Fiero sionista, fu il leader dell’Organizzazione Sionista Mondiale nel 1946. Capo dell’Agenzia Ebraica, divenne leader di fatto della comunità ebraica di Palestina (Yishuv): da questa posizione condusse la lotta del movimento sionista nel Mandato britannico della Palestina volta alla fondazione di uno stato ebraico indipendente. Il 14 maggio 1948 proclamò ufficialmente la nascita dello Stato d’Israele e fu il primo firmatario della Dichiarazione d’indipendenza israeliana, che contribuì anche a stendere. Leader militare durante la Guerra arabo-israeliana del 1948, Ben Gurion unì le diverse milizie ebraiche costituendo le Forze di difesa israeliane. Per l’opera che ha contraddistinto l’intera sua esistenza, è ricordato come “Padre fondatore d’Israele”.
Dopo la guerra Ben Gurion ricoprì la carica di primo ministro, fornendo un prezioso contributo nella creazione delle istituzioni statali israeliane. Inoltre favorì il ritorno in Israele di molti ebrei della diaspora (Aliyah). Nelle relazioni internazionali, uno dei suoi maggiori successi riguarda i rapporti diplomatici con la Germania Ovest. Ben Gurion collaborò ottimamente con il cancelliere Konrad Adenauer. La Germania federale fornì ingenti finanziamenti in compensazione delle persecuzioni della Germania nazista contro gli ebrei (Olocausto).
Dal 1891 divenne corrispondente da Parigi del giornale Neue Freie Presse. A Parigi ebbe modo di seguire l’affare Dreyfus e conoscere quanto radicato fosse nella società europea l’antisemitismo; i suoi diari descrivono anche gli altri eventi che, nel corso dei suoi viaggi, contribuirono alla sua formazione culturale[1].
Nel 1896 pubblicò Der Judenstaat (Lo Stato ebraico) dove propugnava ai governi europei l’idea che si creasse uno stato ebraico (in una qualsiasi colonia delle potenze europee), che sottraesse gli ebrei alle persecuzioni antisemite. Fu poi il fondatore, nel 1897[2], del movimento politico del sionismo, che si proponeva di far sorgere nei Territori Coloniali del Mandato britannico della Palestina uno Stato Ebraico.
Dopo la morte, la sua salma fu in un primo momento sepolta accanto a quella del padre a Döbling per poi essere trasferita – in ottemperanza alle sue volontà testamentarie – nel 1950 a Gerusalemme, dove fu sepolta su una collina che in suo onore venne chiamata Monte Herzl. Nell’ultimo viaggio di Papa Francesco in Israele, la tomba di Herzl è stata per la prima volta visitata da un pontefice.
Di formazione agricolo-militare, tipica della comunità (Yishuv) israeliana negli anni del Mandato britannico, Rabin nasce da Nehemiah Rabin e Rosa Cohen. Fu tra i fondatori del Palmach (acronimo di Pelugot Machaz, “squadre d’assalto”) che contribuirono in maniera decisiva alla costituzione dell’esercito del futuro Stato di Israele (le IDF), anche se il suo sogno fin da bambino era quello di diventare ingegnere idraulico per garantire acqua al suo kibbutz. Fu comandante della brigata Harel che conquistò Gerusalemmedurante la prima guerra arabo-israeliana. Nell’estate del 1948 sposò Leah Schlossberg dalla quale ebbe due figli: Dalia e Yuval.
Carriera militare
nell’esercito dopo la costituzione dello Stato, divenne Capo di Stato Maggiore dell’esercito nel periodo della guerra dei sei giorni, e si deve a lui, assieme a Moshe Dayan, la concezione di attacco che portò alla distruzione a terra dell’intera forza aerea egiziana e siriana. Lasciato l’esercito nel 1968, fu nominato ambasciatore di Israele negli Stati Uniti d’America durante i quali rafforzò la solida alleanza tra gli Stati Uniti e Israele.
Scaduti i termini della missione, rientrò in patria facendo il suo ingresso alla Knesset alle elezioni del dicembre 1973 come membro del partito Partito Laburista Israeliano e successivamente, nel marzo 1974, venne nominato ministro del lavoro. A seguito delle dimissioni di Golda Meir, Rabin sconfisse Shimon Peres alle elezioni per la leadership del partito e nel giugno 1974 venne eletto primo ministro. Con Peres ebbe una forte antipatia politica e personale per due decenni. Fu sua la decisione di autorizzare la missione di salvataggio di Entebbe, il cui successo fece salire la popolarità di Rabin alle stelle.
Tuttavia nell’aprile 1977 uno scandalo giornalistico rivelò l’esistenza di un conto corrente che Leah Rabin aveva mantenuto illegalmente su una banca americana, sin da quando il marito era ambasciatore negli Stati Uniti, violando le norme valutarie del tempo. Nonostante non fosse coinvolto, Rabin rimase al fianco della moglie e diede le dimissioni. Lasciò la guida del partito a Shimon Peres, il quale venne sconfitto alle elezioni del 1977 dal leader della destra Menachem Begin. Rimase nella Knesset per i successivi otto anni senza ricoprire cariche pubbliche. Rientrò come ministro della Difesa nel governo di unità nazionale del 1984.
Nel 1992 il Partito Laburista Israeliano decise di puntare su Rabin. La scelta si rivelò azzeccata e Rabin, che col tempo si era guadagnato il soprannome di “Mister Sicurezza”, tornò a coprire la carica di Primo ministro e anche quella di Ministro della Difesa. Chiamò al ministero degli affari esteri il suo compagno-rivale Shimon Peres con il quale aveva appianato le vecchie divergenze. Nell’agosto del 1993 venne resa pubblica la notizia che israeliani e palestinesi avevano trattenuto negoziati diretti per otto mesi. La notizia fece scalpore in tutto il mondo. In Israele suscitò una forte opposizione da parte della destra religiosa che non perse occasione per organizzare manifestazioni contro Rabin e la sua politica di pace.
La sera del 4 novembre 1995, dopo aver preso parte a un comizio in difesa della pace a Tel Aviv, fu assassinato da Ygal Amir, un colono ebreo estremista. Ai suoi funerali a Gerusalemme parteciparono circa un milione di israeliani e molti esponenti di rilievo della politica mondiale.[1] Parteciparono anche molti leader arabi i quali non erano mai stati in Israele prima d’allora.
Nel 1994 a Peres è stato assegnato il Premio Nobel per la Pace insieme a Yitzhak Rabin e Yasser Arafat per gli sforzi nel processo di pace nel Vicino Oriente, culminati con gli Accordi di Oslo. Nel 2005 è diventato vicepremier nel governo di coalizione guidato da Ariel Sharon che gli ha affidato il ministero per lo sviluppo del Negev, della Galilea e dell’economia regionale. Nello stesso anno ha lasciato a sorpresa il Partito Laburista per aderire al partito centrista Kadima fondato dallo stesso Sharon. Eletto presidente d’Israele il 13 giugno 2007, è entrato in carica dal successivo 15 luglio sino al 24 luglio 2014. A partire dal 1º gennaio 2013 è stato il capo di Stato più anziano del mondo.[1]
ADDIO A PERES, UNA VITA PER LA PACE
Molto più di altri giganti di quel sionismo “costruttivista” e di
stampo socialista che ha fatto Israele, Shimon Peres incarnava quasi
fisicamente la naturale tensione politica ed etica alla pace. Di quel sionismo
infatti Peres prendeva d’istinto e senza remore la primazia della politica, la
duttilità pragmatica e l’ispirazione socialista. Al contrario di quasi
tutti quei giovani e futuri grandi d’Israele che alla fine degli anni ‘40
fecero parte come lui della ristretta cerchia attorno al padre della patria
David Ben Gurion, Peres non era un militare e un soldato. Era un politico. Non
partiva dall’esercizio delle armi per poi inquadrarle in una superiore visione
e pratica politica- come fecero molti altri del gruppo come Ytzhak Rabin e
Moshe Dayan – bensì, al contrario, partiva dalla Politica per eventualmente
arrivare alla sua traduzione pratica anche con le armi. Per lui era la politica
la sola arte che poteva assicurare la sopravvivenza di quel fragile miracolo
costituito dalla fondazione dello Stato d’Israele. Per questo, oltre che per il
fatto di non essere un “sabra” perché era nato nel 1923 nell’allora Polonia
– il termine significa “fico d’india” in ebraico ed è usato per gli ebrei
nati in Israele, come Rabin – Peres è stato il vero erede di Ben Gurion. E come
Ben Gurion, Shimon Peres sentiva nelle sue corde la dottrina della mamlachiut – il primato
della Nazione e la preminenza dello Stato sulla società civile. Ma proprio come
il suo maestro – che lo storico israeliano Zeev Sternhell non a caso ha
definito “il profeta armato” – non era affatto un pacifista. Semplicemente le
armi non le usava in prima persona, ma le organizzava con la politica. Quando
entrò nell’Haganà – il nucleo del futuro esercito d’Israele – nel 1947, il suo
incarico fu infatti di responsabile del personale e dell’acquisto delle armi.
Dimostrò subito un talento conseguente. Tanto che nella prima guerra
d’indipendenza nel 1948, quando il neonato – per un voto dell’Onu, unico caso
della Storia – Israele viene assaltato subito da ogni parte dagli eserciti di 5
paesi arabi e dalle milizie “volontarie” di altri 3, diviene capo della marina
israeliana. E poi nel 1953 direttore generale del Ministero della Difesa. Qui
l’idea di Peres che le armi fossero uno strumento della politica e non il
contrario, che occorresse prima vedere dove e come colpire, e poi eventualmente
tradurre tale visione in piani strategici e operativi, dispiegò tutto il suo
potenziale. Ed è proprio in questo strategico ma oscuro ruolo che Peres
comincia a diventare quello statista che poi avrà il suo massimo fulgore 40
anni più tardi come architetto del processo di pace di Oslo, con il conseguente
Nobel per la Pace, e nel suo mandato di Presidente della Repubblica, dal 2007
al 2014. Perché è da questa postazione che Peres, figlio askenazita di
un’Europa matrigna ma che conosceva ed amava, riesce ad instaurare un fecondo e
profondo legame con la Francia. Riuscendo a far arrivare da quel paese le armi
che servivano: sia quelle di piccolo taglio, necessarie per difendersi dai
continui attacchi e infiltrazioni dal Libano, dalla Siria, dalla Giordania e
dall’Egitto, sia quelle più potenti per la difesa aerea, come il moderno caccia
Mirage, sia quelle “esistenziali” e di ultima difesa, come quelle nucleari.
Peres è infatti il padre del programma atomico israeliano, e del reattore di
Dimona che ne diviene la base dal 1957.
La sua pure quasi cinquantennale carriera parlamentare e politica nel
laburismo, che comincia nel 1959 con il primo mandato alla Knesset per il
Mapai, è in realtà nel bene e nel male già tutta in questo Peres architetto
politico della sicurezza d’Israele. Un profilo che politicamente ne segnò per
sempre il corso. Perché se Peres fosse stato un leader politico in un paese non
minacciato esistenzialmente, il cui popolo aveva oltre tutto sofferto del
terribile trauma della Shoà, egli avrebbe avuto onori e favore popolare pari
alla sua competenza. Ma Peres era un politico e non un soldato, in un paese
però necessariamente in armi. E così non sarà.
Verrà sempre guardato di sottecchi, come a verificarne la capacità di
leadership, eternamente messa in dubbio, a tratti ridicolizzata a destra, a
volte irrisa a sinistra dai suoi stessi compagni laburisti. La sua competenza
politica lo porta ad essere molte volte ministro, dei Trasporti e delle
Telecomunicazioni (1970-1974), della Difesa (1974-1977 e 1995-1996), delle
Finanze (1988-1990), degli Affari Esteri (1986-1988 e 1992-1995 e2001-2002) ma
Premier solo ad Interim (1984 -1986 e 1995-1996) e mai eletto. Perché il
partito laburista lo scelse come proprio leader due volte – alle elezioni del
1977 e a quelle dopo l’omicidio di Rabin nel 1996 – ma Peres quelle elezioni le
perse. Competente ma privo del necessario profilo militare per la prima linea
da capofazione, Peres si rivelò infatti anche sfortunato, perché sia le
elezioni politiche del 1977 (vinte da Menachem Begin) sia quelle del 1996
(vinte da Benjamin Netanyahu) furono elezioni periodizzanti nella svolta a
destra del paese. Nel 1977 si interruppe un’egemonia politica del laburismo che
durava dagli anni Trenta. Nel 1996 vince per la prima volta quel Netanyahu che
poi rivinse altre tre volte, unico nella storia di Israele. Dopo quella anche
umanamente terribile sconfitta da parte di colui che nelle piazze incitava
all’odio per il premier Rabin e poi ne riuscì a prender il posto nelle elezioni
che seguirono, Shimon Peres decide di rassegnarsi e di fare un passo indietro.
Ed è proprio questo passo indietro che gli permetterà in realtà di farne due
avanti. Guardandosi allo specchio capì che non era un generale, e dunque non
sarebbe stato mai amato dal popolo come un eroico fratello maggiore. Però
continuando a guardare vide uno statista e un saggio padre della Patria,
conscio che la sua visione politica era l’unica che poteva garantire alla lunga
la sicurezza di Israele.
Una visione politica e non messianica, che dunque vede al centro il Popolo e
non la Terra, al contrario di quello che pensa quella destra israeliana oggi al
potere, impegnata a riaprire una lotta sul sionismo che con Jabotinski la vide
invece perdente negli anni Trenta rispetto a Ben Gurion. Per questo
scrisse anche “Ben Gurion, a Political Life” nel 2011, che è il suo vero
testamento politico. Con lui se ne va anche la sua creatura, quel processo di
Pace di Oslo che tanto ha fatto sperare. Ma il fatto che Peres statista per la
prima volta sia accompagnato da quel favore popolare che da capofazione non ha
mai ottenuto, è segno non solo della serenità finale della sua
straordinaria vita, ma anche delle risorse morali di cui Israele ancora dispone
per reinventare e quindi costruire quella pace che Peres riteneva – a ragione –
esiziale per la sopravvivenza del suo amato paese.
Una serata sul tema dell’intolleranza e della discriminazione e sulle conseguenze pericolose per il nostro vivere democratico.
Mercoledì 23 gennaio 2019 Serata in ricordo di Roberto Franceschi 1973 – 2019
Aula Magna Università Bocconi – Via Gobbi 5, Milano in collaborazione con ISU Bocconi Ore 20.00 ingresso gratuito
DIVERSI
Il Fascismo può ancora tornare sotto le spoglie più innocenti. Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l’indice su ognuna delle nuove forme – ogni giorno, in ogni parte del mondo.
Umberto Eco
In apertura:
Lydia Franceschi, Presidente Onoraria Fondazione Roberto Franceschi Onlus Gianmario Verona, Rettore Università Bocconi Paola Arzenati, Direttore Generale Fondazione Isacchi Samaja Onlus proclameranno i vincitori dei Fondi di Ricerca Roberto Franceschi.
A seguire:
Proiezione del Film 1938: DIVERSI
Il film sarà preceduto da un incontro coordinato da Benedetta Tobagi, con la partecipazione di:
Paolo Berizzi, giornalista e scrittore Marco Damilano, direttore de L’Espresso Gad Lerner, giornalista e scrittore Roberto Levi, produttore del film Massimo Righetti, distributore del film Giorgio Treves, regista del film
Ingresso gratuito fino a esaurimento posti, previa registrazione.
Il film sarà inoltre proiettato eccezionalmente per le scuole alle 12.30 dello stesso giorno presso l’Istituto Artemisia Gentileschi di via Natta 10 a Milano, alla presenza del regista Giorgio Treves.
Mio padre creava personaggi inquieti e perseguitati e
per loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi incantesimi sulle tenebre per
far sgorgare la luce dell’amore
Fania
Oz-Salzberger | Jan. 2, 2019
| 8:47 PM | 5
Mio padre è morto di venerdì. Se i
veri giusti muoiono nel giorno dello Shabbat, solo ora capisco che gli
scrittori devono morire di venerdì. La notizia è trapelata appena prima di questo sabato invernale e
per tutto il lungo fine settimana, in Israele e altrove, decine di migliaia di
persone hanno saputo di mio padre e hanno letto le sue parole. Uno scrittore
deve morire di venerdì.
All’età di quattro anni ho scoperto la morte. Sono andata
da mio padre per confidargli il mio terribile spavento. Mio padre mi disse:
«Non temere, Fania, perché per quando sarai grande avrò inventato qualcosa che
impedirà alla gente di morire». Disse proprio così, con queste esatte parole.
Andate a vedere: il papà venticinquenne che diceva queste cose alla sua bambina
era il ragazzo di Soumchi, il ragazzo di Una pantera in cantina,
il ragazzo del Monte del cattivo consiglio, e di Una storia di amore e di tenebra.
Quel ragazzo di colpo è diventato padre: il mio.
Alcuni sostengono, e a ragione, che non bisogna dire
a un bambino spaventato dalla morte che il padre inventerà qualcosa per
fermarla. Come se da sole le parole bastassero a donarci la redenzione, la
guarigione completa e finale, o almeno ci consentissero di guadagnare tempo, di
rimandare il timore della morte di un bambino, di un adulto o di un anziano,
per cullarli in un incantesimo artificiale addolcito dal miraggio di un futuro
ancora possibile. Questa critica abbraccia anche la visione politica di mio padre.
Certo, voglio parlare qui della sua visione politica perché, sia per lui che
per me, la politica era una questione anche personale. Non tutto ciò che è
personale è politico, ovviamente, ma tutto ciò che è politico è anche
personale.
Alcuni pensano che l’«ottimismo» politico che ha accompagnato
Amos Oz in quasi tutta la sua vita — non negli ultimi anni, ma per quasi tutta
la sua vita — sia stato una fantasia sulla pace mondiale, sulla bontà
complicata ma possibile del genere umano, sulla speranza di guarire la società.
Riparare e guarire con zappe e badili, con libri e penne. Costoro hanno
disprezzato il suo «ottimismo», e anzi, ne erano spaventati, quasi che la sua
cocciuta battaglia per la pace tra arabi e israeliani, in particolare tra
Israele e la Palestina, fosse una folle illusione, una pericolosa licenza
poetica, un’ombra effimera nella caverna di Platone.
Mio padre ha insistito fino alla fine, fin verso la fine,
che uomini e donne diventano più buoni con il passar del tempo, più complessi e
più buoni, grazie al contatto con il prossimo, e con il dolore del prossimo,
per quanto lontano e straniero, attraverso la capacità di raccontare storie e
di ascoltare storie, che ci permette di immedesimarci per un breve istante
nell’umanità estranea di personaggi lontani e sconosciuti. Mi diceva spesso:
«Possiamo condensare tutte le leggi morali, i Dieci comandamenti e tutte le
virtù umane in un unico precetto: non infliggere dolore. Tutto qui. Non fare
del male. E se non ci riesci, almeno sforzati di causare il minor male che
puoi. Di infliggere il minor dolore possibile».
Per tutta la sua vita mio padre si è sforzato di non causare dolore,
ma talvolta non ci è riuscito. So benissimo che in alcune circostanze ha
causato dolore agli altri. Ma so anche che tantissime persone si sono fatte
avanti nelle ultime settimane per raccontarci come mio padre avesse prestato
loro ascolto, o assistenza, con pazienza e generosità. Vedete, è davvero
possibile alzarsi ogni giorno alle quattro del mattino e far di tutto per causare
meno dolore. Causare meno dolore e scrivere. Anche questo faceva, dalle cinque
del mattino, dopo la sua camminata all’alba, con la penna nera e la penna blu,
per distinguere la voce del narratore dalla voce del cittadino-oratore.
Mio padre creava personaggi inquieti e perseguitati e per
loro cercava la pace perfetta. Gettava i suoi incantesimi sulle tenebre per far
sgorgare la luce dell’amore. E tra l’amore e le tenebre, e altrettanto
complicato quanto l’amore per una donna, mio padre ha trascorso la sua vita a
lottare con l’amore per la sua terra e il suo paese, Israele, lo Stato che è
germogliato dalle lacrime dei suoi genitori. Con l’energia del testimone
davanti al trionfo del sionismo, con la fede incrollabile della generazione che
ha fondato uno Stato per gli ebrei in Israele, mio padre ha continuato a
esplorare le vie per realizzare la speranza più recondita del sionismo, forse
l’ultima speranza sionista rimasta ancora incompiuta: la pace qui tra noi e gli
arabi. Ci sono uomini e donne, mi ripeteva, che crescono in bontà e saggezza
negli angoli più sperduti del Paese, e saranno loro prima o poi ad afferrare in
mano il timone di Israele. Saranno le persone più inattese, forse gli ultimi
arrivati — non i famosi e gli assetati di gloria — che si faranno avanti e si
metteranno alla guida. Verranno da terre ignote, dove già spuntano in segreto
le grandi speranze del domani.
Non ottimismo, ma speranza. L’ottimismo è il colore della previsione;
la speranza è la consapevolezza di un valore profondo, o figlia di
un’immaginazione sovrumana. La speranza è l’opposto del fanatismo e del suo
cugino germano, la disperazione, e di quell’altro parente, il cinismo. Tutti
coloro che sbarrano le porte sono nemici della speranza. Parlo nella speranza
che un giorno avremo anche noi pace e giustizia, quella giustizia sollecita e
benevola che governa una società solidale e matura, non avida né zelante per
qualche grande teorema, bensì capace di condividere in ogni cosa il rispetto e
l’affetto per gli esseri umani così come sono. È la speranza per una società
israeliana capace di nutrire giudaismo e umanesimo, le parole gemelle incise
sulla porta di casa di nostro zio, Joseph Klausner. Quella stessa ebraicità i
cui ingranaggi segreti, pur nell’assenza di fede in Dio, sono i figli, i libri
e il dialogo. E per noi, nella nostra casa e nella nostra cultura, il dialogo
con chiunque è sempre benvenuto, e il dibattito è accolto con gioia,
infervorato e assordante quanto si voglia, purché non causi dolore a nessuno.
Così radicata e solida è questa grande speranza,
che sebbene oggi taluni la respingano nel timore che potrebbe indebolirci e
consegnarci nelle mani dei nostri nemici, un’infinità di persone ne sanno
cogliere la grandezza. È una speranza che si annida nel centro stesso del sionismo,
nel centro stesso dell’umanesimo. La speranza fa bene al cuore, lo allarga,
spalanca gli orizzonti e spinge all’azione. Rappresenta l’arena e l’eredità per
i nipoti che vivono in questa terra. E per i nipoti che vivono in qualunque
parte del mondo.
Mio padre è morto, e chiunque pensi che una speranza come
questa sia morta in Israele con la morte di Amos Oz non conosceva bene mio
padre, perché lui sapeva che avremmo proseguito su questa strada. Aveva
escogitato un’invenzione per non far spegnere la speranza. I suoi figli e
nipoti, amici, studenti, lettori e interlocutori, persino i suoi degni
oppositori, noi tutti faremo sì che non si estingua. Che sia chiaro: mi
riferisco alla speranza di una vera pace qui tra un Israele democratico, uno
Stato degli ebrei e di tutti i suoi cittadini, uno Stato fondato sul diritto e
sulla giustizia sociale, uno Stato in cui la lingua della Torah possa fiorire,
al pari della cultura giudaica ed ebraica, a fianco delle culture arabe e
mondiali. (…)
Abbiamo già cambiato la storia una volta. I genitori di
mio padre, e i genitori della mia amatissima madre, i pionieri del Kibbutz
Hulda e gli ebrei che sono approdati fin qui per vie di mare e di terra, da
ogni angolo della diaspora, con un unico scopo nella mente, sospinti da
un’immane catastrofe, tutti costoro hanno cambiato la storia. Sfuggiti alle
fauci del demonio, hanno cambiato la storia. E noi, non possiamo anche noi, qui
e ora, sperare e agire? Non credo che mio padre possa sentire quello sto
dicendo. Era un ebreo profondamente laico. Lo sono anch’io. Eppure io sono
certa, fermamente certa, che in questo momento egli stia accennando di sì con
il capo.
Pertanto è possibile inventare qualcosa per far in modo
che la nostra speranza umana e israeliana non muoia. È una speranza saggia e
misurata, molto ebraica in un certo senso, una speranza che abbraccia tutti gli
uomini e il mondo intero. La speranza che sia concessa a tutti una buona vita
sulla terra, e che tutti, o quasi tutti, siano capaci di narrare storie e di
ascoltare storie, ma con grande attenzione. La speranza che tutti allora
possano cominciare, uno dopo l’altro, a non causare più dolore a nessun altro
essere umano, o perlomeno a causare meno dolore.
Ho amato profondamente mio padre e la mia anima
era vicina alla sua. Pensavo di venire qui oggi e di non riuscire ad aprir
bocca, ma vedo che non mi sono mancate le parole. Abbiamo le parole. Le parole
di mio padre e le parole degli altri, e tutte le parole buone che aspettano
ancora di essere pronunciate. Queste parole ravvivano l’amore, incarnano i
sogni e talvolta cambiano il mondo. Queste parole non moriranno, e presto
qualche speranza si trasformerà in realtà anche qui da noi.
Etiam magna arcu, ullamcorper ut pulvinar et, ornare sit amet ligula. Aliquam vitae bibendum lorem. Cras id dui lectus. Pellentesque nec felis tristique urna lacinia sollicitudin ac ac ex. Maecenas mattis faucibus condimentum. Curabitur imperdiet felis at est posuere bibendum. Sed quis nulla tellus.