow medesima ben ci spiega e erudisce nella postfazione) tra ultraortodossia chassidica di matrice sostanzialmente polacca (e dintorni) e haredismo (si può dire?, non so, ci provo) lituano. Più semplicemente: manca, anzi è osteggiato e criticato, l’aspetto mistico tanto presente nella più conosciuta letteratura yiddish mitteleuropea. Grade quindi grande cantore di una particolare fetta di Mondo Scomparso, la fetta cresciuta intorno a Vilna, Gerusalemme di Lituania, Yerushalaim de-Lita. Con le dovute differenze legate al passare del tempo, una atmosfera haredi lituana la si trova a B’ne Brak, grande sobborgo satellite di Tel Aviv o in precise zone di Gerusalemme, nulla a che vedere appunto con il chassidico Mea Shearim.
Dice bene Anna Linda quando sostiene che quello di Grade è un libro “che si può leggere in molti modi, non da ultimo per capire qualcosa, da un’angolazione diversa dal solito, di un settore importante e anche molto contestato dell’Israele odierna che, grazie soprattutto al suo sviluppo demografico, sta acquistando un’influenza crescente sulla società”. Il mondo dei grandi rabbini dai molti seguaci, dei giovani che studiano nelle yeshivot, delle dispute roventi su questioni politiche e/o di principio, dei religiosi sionisti e antisionisti, delle lotte per la successione alla guida delle varie comunità…

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Tra gli ortodossi d’Israele che ora dettano legge. E il Mossad li vuole 007

Di Davide Lerner 21 luglio 2019

Cappotto nero, rigidi rituali, sussidi: presto saranno il 30% della popolazione. Sempre più decisivi in politica, invisi ai laici: così cambiano il volto del Paese.

BNEI BRAK (Israele). «Tel Aviv è a dieci minuti da qui ma non ci metto piede, per carità, là le donne vanno in giro mezze nude. Chi si espone a quel mondo lì poi torna in yeshivà e non capisce più niente degli studi religiosi» dice Elad Kuper, ultraortodosso israeliano di 27 anni, passeggiando nell’enclave haredi di Bnei Brak.

Kuper abita con la moglie e i suoi primi tre figli (la media per gli ultraortodossi è di circa sette) in una stanza e mezza affittata in uno stabile sgangherato e circondato di spazzatura, vicino alla sovraffollata arteria di “Rabbi Akiva”. Vive del sussidio della yeshivà, la scuola religiosa, che ammonta a 2.000 shekel al mese (490 euro), in buona parte prelevati direttamente dalle casse dello stato. Studia di notte – «solo col buio si raggiunge la massima concentrazione secondo l’importante rabbino Shimon Bar Yochai» – e durante il giorno aiuta un vecchio per raggranellare qualche altro shekel.

Ma nella comunità ultraortodossa sono piuttosto le mogli che, non “obbligate” a studiare le scritture ininterrottamente, sono autorizzate a fare qualche lavoro: in molte, come la ventiquattrenne Avigail, moglie di Kuper, fanno le maestre a scuola o negli asili part-time. Agli sforzi del governo per cerare di spingere più ultraortodossi a integrarsi nella società “mondana” si è di recente aggiunto niente meno che il Mossad, l’agenzia di intelligence israeliana.

«Abbiamo cominciato ad assumere personale ultraortodosso dopo lunghi percorsi propedeutici specializzati», ha detto il direttore del Mossad Yossi Cohen all’inizio del mese, citando una collaborazione con la Ong Pardes che si pone l’obiettivo di conciliare la vita religiosa degli haredim con quella lavorativa, finanche nel settore della difesa.

Kuper è un caso particolare nella comunità ultraortodossa: è un hoser leteshuva’ (colui che ritorna alla chiamata), cioè ha vissuto da laico fino a circa vent’anni, compreso il servizio militare, prima di scegliere il lungo cappotto nero e il cappello a larghe tese dei religiosi.

Ma per i suoi figli la strada è segnata. Kuper scandisce: «Dai 3 ai 13 anni talmud torah, poi yeshivà fino al matrimonio, che verrà organizzato da un “shachdan” o agente matrimoniale e approvato dai genitori, poi continueranno a studiare al kollel, la scuola religiosa per uomini sposati. Qui le vite sono semplici, è tutto pre-ordinato: non bisogna mai prendere decisioni», dice. «Ovviamente useranno cellulari kasher, che possono fare solo telefonate. E quando a 18 anni arriverà lo “zav rishon”, la chiamata dall’esercito, ci faremo dare un certificato d’esenzione dalla yeshivà», spiega.

Proprio sul risentimento verso i super-religiosi, visti come parassiti che eludono il servizio militare e vivono di sussidi statali da molti israeliani, si sono incagliati i negoziati per formare il quinto governo del primo ministro Benjamin Netanyahu. Ed è probabile che la stessa impasse si riproponga dopo le nuove elezioni del prossimo settembre: Avigdor Lieberman, che ha impugnato la causa dei laici, ha già detto che non farà sconti per andare in coalizione coi religiosi. E, secondo recenti sondaggi della televisione israeliana, senza Lieberman Netanyahu, ancora una volta, non sarà in grado di formare un governo.

Secondo l’Ocse, entro pochi decenni la componente haredi della società israeliana (attualmente circa un milione) potrebbe raggiungere il 30 per cento della popolazione, con gravi conseguenze su economia e politica del Paese. «È fondamentale che vengano rivisti i curriculum delle scuole haredi inserendo materie più classiche, dalla matematica alle scienze all’inglese, se si vuole favorire la loro integrazione nel mercato del lavoro», ha detto Peter Jarrett dell’Ocse al giornale economico israeliano The Marker. «È una battaglia contro il tempo», ha aggiunto.

C’è anche chi, come il noto scrittore israeliano Yuval Noah Harari, autore del bestseller “Sapiens,” interpreta la questione degli ultra-ortodossi in chiave positiva. In un mondo in cui l’automazione rendesse i mestieri dell’uomo sempre meno utili, teorizza nel suo ultimo libro “21 lezioni per il XXI secolo” (Bompiani editore), le persone godranno di un reddito di cittadinanza e dovranno realizzarsi facendo a meno del lavoro. Ecco allora che gli ultraortodossi, secondo diverse ricerche appagati da una vita fatta di soli rituali, sarebbero un’avanguardia da imitare invece che una zavorra di cui disfarsi, relegandola al passato remoto. Ma, per ora, la preoccupazione principale in Israele rimane quella di come favorire una loro integrazione alla luce del crescente peso demografico ed elettorale.

Al contrario della minoranza araba, anch’essa poco emancipata nella società israeliana, le autorità religiose haredi mandano i propri discepoli a votare come soldati. «Sappiamo che avere peso politico conta parecchio, anche se la nostra società vive separata», spiega Kuper.

Per misurare il peso politico degli ultraortodossi basta prendere in mano le prime pagine goliardicamente distopiche dei giornali “haredi” all’alba dell’ultima consultazione elettorale: “Matrimoni civili in arrivo,” “Trasporti pubblici di Shabbat (sabato) nella maggior parte delle città del Paese,” e ancora “Coscrizione obbligatoria per tutti”. Nessuno di questi scenari, con 16 deputati ultra-ortodossi alla Knesset, si possono realizzare.



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ISRAELE-PALESTINA: COSA RESTA DEL “PATTO DEL SECOLO” DI TRUMP?

A cura di: Eugenio Dacrema, Associate Research Fellow, ISPI MENA Centre  ISPI – Istituto per gli Studi di Politica Internazionale 24 giugno2019

Il 25 e 26 giugno si terrà a Manama, in Bahrein, una conferenza economica che vedrà la presenza di rappresentanti di numerosi stati arabi, degli Stati Uniti e di Israele. Nella mente dei suoi ideatori – in primis il genero di Donald Trump Jared Kushner e l’inviato statunitense per il Medio Oriente Jason Greenblatt – questo incontro avrebbe dovuto rappresentare l’occasione per presentare gli aspetti economici del cosiddetto “Patto del Secolo” (Deal of the Century), ovvero il piano dell’amministrazione Trump per mettere fine al conflitto israelo-palestinese. Alcuni imprevisti hanno però ridimensionato le aspettative degli organizzatori, i quali nelle ultime settimane hanno cercato di riformularne il significato per evitarne il completo fallimento. Quali sono quindi i nuovi obiettivi che gli organizzatori si prefiggono? Chi vi parteciperà? E quanto verrà svelato sul “Patto del Secolo”? 

La verità è che, se non fosse per la pompa magna che ne ha accompagnato l’annuncio all’inizio dell’anno, quello che ci apprestiamo a vedere in Bahrein sarebbe uno di quegli eventi che anche gli osservatori abituali della regione tendono a segnalare come una semplice nota a margine. Questo perché la Conferenza di Manama è stata progressivamente ridimensionata dai suoi stessi ideatori – tanto che la sua definizione ufficiale è stata recentemente “degradata” da “conferenza” a “workshop” – a causa di alcuni imprevisti occorsi nell’ultimo mese. Il più grave è l’annuncio di nuove elezioni in Israele il prossimo 17 settembre, dopo il fallito tentativo del Premier in carica Benjamin Netanyahu di formare una maggioranza di governo in seguito alle consultazioni dello scorso aprile. Ciò ha comportato un nuovo rinvio della presentazione ufficiale del “Patto del Secolo” – inizialmente prevista questo mese – al prossimo autunno, quando un nuovo governo israeliano si sarà sperabilmente insediato. Come spiega Giuseppe Dentice in questo commentary, la Conferenza/Workshop di Manama, che doveva enucleare gli aspetti economici dell’accordo in concomitanza con la presentazione del Patto tout court, si è trovata quindi improvvisamente “azzoppata” della sua parte “politica”. A complicare le cose sono poi intervenute le resistenze di molti paesi arabi a partecipare a un incontro internazionale in presenza di una delegazione israeliana di alto livello. Per permettere una quanto più ampia adesione di stati arabi, quindi, è stato necessario ridurre il livello della partecipazione israeliana, la quale nei piani iniziali di Washington avrebbe dovuto includere lo stesso Premier Netanyahu. La delegazione in arrivo da Tel Aviv sarà quindi composta da uomini d’affari vicini al governo ma privi di cariche pubbliche rilevanti. Tutto ciò non è comunque servito a evitare il boicottaggio della conferenza da parte dell’Autorità Palestinese che, contraria fin da subito al piano Trump, è riuscita a mostrarsi compatta e a resistere alle pressioni statunitensi. In sostanza, quindi, la Conferenza annunciata in pompa magna pochi mesi fa assomiglia oggi più a un incontro preparatorio minore, in attesa che il Patto effettivo venga annunciato in autunno. 

Al fine di garantire che non si tratti di un completo flop, gli organizzatori della Conferenza dovranno trovare il modo di darle un significato di qualche rilievo, sia nel framework del piano di pace israelo-palestinese sia rispetto agli ultimi avvenimenti che hanno riguardato la regione, in particolare la recente crisi tra Stati Uniti e Iran nel Golfo Persico.

Per quanto riguarda la questione israelo-palestinese, è da aspettarsi che a Manama vengano comunque rivelati alcuni aspetti fondamentali del piano Trump, che ha nella parte economica un pilastro fondamentale. Dalle voci trapelate finora, infatti, la logica fondamentale sottesa al “Patto del Secolo” è proprio quella dello scambio tra la rinuncia ad alcune fondamentali rivendicazioni palestinesi – Gerusalemme capitale, ritiro israeliano dal Golan, diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi all’estero, formazione di uno stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza – in cambio di ingenti investimenti e aiuti economici a favore di uno stato palestinese solo semi-indipendente e limitato ad alcuni territori della Cisgiordania (forse sotto tutela congiunta israeliana a giordana) e verso i campi profughi palestinesi all’estero, i cui abitanti dovranno essere incorporati come cittadini negli stati che li ospitano. Secondo indiscrezioni, a Manama verranno promessi non meno di 50 miliardi di dollari in investimenti e aiuti, provenienti soprattutto dagli stati arabi del Golfo. In assenza di dettagli sui contenuti effettivi del piano Trump e di qualunque legittimazione del “Patto” da parte di qualunque rappresentante palestinese queste cifre rischiano però, con alta probabilità, di rimanere semplici numeri sulla carta con ben poche conseguenze concrete. La speranza di alcuni diplomatici americani, come Dennis Ross, è quindi che la discussione si concentri meno su piani di lungo termine e più sulle esigenze immediate dei palestinesi, le cui istituzioni e condizioni di vita sono allo stremo sia in Cisgiordania sia a Gaza.

L’incontro di Manama potrebbe però essere utilizzato da alcuni dei suoi più entusiasti partecipanti – ovvero Arabia Saudita ed Emirati, le due monarchie del Golfo più vicine a Israele e all’amministrazione Trump – anche per discutere della presenza iraniana nella regione. Non è un segreto infatti che il sostegno di queste nazioni al piano Trump – e la loro disponibilità a investirvi ingenti somme – sia soprattutto dovuta all’obiettivo di ricevere in cambio un attivo supporto statunitense contro Teheran

La Conferenza di Manama rischia quindi di essere un flop, quantomeno rispetto agli obiettivi originali per cui era stata ideata. Ma secondo voci sempre più insistenti, a rischio fallimento non vi è ormai solo il workshop economico in Bahrein, ma l’intero piano Trump, ovvero quel “Patto del Secolo” di cui si parla da oltre due anni. Dopo aver subito numerosi rinvii e impreviste resistenze anche da parte di stati arabi molto vicini a Washington, come la Giordania, il “Patto” ha ricevuto un nuovo colpo – forse questa volta mortale – dall’annuncio di nuove elezioni israeliane. Secondo l’ultima versione della scaletta di implementazione formulata dai suoi ideatori – primo fra tutti il genero del presidente americano Jared Kushner – la presentazione ufficiale del piano sarebbe dovuta arrivare questo mese, poco dopo la formazione del nuovo governo a Tel Aviv. Il fallimento di Netanyahu nella ricerca di una nuova maggioranza parlamentare ha fatto slittare l’annuncio almeno fino al prossimo autunno, periodo che però cade in concomitanza con l’inizio della campagna per le elezioni presidenziali del 2020 negli Stati Uniti. Secondo diverse voci circolanti negli ambienti diplomatici, la strategia emergente nella regione – soprattutto fra gli stati contrari come la Giordania e l’Egitto – sarebbe quella di smettere di contrastare il piano in modo diretto – dopo molti tentennamenti Giordania ed Egitto manderanno infatti una delegazione a Manama – e di aspettare che il “Patto del Secolo” muoia di “morte naturale” dopo l’estate. La stessa amministrazione americana sarebbe sempre più scettica sulle effettive possibilità di riuscita del piano e non sarebbe disposta a spenderci troppo capitale politico in piena campagna elettorale. Ad amplificare questa percezione da parte degli americani vi sarebbero anche gli atteggiamenti ambivalenti dimostrati da molti alleati arabi durante l’organizzazione della Conferenza di Manama. Mentre, infatti, durante incontri privati molti leader si sarebbero detti disposti a partecipare insieme a una delegazione israeliana di alto livello, gli stessi leader avrebbero poi rinnegato le proprie affermazioni nei loro annunci pubblici, sconvolgendo i piani americani. Ciò avrebbe dimostrato ai membri dell’amministrazione Trump l’evidente difficoltà, anche per i leader più vicini a Washington, di accettare pubblicamente un piano che azzera di fatto le principali storiche rivendicazioni del popolo palestinese. Scarso entusiasmo, inoltre, sarebbe stato dimostrato dallo stesso governo israeliano il quale, dopo aver incassato alcuni obiettivi cruciali come il riconoscimento statunitense di Gerusalemme capitale e della propria sovranità sul Golan, non sarebbe ora altrettanto entusiasta di accettare le seppur limitate concessioni previste dal “Patto del Secolo”. 

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