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L’innominabile Finkielkraut, aggredito perché ebreo, diventa “un signore anziano”

Stefano Jesurum 27 febbraio 2019

Tutto inizia il 15 maggio 2018 su Rai3, una puntata di “Quante storie”, il bel programma di Corrado Augias che attraverso i libri parla di attualità, politica e cultura. Il cuore della trasmissione è “Autobiografia del Novecento. Storia di una donna che ha attraversato la Storia” (il Saggiatore). L’autrice è Vera Pegna. Per me che sono ignorante una sconosciuta. Effettivamente una lacuna poiché Pegna ha alle spalle un’esistenza abbastanza speciale. Nata ad Alessandria d’Egitto in una famiglia – ci tiene spesso a specificarlo lei stessa – “di origine ebraica” (mai capito che cosa questa definizione, per altro usatissima, significhi), si laurea a Ginevra, milita nel Pci, consigliere comunale a Caccamo, successivamente Comitato Vietnam a Milano. Apprezzata interprete, gira per conferenze in mezzo mondo, Europa, Asia e Africa. Incontra il buddismo, poi il lungo viaggio verso Palermo per conoscere Danilo Dolci, il Gandhi siciliano. E il Pci, appunto, la lotta contro la mafia, l’approdo a Milano, l’impegno contro la guerra in Vietnam, la difesa della causa palestinese sotto il vessillo del laicismo. Quindi Roma, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Karol Wojtyla, moltissimi i personaggi di spicco che incontra. E racconta. Da laica (dice lei).

​Già da Augias però il suo “laicismo”, alle mie orecchie, suona qualche nota stonata, tipo l’ossessione che sovente si riscontra in quel campo radicale “difensore” della causa palestinese attraverso la criminalizzazione tout court di Israele – del suo popolo, della sua democrazia, della sua storia, della sua stessa esistenza. Insomma, per intenderci, ciò che ormai viene ufficialmente chiamato con il nome che merita: una forma di antisemitismo secondo la definizione coniata dall’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra) e adottata all’unanimità, tra gli altri, dai 28 paesi dell’Unione Europea. Fin qui – come dire? – niente di nuovo sotto il sole per chi, orgogliosamente ebreo e orgogliosamente di sinistra (chi scrive e molti altri), milita da decenni nel  campo della pace, per intenderci alla Amos Oz.

​Ma è il 18 febbraio di quest’anno che Vera Pegna, a mio avviso, fa un passo in più verso l’obnubilamento (cit. dizionari Corriere.it: Temporaneo ottundimento delle facoltà sensoriali o intellettive). In collegamento con la giornalista Sara Menafra che quel giorno conduce “Prima Pagina” di Rai Radio3 e si occupa dell’aggressione subita 24 ore prima a Parigi da Alain Finkielkraut per mano di un gruppo di Gilet gialli che lo assalgono al grido di «sporco ebreo, sporco sionista, viva la Palestina», Pegna non chiama mai il noto filosofo per nome – cosa che non farà per l’intero collegamento. «Quelle frasi rivolte a un signore anziano… è una cosa che non va bene comunque». E Finkielkraut, va rimarcato, rimane per i quasi sei minuti di sproloquio «un anziano signore». Tutto ciò non è antisemitismo. «Perché oggi il sionismo non è una cosa bella, è una cosa brutta, e si può dire sporco sionista». Ma il secondo passaggio “logico” – aberrante – è che «poiché Israele si vuole Stato ebraico, lo Stato di tutti gli ebrei del mondo, sporco sionismo si può dire, sarebbe come dire sporco Israele». Affermazione, per la signora Pegna, più che legittima evidentemente.

​Vabbè, dai!, su Israele se ne sentono tante, sai che novità. Onestamente una “novità” Vera Pegna ce la regala. Quando dice, o meglio chiede, qualcosa che definire vergognoso è poco. «Ciò che vorremmo noi europei è che vorremmo sentire chi si considera ebreo, sempre legittimamente, protestare, condannare Israele per le sue atrocità. Vorremmo sentire gli ebrei fuori da Israele dire “Israele è Israele, è il paese dei suoi cittadini, ma non è il nostro paese”, invece questo purtroppo non viene detto». Una versione 2019 dell’eterno “Davide discolpati!”. Chiedo scusa se sarò lungo: una esegesi di quell’intervento può spiegare ben più di mille saggi su pregiudizio, razzismo, antisemitismo diffusi. E con i tempi che corrono sono profondissimamente convinto che l’ammonimento contenuto nel bellissimo “Il bambino nella neve” di Wlodek Goldkorn (Feltrinelli) sia vitale, dirimente, imprescindibile: un tempo si portavano nelle miniere i canarini, sensibili ai gas avvertivano quando la catastrofe era imminente; memoria significa essere un canarino in miniera, dare l’allarme quando si sente l’acre odore del razzismo. Perché le parole di Vera Pegna interrogano chi si impegna affinché quell’acre odore di razzismo non infesti definitivamente la nostra quotidianità gialloverde.

​Per spiegarmi senza troppi giri di parole, io, per esempio, non mi considero ebreo, io sono ebreo. E così tutti gli ebrei al mondo sono ebrei, non si considerano tali: religiosi e atei, osservanti e laici, di destra e di sinistra, plaudenti o combattenti il governo Netanyahu. Pegna dice «noi europei vorremmo che…». Già, evidentemente il francese Finkielkraut non è europeo, così come non lo è l’italiano Stefano Jesurum. Il pensiero va così ai Treves e ai Sereni, ai fratelli Rosselli e a Primo Levi, a Bassani, ai moltissimi che hanno fatto la nostra cultura, la nostra società, il Risorgimento e la Guerra di Liberazione – da ebrei e da italiani. E non posso non (quasi) commuovermi andando con la memoria al 1988 o giù di lì quando per “l’Europeo” intervistai l’allora ministro degli Esteri del Pci, Giorgio Napolitano, che per la prima volta sentenziò «sionismo non è una parolaccia e sionista non è un insulto». Oggi invece Pegna ci chiede non tanto e non solamente una condanna di Israele in toto (non del governo, bensì dello Stato in sé) quanto una sorta di dissociazione identitaria. Chissà se la signora ricorda l’accusa di dual loyalty, doppia fedeltà cioè infedeltà appioppata agli ebrei durante il fascismo e/o negli anni più cupi dell’URSS – con le ben note conseguenze, lager e gulag. Insiste: «La parola antisemitismo, una parola terribile se legata al passato con tutti quei morti, oggi si è evoluta perché gli ebrei fuori da Israele non condannano Israele». Se la logica ha un senso dunque, se critichi la politica di Gerusalemme non puoi che essere antisionista e quindi non puoi che essere, “giustamente”, antisemita.

​Post scriptum. Nell’intero collegamento la conduttrice Sara Menafra (“Messaggero”, “Manifesto”, “Secolo XIX”, “Sole 24 Ore”, attualmente coordinatrice della redazione romana di “Open”), pure lei, non ha mai nominato Alain Finkielkraut. Praticamente non ha aperto bocca, complimenti.

Stefano Jesurum

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Setirot – Speranza

Stefano Jesurum Pubblicato in Idee il ‍‍07/03/2019 – 30 אדר

Sicurezza vuol dire periferie dove un ragazzo di 19 anni non abbia paura di essere colpito da un proiettile di pistola che gli segna la vita. Sicurezza significa dare il diritto a due ragazzi che si vogliono baciare perché si vogliono bene di non avere paura che qualcuno li insulti sull’autobus. Sicurezza vuol dire permettere a un ragazzo che vuole pregare Allah di poterlo fare senza sentirsi deriso. Sicurezza vuol dire per tanti ragazzi prendere l’autobus e andare a scuola con la kippà in testa e sentirsi felici e non vittime di insulti o di paure.
È uno dei passaggi che più mi sono piaciuti del discorso pronunciato da Nicola Zingaretti la sera in cui le primarie lo hanno eletto nuovo segretario del Partito democratico. Parole che – si sia piddini come me o no – dovrebbero essere condivise e auspicate da ogni cittadino in buona fede, se non razzista e fascista. Purtroppo temo che ci sarà chi inizierà – o forse lo ha già fatto – con i distinguo capziosi, con le lagne vittimistiche, con una sorta di sorda volontà di non cogliere mai il positivo bensì di incistarsi perennemente sul negativo. Debbo essere più chiaro? Prendiamo a esempio la grande manifestazione antirazzista di Milano. È stata semplicemente splendida, ha ridato speranza a un popolo che rischiava di rinchiudersi nella propria frustrante malinconia. Ha suonato la tromba del nuovo impegno per un futuro migliore del cupo e incattivito presente. Certo, in mezzo a 200mila donne e uomini, bambini, famiglie, anziani, ha sventolato qualche bandiera palestinese che non c’entrava veramente alcunché. Le ho viste solamente in fotografia, però giurerei che a portarle siano state quelle poche decine di persone che da anni hanno fatto dei diritti palestinesi la maschera del loro antisemitismo.
E allora dai! andiamo avanti. A forza di guardare il dito finiremo sennò col perderci lo spettacolo della luna. Noi che della speranza abbiamo fatto nei secoli la nostra forza – oltre che l’inno di Israele.

Stefano Jesurum, giornalista

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Setirot – Limiti

Stefano Jesurum Pubblicato in Idee il 14/03/2019 – 7 אדר ב’ 5779

Ma che cosa ci sta succedendo? C’è un limite? E qual è? Dove si fermerà l’asticella del consentito? In Eretz sono in piena campagna elettorale, ok, ok. I toni ovviamente si alzano, ok. Adesso però il Presidente Reuven Rivlin afferma che si rifiuta «di credere ci siano partiti politici che hanno abdicato al carattere di Israele come Stato ebraico e democratico, democratico ed ebraico»; ribadisce che «Israele riconosce la totale uguaglianza di diritti per tutti i suoi cittadini». Perché lo fa? Perché all’Università ebraica di Gerusalemme rilancia il monito che lo ha sempre contraddistinto, ovvero «non ci sono, e non ci saranno mai, cittadini di prima classe, come non ci sono elettori di seconda classe. Siamo tutti uguali nella cabina elettorale, ebrei e arabi, cittadini dello Stato di Israele»? La risposta non è un segreto. Si riferisce all’ultima sparata del premier Benjamin Netanyahu rivolta a chi la pensa diversamente da lui e dalla sua coalizione di estrema destra. Ha detto Bibi: «Vorrei chiarire un punto che, a quanto pare, non è chiaro a persone leggermente confuse. Israele è uno Stato ebraico e democratico. Questo significa che si tratta dello Stato nazionale del solo popolo ebraico. Naturalmente rispetta i diritti individuali di tutti i cittadini – ebrei e non ebrei. Ma è lo Stato nazionale, non di tutti i suoi cittadini, ma solo del popolo ebraico». Alla faccia della Dichiarazione d’Indipendenza. Sì, lo so, la nuova, contestatissima, legge. Però c’è un limite. Anche perché aggiungi e aggiungi nefandezze e aberrazioni e prima o poi si scoppia. Un esempio? Le nuove prove sul fatto che la Rabbanut israeliana chiede il test del DNA agli ebrei “sospetti” (perché provenienti dall’ex URSS – come se invece in millenni di storia non ci siano state, certamente e ovunque, “contaminazioni”). Siamo alla limpieza de sangre. Dove è il limite?

Stefano Jesurum, giornalista

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Lo storico e il giornalista, la battaglia per l’anima di Israele

20 Febbraio 2019

Benny Morris e Gideon Levy hanno idee opposte su palestinesi, pace e sicurezza: sono lo specchio perfetto del Paese spaccato che si prepara a votare il 9 aprile

di BERNARDO VALLI

GERUSALEMME – Molte famiglie, in Israele, hanno alle spalle un romanzo. Una vita avventurosa. Spesso tragica. Risali un paio di generazioni, o anche meno, nell’esistenza di amici o conoscenti e li scopri fratelli, figli, nipoti di vittime dello sterminio. Sono ormai rari gli scampati dai campi della morte. Ci sono anziani sradicati dai Paesi d’origine e giovani che non conoscono le terre da cui sono arrivati genitori o nonni. I temperamenti sono passionali. L’ansia dell’insicurezza è l’inconscia origine di posizioni difensive, ma anche di reazioni offensive.

Ed ecco il sabra, l’israeliano nato in Israele, soldato sicuro di sé, al quale Natalia Ginzburg preferiva il curvo abitante del ghetto, scandalizzando i suoi lettori di Tel Aviv. La letteratura e la storiografia israeliane percorrono questi sentimenti in opere tra le più avvincenti del nostro tempo, scritte in ebraico, una lingua antica rinnovata. Convinzioni, altrettanto antiche, animano una società tra le più tecnologicamente avanzate. Le contraddizioni non mancano: una democrazia dinamica, spigliata, la sola della regione, occupa militarmente terre in cui gli abitanti non hanno i diritti dei cittadini di Israele.

Questo è un filtro attraverso il quale seguire questo Paese unico al mondo, sicuro di sé, ma sensibile per le tante cicatrici. Una società che sa guardarsi senza infingimenti, con un dibattito politico animato, a volte spregiudicato, verbalmente violento, come sembra esigere lo stato di emergenza, psicologico, ma anche reale, in cui vive. A neppure due mesi da un’elezione (9 aprile) in larga parte dominata dall’inamovibile problema della sicurezza, uno storico, Benny Morris, e un editorialista del quotidiano Haaretz, Gideon Levy, animano una polemica su un problema essenziale: arabi e israeliani possono convivere e per quanto tempo Israele potrà esistere? E’ un interrogativo che può sollecitare il dubbio tra non pochi elettori.

Benny Morris è uno dei “nuovi storici” che non si sono rassegnati alla interpretazione ufficiale del passato, e l’hanno scavato in piena libertà, non risparmiandosi reciproche critiche. Lui, Morris, è stato uno dei bersagli preferiti dai colleghi. Ha avuto atteggiamenti giudicati progressisti quando ha rifiutato di fare il servizio militare nei Territori occupati per motivi morali e per questo è finito in prigione. Ma ha anche preso posizioni opposte quando ha sostenuto che lo Stato di Israele, appena creato, avrebbe dovuto favorire, sollecitare l’esodo totale dei palestinesi. I suoi scritti restano comunque indispensabili per ricostruire quel periodo. Oggi, a settant’anni, professore universitario, Benny Morris pensa (e dice) che col tempo una maggioranza araba sommergerà Israele. Prevede ripetute esplosioni di violenza, tra le popolazioni di diversa origine, grazie alle quali gli arabi saranno nelle condizioni di chiedere il ritorno dei profughi. Così gli ebrei saranno ridotti a una minoranza, come erano quando vivevano nei Paesi musulmani. Chi ne avrà i mezzi raggiungerà l’America o qualche Paese occidentale. Per Benny Morris i palestinesi vedono tutto in una prospettiva di lungo termine. Al momento osservano “cinque-sei-sette milioni di ebrei”, circondati da centinaia di milioni di arabi. “…che tra trenta o cinquant’anni ci sommergeranno”, conclude lo storico.

Gideon Levy, 65 anni, è una delle più efficaci voci critiche israeliane. E’ uno dei protagonisti della permanente polemica politica che rende vitale la democrazia. E’ vero, dice, che fin dall’inizio i palestinesi si sono opposti al sionismo, considerandolo un potere coloniale che ha invaso e occupato il loro Paese. Nella loro prospettiva è la verità. La loro verità. A loro non interessa il diritto alla terra della Bibbia, né la promessa divina, né l’Olocausto. Questo riguarda il passato, dice sempre Gideon Levy; in quanto al presente, Morris trascura il regime militare nei Territori occupati, uno dei più severi e umilianti. Da più di cinquant’anni le ispezioni notturne gettano fuori dai loro letti anche i bambini. In quale altro Paese democratico ci sono milioni di persone senza cittadinanza? Morris prevede negli anni il prevalere della maggioranza musulmana ed è convinto che quel che è già accaduto nel passato altrove si verificherà in Israele nel futuro.

Sbaglia. Come storico, gli ricorda Levy, dovrebbe sapere che, più che ripetersi, la storia può essere, al massimo, simile. E’ vero che la democrazia ha scarse speranze di realizzarsi nei Paesi arabi, ma i palestinesi hanno dimostrato di sapersi comportare diversamente. Eleggono il loro Consiglio legislativo, e i palestinesi che sono cittadini israeliani eleggono i loro deputati alla Knesset. Morris è convinto che gli arabi non perdoneranno mai Israele. Levy ribatte che gli ebrei hanno perdonato la Germania per crimini più orribili; i neri negli Stati Uniti e nell’Africa del Sud hanno perdonato i bianchi; Francia e Germania sono diventati alleati dopo la Seconda guerra mondiale. Soltanto i palestinesi non dovrebbero perdonare?

Uno storico come Morris dovrebbe sapere che tutto può svolgersi in maniera diversa se Israele assume le sue responsabilità morali e concrete. Esistono già città arabo-israeliane come Haifa e Jaffa. Ed esistono tanti modi per tentare una convivenza. Ma quando si è ultranazionalisti non si trova nulla da discutere con quelli considerati inferiori. E allora si è portati a credere all’apocalisse, conclude Gideon Levy.

Quelle di Morris e di Levy sono posizioni opposte ed estreme. Il panorama politico mediorientale è cambiato. Israele non è più isolato. Con i Paesi sunniti, dall’Arabia Saudita all’Egitto, ha un comune nemico: l’Iran sciita degli ayatollah. Benjamin Netanyahu partecipa a riunioni con dirigenti arabi che un tempo chiedevano la fine di Israele.

Ma i rapporti al vertice, tra governi, non corrispondono ai sentimenti prevalenti nelle popolazioni. Non contribuiscono alla convivenza né il muro eretto tra Israele e i Territori occupati; né la legge sullo stato-nazione ebraica, approvata in luglio dalla Knesset, che di fatto fa degli arabo-israeliani cittadini di una classe inferiore, nonostante la dichiarazione di indipendenza parli di uguaglianza per tutti i cittadini, senza distinzione etnica o religiosa; né la riduzione della lingua araba, un tempo ufficialmente la seconda, a lingua a status speciale. Né del resto gli incontri tra dirigenti arabi e israeliani, per concertare azioni contro il comune nemico iraniano, hanno cambiato gli umori ostili delle popolazioni arabe.

Benny Gantz, l’avversario di Benjamin Netanyahu alle elezioni di primavera, pur auspicando un dialogo con gli arabi, parla di un’ostilità destinata a durare a lungo. Netanyahu non la pensa diversamente. E agisce di conseguenza.

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LA MIA TERRA PROMESSA

ARI SHAVIT

Israele: la storia e le contraddizioni di un Paese in guerra per la sopravvivenza

Sessantacinque anni dopo la sua fondazione, Israele deve ancora affrontare alcune questioni fondamentali riguardo alla sua esistenza e al suo futuro. Che cos’è Israele? Uno Stato anacronisticamente colonialista, che non è riuscito a integrare i cittadini arabi; una nazione ebraica minacciata dall’ostilità religiosa dei musulmani; un Paese moderno e democratico che vive in una condizione di guerra permanente. Israele è una realtà politica complessa e contraddittoria che si può tentare di spiegare solo ripercorrendo, senza visioni pregiudiziali, la sua storia. Ed è questo che fa Ari Shavit, seguendo l’epopea degli emigranti che, a partire dalla fine dell’Ottocento, si mossero da diverse parti dell’Europa verso la Terra Promessa. Nel suo lungo racconto, appassionante e rigoroso, si incontrano i pellegrini sionisti che nell’aprile del 1897 partono per la Giudea mossi dalla convinzione che solo nella madrepatria potranno ritrovare la loro identità e il loro Dio; il giovane agricoltore che nel 1920, piantando un aranceto, dà l’avvio al fiorente mercato degli agrumi; le famiglie palestinesi espulse dai loro villaggi nel 1948; i ferventi zeloti che negli anni Settanta danno vita al movimento dei coloni; i soldati del centro di detenzione di Gaza Beach, uno dei tanti sorti dopo l’intifada del 1987, che spianando i fucili contro i prigionieri palestinesi si chiedono se i campi di concentramento non funzionassero nello stesso modo. Viaggiando attraverso il Paese, raccogliendo interviste, documenti storici, testimonianze dirette, Shavit si immerge nelle vicende della sua patria e nella tragedia che mette in pericolo la sua stessa sopravvivenza, realizzando un affresco che unisce sapientemente la dimensione umana e quella storica.

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Diaspora e Israele – Silenzi, coraggio, paure, conformismo

Stefano Jesurum per Limmud – Firenze, 1° giugno 2014

Israele e Galùt, un rapporto sempre più forte e sempre più complesso. Antisemitismo nella Golà, critica radicale in e a Medinàt Israèl. Il cortocircuito provocato quando quella critica radicale s’infiamma e brucia nella Diaspora dell’antisemitismo. In altre parole: che cosa sta accadendo a noi ebrei diasporici, dilaniati e insieme incatenati da un filo che si fa ogni giorno più stretto a mo’ di cappio? Stiamo per soffocare. E mentre l’ossigeno si rarefà nel cervello e nei cuori, i corpi si agitano come marionette lacerate e impazzite. Quel laccio va dunque spezzato.

            A un capo del cappio c’è il nostro rapporto con Israele, dall’altro il fantasma – europeo, ossessivo, pauroso, mortifico – di un antigiudaismo assolutamente vivo e vegeto. Tutt’intorno, un mondo, ebraico e no, travolto dalla caduta dei valori, “vivificato” da folli (spesso ridicole) fughe verso un successo/potere fatuo, fasullo, costruito su nuove Tavole di un’unica legge, la legge dell’apparenza/apparizione. Ottusamente egocentrici, non siamo capaci di confrontarci. Né “fuori” né “dentro”. Nel mondo ebraico, “dentro”, la variazione dal coro diventa di per se stessa stonatura, quindi rifiutata, demonizzata, temuta, zittita. Criminalizzata. È la solita solfa in questi giorni tanto alla ribalta per il libello di Giulio Meotti Ebrei contro Israele di cui mi scuserete se non parlo reputando sostanza e forma degne semmai di un congresso di patologia clinica. Dissentire uguale tradire, tradire uguale rinnegare. Il dissenso radicale, la critica profonda diventano aree off limits dove relegare i “nemici”, esterni e interni. Arrivando a costituire la categoria forsennata degli “ebrei odiatori di se stessi”.

            Poco, anzi nulla, importa che le medesime idee/voci dissenzienti, le medesime contestazioni profonde risuonino nelle piazze e sui giornali e nelle case d’Israele. Lì e non qui, è un dato di fatto. Lì ma non qui. Associazioni, singoli individui, giovani e anziani, uomini e donne, israeliani che, mutuando il Grossman di A un cerbiatto somiglia il mio amore, ti abitui a guardare negli occhi per scoprire che «in quasi tutti vi è una possibilità celata: quella di essere un assassino, o una vittima. O di solito entrambe». Noi, invece, camminiamo dritti per la nostra strada, al caldo delle nostre esistenze, immuni, pronti a bollare di abominio chi azzardi che «le tendenze fasciste israeliane sono contraddistinte da una serie di elementi», e giù circostanziati elenchi, a volte interi volumi come nel caso di Politicidio (Fazi Editore), dove Baruch Kimmerling mette in guardia il proprio Paese da ciò che, a lungo termine, ritiene essere un harakiri politico. Solo che Kimmerling è docente all’Università ebraica di Gerusalemme e a Toronto. Lui può.

            Una sera, anni fa, presentando a Torino il mio Israele, nonostante tutto, mentre ascoltavo i deliri della rappresentante di un gruppetto autoproclamatosi “ebrei contro l’occupazione” che sbraitava insulti anti Israele definendolo Stato fascista, ho capito che c’era un problema. Mi si accapponava la pelle: sarà stato per la violenza e l’astio espressi da quella donna?, per la sua palese ignoranza?, per l’insopportabile unilateralità dell’argomentare?, per la totale chiusura verso qualsiasi dialogo? Eppure le tesi di Kimmerling non mi erano apparse marziane. Non che le condividessi in toto, ma insomma… certamente facevano riflettere.

            E noi andiamo avanti, pronti a guardare, inerti, le nostre già fragili Comunità spaccarsi tra “buoni” e “cattivi”, tra chi considera inquietanti personaggi “gli unici, veri amici d’Israele” e chi invece li reputa “veicolatori di odio”. Non ci si capisce più. Le parole sono usate come spade, e ha ragione David Meghnagi quando denuncia il linguaggio di odio usato da una certa propaganda antisraeliana in quanto filopalestinese. Però non ha torto neppure Saree Makdisi (nato a Washington, cresciuto a Beirut, professore alla University of California, Los Angeles) quando in Palestina borderline (Isbn Edizioni) scrive: «Se la barriera che Israele sta costruendo in Cisgiordania è definita “muro” o “recinzione”; se le unità abitative israeliane nei Territori occupati sono descritte come “quartieri”, “insediamenti” o “colonie”; se diverse personalità o movimenti sono designati come “moderati” o “estremisti”; se la violenza contro i civili viene considerata “terrorismo” o “danno collaterale”: tutte queste definizioni sono sia linguistiche che politiche. Una semplice scelta lessicale esprime e soprattutto genera effetti politici. Lingua e politica sono inscindibili nel conflitto israelo-palestinese ed è praticamente impossibile capire quel che sta accadendo senza prestare particolare attenzione a come viene usato il linguaggio».

            Consideriamo, considero,  “pericoloso nemico” chiunque paragoni Israele al Sud Africa che teneva in carcere Nelson Mandela. Ci dà fastidio e ci intimorisce, fino a evocare il fantasma per antonomasia, il tabù: l’antisemitismo. Tuttavia Eyal Weizman, giovane israeliano già direttore del Centre for Research Architecture al Goldsmiths College dell’Università di Londra, argomenta in Architettura dell’occupazione (Bruno Mondadori Editore) che «la logica della “divisione” (o, per usare il più noto termine afrikaans, apartheid) all’interno dei Territori occupati è stata estesa, su base nazionale, fino a diventare “separazione”. In alcuni momenti la politica della divisione/separazione è stata presentata come una formula per la soluzione pacifica del conflitto, in altri come un dispositivo burocratico per la governabilità del territorio, e in seguito come mezzo imposto unilateralmente per la dominazione, l’oppressione e la frammentazione del popolo palestinese e della sua terra». Ma noi, se sentiamo semplicemente nominare la parola apartheid, scattiamo per l’orrore. Quanta malafede in chi pronuncia quel termine odioso! E quanta pericolosa demente ignoranza in quegli slogan urlati nei cortei con voci strozzate dalla cieca rabbia: difficile non ri-andare con la mente e con il cuore ai periodi terribili della discriminazione, della persecuzione, della Shoà.

            Tempo fa, seduto al tavolino di un bar insieme ad Aaron Shabtai… Il poeta chiacchiera con me che, allibito e visibilmente seccato, finisco col dirgli: «Parli di Israele come se ci fosse una dittatura alla Mussolini!». Lui, tranquillo: «Non è esattamente la stessa cosa, ma quasi». Chiama Abraham B. Yehoshua, Amos Oz e David Grossman sinistra soft, «foglie di fico parte integrante del sistema». Poi declama: «Se mi chiedete, / di dare la caccia a un ragazzo / a 150 metri di distanza / con un fucile a canocchiale, / Se mi chiedete di sedermi in un tank e / dalle altezze della moralità ebraica, / fare penetrare un obice / nella finestra di una casa (…) / risponderò con fermezza: / Signor Primo Ministro, / Onorevole Generale, / Sua Eccellenza Deputato, / Sua Santità il Rabbino, / Baciatemi il culo!». Per molto meno, a casa di amici, potremmo venire alle mani con l’ospite “non-proprio-antisemita-ma-quasi”.

            Spesso mi sono domandato se queste reazioni differenti di fronte a critiche e dissensi identici non nascondessero semplicemente paura. Brutalmente: se lo dicono loro che sono israeliani io posso stare tranquillo, perfino – a volte – assentire; se lo dicono italiani, francesi, inglesi, tedeschi, spagnoli, ebrei o no che siano, allora è diverso, penso alle scritte sui muri, ai cori da stadio, alle svastiche per strada… Inconscio & Paura, forse. O forse banale vigliaccheria (intellettuale). Disquisendo di Filastin al-Muhtalla (Palestina occupata) ci vogliono infatti molto, molto coraggio e sangue freddo per ricordare cosa telegrafarono a fine Ottocento alcuni rabbini viennesi mandati da un comitato sionista a dare un’occhiata alla Terra dei padri: «La sposa è bella, ma è sposata a un altro uomo».

            Ed è su questo “matrimonio” indiscutibile, è sulla paura e sulla speranza, è sulla realtà nei confronti della quale non è consentito “fare sconti” che il giornalista israeliano Ari Shavit ha messo nero su bianco quello che per me è un punto a questi ragionamenti. Un libro che s’intitola La mia terra promessa (Sperlung&Kupfer). Ari ha 57 anni, e dice: «Da quando ho memoria, ricordo la paura. Una paura esistenziale. L’Israele in cui sono cresciuto, quello della metà degli anni Sessanta, era un Paese vitale, esuberante e pieno di speranza, ma avevo la costante sensazione che al di là delle belle case e dei giardini ben curati dell’alta borghesia della mia città natale si agitasse un oceano minaccioso. Temevo che un giorno quell’oceano sarebbe esondato e ci avrebbe sommersi tutti». Ari è nato nel 1957: «Da quando ho memoria, ricordo l’occupazione. Solo una settimana dopo aver chiesto a mio padre se i Paesi arabi avrebbero conquistato Israele, fu Israele a impadronirsi dei territori della Cisgiordania e di Gaza, abitati dagli arabi». Così oggi può scrivere la sua verità: «Solo qualche anno fa mi è divenuto improvvisamente chiaro che le mie paure riguardo al futuro del mio Paese e lo sdegno che provo per le politiche israeliane di occupazione e di intimidazione non sono slegate. Da una parte, Israele è l’unica nazione occidentale che occupa il territorio di un altro popolo; dall’altra, è anche l’unico Stato occidentale la cui stessa esistenza sia minacciata. Minaccia e occupazione, infatti, sono le colonne portanti della nostra esistenza». Il suo è un libro – come ha scritto Dwight Garner sul New York Times – sionista senza i paraocchi del sionismo. Ari Shavit è nato a Rehovot in una famiglia di quelle che hanno creduto a Theodor Herzl, è editorialista di Haaretz, ha servito l’esercito nei territori occupati come paracadutista, è stato poi attivista del movimento pacifista, e ha quindi deciso di sfidare progressivamente i dogmi della destra e della sinistra. Ari racconta insomma l’odissea privata di un israeliano disorientato dal dramma storico che sta inghiottendo la sua patria. Un racconto – come dicevo – senza sconti. Esiste un segreto oscuro, una sorta di peccato originale che affronta di continuo: «La nazione in cui sono nato ha cancellato la Palestina dalla faccia della terra». Eppure: «Se necessario, starò dalla parte dei dannati. Perché so che se non fosse stato per loro, lo Stato di Israele non sarebbe mai nato. Se non fosse stato per loro, io non sarei nato. Hanno fatto lo sporco e turpe lavoro che consente al mio popolo, a me e ai miei figli di vivere». Ancora: «Mi chiedo per quanto tempo potremo mantenere la nostra miracolosa storia di sopravvivenza. Ancora una generazione? Due? Tre? Alla fine, la mano che tiene la spada dovrà allentare la presa. Alla fine la spada stessa si arrugginirà. Nessuna nazione può affrontare il mondo che la circonda per più di cento anni con una lancia sguainata».

            Suggestioni che risuonano anche nell’indefessa opera del nostro Bruno Segre alla ricerca di una Verità con la V maiuscola che lui stesso sa bene non esistere. Basta leggere il suo ultimo libro, Israele, la paura, la speranza (Wingsbert House) per rendersene conto. «Erano profonde le emozioni che HaTikvah, l’inno del movimento sionista divenuto più tardi l’inno nazionale israeliano, suscitava in me da ragazzo. Ricordo, peraltro, che nell’ascoltarlo trovavo bizzarro, quasi inspiegabile il contrasto tra il messaggio forte e felice del testo (“non è ancora persa la nostra speranza, la speranza due volte millenaria, di essere un popolo libero nella nostra terra, la terra di Sion e Gerusalemme”) e le suggestioni malinconiche, dolenti, afflitte della musica, armonizzata in modalità minore (…) Poi, nei decenni successivi, mentre seguivo con partecipazione le vicende politiche e culturali di Israele e del Medio Oriente, mi sono reso conto che nella cultura politica coagulatasi attorno al progetto sionista erano presenti ab origine, e ancora oggi continuano a fronteggiarsi, due linee di pensiero e di azione ben distinte. Una di esse fa leva prevalentemente sulla speranza, l’altra sulla paura. E date le circostanze difficilissime in cui lo Stato d’Israele nacque ed è vissuto per oltre sessant’anni, entrambe tali tendenze presentano più d’una plausibile giustificazione, avendo ciascuna al proprio attivo realizzazioni e sconfitte».

            Mentre noi continuiamo a tacere imbarazzati di fronte alle accuse dei soldati di Break the Silence, sulle azioni compiute a Gaza durante l’Operazione Piombo fuso. Il nostro mutismo ci chiude lo stomaco e forse ci annebbia la vista. Poi andiamo a vedere la rassegna del cinema israeliano, guardiamo ammutoliti The Gatekeepers, di Dror Moreh, documentario costruito attorno alle interviste a sei capi dello Shabak o Shin Bet che dir si voglia, e piangiamo. Lacrime di orgoglio per un Paese il cui ministero della Cultura finanzia una pellicola così cruda. Lacrime di dolore per un Paese che si è ridotto così. Lacrime di amore e rabbia perché sappiamo che l’ammonimento di Abraham B. Yehoshua è sacrosanto: «Il comportamento da noi adottato nei confronti del nemico non resta al di fuori di Israele ma filtra al suo interno. La violazione di norme etiche nei rapporti con i palestinesi sotto occupazione àltera e stravolge quelle stesse norme anche in Israele, nei rapporti fra i suoi cittadini».

            Però io mi ostino a non “dover scegliere”. Faccio mia la lezione di Theodor W. Adorno, secondo cui la libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, bensì proprio nel sottrarsi a questa scelta prescritta. Non scelgo e intanto sfoglio le immagini di Atto di Stato (Bruno Mondadori Editore). Ariella Azoulay dirige la Camera obscura school of art di Tel Aviv e insegna all’Università Bar Ilan, ha selezionato oltre 700 fotografie scattate negli anni da una settantina di fotoreporter per lo più israeliani. Una sorta di archivio storico dell’Occupazione. Uno dei tanti.

            Allora che fare? Ognuno faccia la propria parte. Dice Avraham Burg in Sconfiggere Hitler – Per un nuovo universalismo e umanesimo ebraico (Neri Pozza Editore) che «dobbiamo guardarci in faccia, combattere e annientare un nuovo razzismo ebraico che sta sorgendo dentro di noi, che ci sta per corrodere. Un nuovo ebraismo israeliano che è molto lontano da tutto quello che conosco e di cui è impregnata la mia cultura familiare».

            Eccolo, di nuovo, il cortocircuito. Lo J’accuse straziante lanciato da una fetta importante di Israele in nome, a ben vedere, dei valori della Diaspora. Un grido che nella Diaspora è problematico riprendere, se non al prezzo di passare per anti-israeliani. Buffo, no? No, non è buffo, è tragico.

            Chiedendo perdono a rav Jonathan Sacks perché uso le sue parole totalmente fuori contesto, concludo questo mio lungo e forse un poco contorto ragionamento mediando, appunto, rav Sacks sul rashà, il figlio ribelle della Haggadà di Pesach. «L’ebraismo è essere in comune. Questo è il principio che il bimbo ribelle nega. L’ebraismo si indirizza agli individui. E nemmeno si indirizza all’umanità intera. Dio ha scelto un popolo, una nazione, e al Monte Sinai gli ha chiesto di promettere fedeltà, non solo a lui, ma anche a se stessi fra di loro. Emunà, parola chiave normalmente tradotta come “fede’”, più propriamente indica lealtà – a Dio, ma anche al popolo che Egli ha scelto come portatore della Sua missione, testimone della Sua presenza. È vero, a volte gli ebrei sono esasperanti. Rashi, nel suo commento all’incarico che Mosè fa al suo successore Giosuè, scrive che egli gli disse: “Sappi che loro [ il popolo che stai per condurre ] sono importuni e contenziosi”. Ma gli ha anche detto: “Tu sei fortunato perché avrai il privilegio di condurre il popolo di Dio in persona.” In questa idea fondamentale esiste una misura di speranza. Certo, oggi non tutti gli ebrei seguono la legge ebraica. Ma molti che non la seguono, si identificano comunque con Israele ed il popolo ebraico. Perorano la sua causa. Sostengono le sue cause. Quando Israele soffre anche loro sentono dolore. Sono implicati nel destino del popolo. Sanno fin troppo bene che “Israele oggi è perseguitato e oppresso, odiato, tormentato e sopraffatto da afflizioni”, ma non voltano le spalle. Possono non essere osservanti, ma sono leali – e la lealtà è una parte essenziale (anche se solo una parte) di ciò che è la fede ebraica. Quindi, dal negativo possiamo arrivare al positivo: che un ebreo che non dice “voi” quando Israele viene attaccato, ma “noi”, ha fatto un’affermazione fondamentale – di essere parte di un popolo, condividendo le sue responsabilità, identificandosi nelle sue speranze e timori, celebrazioni e tristezze. Questo è il patto, ed ancora oggi ci chiama all’appello».

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