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Il lascito di Rabin, vent’anni dopo

Di Gabriele Eschenazi

 Itzhak Rabin

Yitzhak Rabin

Sono trascorsi vent’anni dall’omicidio di Yitzhak Rabin per mano di Yigal Amir, estremista ebreo religioso, e ancora in Israele si avverte la necessità di interrogarsi sul significato e le conseguenze di quell’evento traumatico. Ci fu un’eredità politica da gestire, un sistema democratico da difendere, un apparato di sicurezza da mettere sotto esame.

“Abbiamo deciso di dare un’opportunità alla pace. Una pace che risolverà gran parte dei problemi dello stato d’Israele”, disse Rabin quella sera a Tel Aviv. Questo messaggio politico fondamentale è stato raccolto solo parzialmente dai leader, che si sono succeduti dopo di lui.

Il primo fu l’inossidabile Shimon Peres, anche lui, premio nobel a Oslo, ma perdente di natura tanto da non essere mai capace di vincere le elezioni a capo del partito laburista. Lo seguirono Ehud Barak ed Ehud Olmert, gli unici che dopo Rabin cercarono di riprendere il percorso degli accordi di Oslo verso lo stato palestinese. Non ci riuscirono, anche per responsabilità della controparte, e non dimostrarono una vera capacità di leadership. Barak chiuse ad ogni prospettiva di accordo dichiarando che ”non c’era un partner”; Olmert, dopo aver offerto ad Abu Mazen (che rifiutò) il 97% dei territori occupati, restò implicato in imbarazzanti episodi di corruzione e finì così senza gloria la sua carriera politica.

Un caso a parte è quello di Arik Sharon, che se da una parte ebbe il coraggio di lasciare Gaza, dall’altra evitò come la peste ogni accordo con i palestinesi isolando prima Arafat e ignorando dopo Abu Mazen. Bibi Netanyahu, che in questi vent’anni è riuscito a condizionare la politica israeliana sia dall’opposizione che dal governo, era il grande avversario di Rabin e ha usato gli accordi di Oslo non per raggiungere la pace bensì per suggellare all’infinito una situazione di occupazione e conflitto permanente.

L’esistenza di un’Autorità Palestinese è diventata col tempo un comodo alibi per continuare la colonizzazione della Cisgiordania, mantenerne il controllo militare e rendere Israele libero dalla gestione amministrativa. Non è un caso che Abu Mazen abbia più volte minacciato di sciogliere l’Autorità Palestinese. Dunque gli accordi di Oslo sono sopravvissuti a Rabin, ma non hanno dato spazio alla prospettiva di “Due popoli, due stati”, un concetto formalmente adottato anche da Bibi Netanyahu.

Il sistema democratico israeliano ha reagito alla morte di Rabin in questi anni così come in questi giorni. Con un film coraggioso presentato alla Mostra del Cinema di Venezia Amos Ghitai ha ripercorso con meticolosità i giorni prima e dopo l’assassinio di Rabin. Ogni canale israeliano ha proposto un suo documentario sul tema. Giornali e siti hanno ospitato analisi e testimonianze. Tra tutte spicca quella del fratello dell’assassino, Hagai Amir, che ha raccontato come suo fratello nel 1995 era pronto a morire da “shahid” pur di uccidere Rabin. Hagai aiutò il fratello nella sua impresa anche procurandogli le pallottole, ed è stato da poco incriminato per aver minacciato di morte su Facebook l’attuale capo dello stato Rubi Rivlin (membro dello stesso partito di Netanyahu, il Likud).

Yigal Amir è sempre in galera e il presidente Rivlin ha dichiarato che mai lo grazierà, gli estremisti di destra sono rimasti fuori dall’ultima Knesset, però la furia omicida dei fanatici della destra israeliana non si è fermata. Ancora oggi non sono stati arrestati gli assassini della famiglia di Duma, cellule terroristiche ebraiche operano nell’ombra e allo scoperto nei social network. Episodi di violenza ebraica si susseguono ad altri di parte palestinese in una spirale senza fine, che semina diffidenza, paura e progetti di nuovi muri.

Sabato 31 ottobre il presidente Rivlin e Bill Clinton hanno arringato la folla in piazza Rabin protetti da un muro di vetro antiproiettile. Il timore del ripetersi di un caso Rabin esiste ed è palpabile. La politica di Netanyahu fomenta e cavalca la paura, allontana la speranza, parla della gestione di un conflitto, che non vedrà soluzione per generazioni. In questo modo non rende un buon servizio al suo paese.

La specificità di Israele come paese democratico, tecnologicamente avanzato, aperto al mondo si corrode all’interno di un Medio Oriente dove a guerre sanguinarie tra fondamentalisti si associa la sopravvivenza di regimi politici di stampo medievale. Eppure è proprio questa specificità di Israele che Rabin voleva preservare presentandosi come leader di pace, affidabile, serio, coerente e duro nel difendere la sicurezza dei propri cittadini. Ne abbiamo ancora nostalgia e questo non è un buon segno.

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Il ricordo di Rabin a Tel Aviv tanti giovani per il dialogo

“Sono in piazza Rabin a Tel Aviv, dove si ricorda un uomo di pace che ha creduto fino in fondo nel dialogo israeliano-palestinese, pagando con la vita. La cosa più sorprendente è la partecipazione dei giovani con la bandiera israeliana, a dimostrazione che certi valori profondamente radicati non potranno mai essere messi in discussione da chi vorrebbe portare il Paese a una chiusura in se stesso. Israele è nato come Paese plurale e questa è la sua forza e ricchezza. Si può essere patrioti e nazionalisti in due modi diversi. Ma la capacità di inclusione è quella che Spinoza definisce come lo sviluppo migliore della propria potenza. Certamente mi piacerebbe vedere una manifestazione in ricordo di Rabin anche in un Paese arabo. È questo il grande problema irrisolto. Ma proprio per questo bisogna lavorare tanto”.

Gabriele Nissim, presidente di GariwoRT

5 novembre 2018

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Sergio Della Pergola su Idee

Pubblicato in Idee il ‍‍15/02/2018 – 30 שבט 5778

All’inizio del suo discorso alla nazione, martedì sera in televisione, poteva sembrare che il primo ministro Benjamin Netanyahu stesse per annunciare le sue dimissioni. Dopo aver elencato tutti i suoi meriti di soldato, diplomatico e uomo politico, poteva sembrare logico che seguisse una dichiarazione in cui Netanyahu prendeva atto dell’accusa di corruzione e violazione della fiducia emessa dalla Polizia nei suoi confronti e si ritirava a vita privata, per lo meno temporaneamente, per difendere il suo buon nome. Invece, il discorso è continuato con parole di sfida al sistema dell’ordine pubblico e della giustizia, e si è concluso con una inequivocabile dichiarazione: sono qui, rimango, e resterò.
Nel proclamare questo, Netanyahu si è dimenticato di dire una sola parola di confutazione delle accuse che gli ha mosso la polizia israeliana: l’aver ricevuto un milione di shekel in regali da un potente personaggio al quali è stato restituito il favore attraverso provvedimenti legislativi che avrebbero creato a quest’ultimo enormi benefici fiscali; l’aver interferito attivamente nella stampa quotidiana in modo da far ottenere benefici economici all’editore di Yediot Aharonot. Per questo, anche Arnon Milchan e Arnon Moses sono stati messi sotto accusa dalla polizia. Laddove c’è un corrotto c’è sempre anche un corruttore. In risposta alle accuse, peraltro appunto non smentite, Netanyahu si è rivolto direttamente alla nazione, fissando lo schermo e deridendo e delegittimando le pubbliche istituzioni: la polizia e il sistema giudiziario.
Questo modo di fare è – duole dirlo – dittatoriale. Così come dittatoriale è il quotidiano culto della personalità propria e dei propri familiari. Così come lo è il suo esplicito vanto di fronte alla nazione di essersi immischiato direttamente nell’aprire, chiudere, fondere o sdoppiare canali televisivi. Il regime del sempre più autocratico e accentratore Netanyahu degli ultimi anni – Primo ministro, ministro degli Esteri, ministro delle Comunicazioni responsabile della Televisione di stato, ministro dell’Economia responsabile dello Sviluppo delle fonti di gas sottomarine – è diventato quello di un uomo solo al comando.
Netanyahu ha puntato su alleanze internazionali quasi esclusivamente incentrate su personaggi e regimi di estrema destra erodendo o nullificando altre possibili alleanze. Ha sostenuto una politica economica che favorisce la polarizzazione sociale, l’arricchimento dei ricchi e il declino delle classi medie. Ha svolto una strategia difensiva piena di grandi dichiarazioni che però non sono riuscite ad evitare il surriscaldamento delle frontiere settentrionali e lo scontro militare diretto con l’Iran. Ha praticamente azzerato il ministero degli Esteri, riducendo così la capacità di manovra diplomatica del paese. Ha ceduto le redini degli affari religiosi a circoli estremistici che condizionano pesantemente i suoi governi di coalizione e lo spirito ebraico della nazione. Ha quasi distrutto il rapporto fra Israele e la grande diaspora americana i cui giovani si allontanano rapidamente da Israele. Ha promosso inutili e reazionarie leggi nazionaliste e l’annessione strisciante dei territori, ignorando il grave dilemma demografico dello stato binazionale. Ha cercato di ridurre e circoscrivere il potere della Corte Suprema, mettendo a rischio la divisione dei poteri nello stato democratico. Ha allontanato da sé i collaboratori più validi e si è circondato di lacchè mediocri, sguaiati e totalitari.
Sul piano della trattativa politica o di eventuali nuove iniziative di pace con i palestinesi non ha fatto nulla. La sicurezza e l’immagine di Israele ne sono uscite fortemente compromesse.
Israele è uno stato molto forte, ricco di risorse umane, ottimista e positivo, e con grandi capacità di innovazione e di esecuzione. Ma la gestione Netanyahu ha causato gravissimi danni politici e economici al paese che ne esce indebolito. Netanyahu ha seguito modi di comportamento personali lontanissimi da quelli molto frugali di precedenti primi ministri come David Ben Gurion, Moshe Sharrett, Levi Eshkol, Golda Meir, Menahem Begin, Itzhak Shamir, Itzhak Rabin, e più simili a quelli di Ehud Olmert che è finito in carcere. Ora la polizia lo rimanda al giudizio della Procura di stato che dovrà decidere se iniziare un regolare processo.
Al Primo ministro spetta il diritto di essere considerato innocente finché in tribunale non sarà provato il contrario. Auguriamogli di uscire indenne da questa prova che durerà moltissimi mesi e metterà l’intera società israeliana a dura prova. I danni causati, in ogni caso, sono irreversibili.
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Questo è il mio seicentesimo intervento scritto sul notiziario quotidiano dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche 24 edito dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.
La mia collaborazione è iniziata dieci anni fa e mi ha dato l’occasione di riferire liberamente notizie, idee, preoccupazioni e speranze.
La mia è stata la voce di un ebreo italiano e di un israeliano, democratico, leale al proprio paese, rispettoso delle istituzioni, e al di sopra di tutto appassionato difensore dello Stato d’Israele.
In Israele e a Gerusalemme si è svolta tutta la mia attività professionale, vivono i miei figli e nipoti, e si trova il futuro del Popolo ebraico.
Oggi, dopo gli ultimi straordinari sviluppi politici, per onestà dovrei passare tutto il mio tempo a criticare e stigmatizzare i comportamenti e le responsabilità del Primo ministro di Israele, il cui ruolo e la cui presenza mi paiono deleteri per il futuro del Paese. E questo francamente non è ciò che ci si attende di leggere sulla stampa ebraica.
Pertanto ritengo più opportuno ritirarmi e concludere qui questo bel capitolo di scrittura pubblicistica, ringraziando il direttore Guido Vitale per il suo costante sostegno, e restituendo questo spazio, che mi è stato fin qui gentilmente riservato, ad altri che di sicuro meglio di me sapranno utilizzarlo. Shalom.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

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Sulla giornata della memoria

Quando fu istituita nel 2000, la Giornata della Memoria del 27 gennaio era bellissima, giovane e senza rughe. Quest’anno è appena maggiorenne, eppure mostra alcuni acciacchi. Che cosa l’ha invecchiata? Due distinti fattori. La Giornata della Memoria soffre infatti dei problemi tipici di ogni ricorrenza istituzionalizzata, ma anche di problemi specifici.

Per quanto riguarda i primi, rimandano alla “fatica” di far rivivere un evento eccezionale nella sua drammaticità – e la Shoà è l”evento di tutti gli eventi” – secondo modalità istituzionali. Cioè programmate. Un dramma storico che ha sollevato e solleva turbini di passioni e di dolore, viene necessariamente compresso dentro una cornice, che è di per sé anestetica. Perché in un periodo temporalmente ridotto concentra un significato che fa fatica ad esserlo. E al contempo lo sovraespone in una miriade di iniziative editoriali, educative e politiche, facendone un rituale. Tanto da sollevare obiezioni sulla sua pregnanza anche nello stesso mondo ebraico, basti pensare al pamphlet di Elena Lowenthal “Contro il Giorno della Memoria”, che provocatoriamente invitava a guardare ai pericoli di una memoria non necessariamente positiva perché indirizzata ai morti, mentre l’ebraismo è cultura della vita. Se però si vuole fare un bilancio, accanto a difetti sulla qualità la Giornata ha mostrato anche grandi pregi, per lo più sulla quantità. Averla istituzionalizzata ha infatti coinvolto un numero di persone prima inedito. Le iniziative sono infatti per legge organizzate “in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado”, e il mondo della Scuola ha quasi un milione di insegnanti e personale non docente, poco meno di 10 milioni di studenti che a loro volta hanno in genere due genitori. Nel complesso, il bilancio appare dunque in attivo. Molte scuole e i loro alunni hanno anche visitato di persona Auschwitz-Birkenau, vedendo con i propri occhi la reale esistenza di quell’entrata infernale prima solo vista nel film “Schinder’s List”, quando il treno dei deportati arriva nel Campo di sterminio, e perciò inverandola. Un’esperienza fatta con i testimoni sopravvissuti allo sterminio nazista, a cui il regime fascista collaborò attivamente con le leggi razziali, di cui quest’anno ricorre l’80esimo.

Ma ciò era possibile con la memoria diretta, con la testimonianza dei testimoni. Si avvicina però il momento nel quale essi non ci saranno più, e non sarà più possibile ascoltare dal vivo le loro testimonianze, come per esempio quella di Sami Modiano, che vedremo nel commovente film di Walter Veltroni stasera in tv.

Passare però da una memoria diretta all’attivazione di una memoria indiretta e “secondaria” non è un passaggio né semplice né automatico, come è ben chiaro allo Yad Vashem – l’Ente Nazionale per la Memoria della Shoà, istituito nel 1953 a Gerusalemme – che vi lavora oramai da anni. Ed essendo questo processo già cominciato, qui iniziano i problemi specifici della Giornata della Memoria.

Questa “seconda” memoria è infatti cosa totalmente diversa da quella diretta. Perché a definirne il perimetro e i caratteri non è più l’identità del Persecutore, bensì l’identità della Vittima. E mentre sul nazismo vi sono pochi dubbi o contese, i problemi sorgono quando a definire la Giornata della Memoria è l’identità della vittima. Perché l’identità ebraica, malgrado il tentativo della Soluzione Finale è per fortuna ancora vitale e pulsante, ed è per questo dinamica.  Muta nel tempo e nello spazio del Politico.

Essa è composta da due polmoni, lo Stato d’Israele e la Diaspora. In ambedue vi è oggi una fortissima tendenza ad isolarsi, a cercare di far da sé, vista anche la propria accresciuta forza relativa, pensando che da fuori possano venire più problemi che opportunità. Che occorre chiudersi e non aprirsi. Questa chiusura identitaria ha però effetti perniciosi sul tipo di memoria secondaria che si sta costruendo. Con il rischio di farla meno larga e condivisa. Oltre che di impoverire la forte carica etica dell’ebraismo, che può dispiegarsi solo in una equilibrata dialettica tra passato e presente.

Lo si è visto di recente a Milano, quando da un lato vi è stato fastidio in piccola parte della locale comunità ebraica sulla Giornata della Memoria come è oggi, con il rischio di delegittimarla invece che migliorarla. E dall’altro, forse di conseguenza, il copresidente della comunità ebraica milanese ha ritenuto di fare un chiaro gesto di sostegno ad un candidato alla Regione che aveva dichiarato di voler tutelare “la razza bianca”. Anche se poi la comunità ha ufficialmente sconfessato il gesto. Che occorra reinventare la Giornata della Memoria è dunque fuori di dubbio. Se si vuole raccogliere però in modo corretto il testimone dalla prima generazione, occorrerà un doppio sforzo. Evitare certo la retorica e il rituale, che spesso prescinde dal presente dei vivi. Ma anche la sua sola attualizzazione nel presente e nella politica di oggi, con il rischio di far torto ai morti.

Fabio Nicolucci

(articolo uscito su Il Messaggero e Il Mattino di sabato 27 gennaio 2018)

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Rabin e il lento suicidio di Israele

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Vent’anni dopo. «La pace si negozia con i nemici – ripeteva con forza – e la faremo ad ogni costo». A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola – quasi una riedizione di quelli sparati a Sarajevo – chiusero la prima porta verso la pace.

di Giuseppe Cassini

 

Edizione del 04.11.2015

Con lo sguardo lungo si vede meglio quando è ini­ziato il cam­mino d’Israele verso il sui­ci­dio: è ini­ziato 20 anni fa, il 4 novem­bre 1995, con l’assissinio di Rabin per mano di un ebreo estre­mi­sta. Il mese prima era­vamo al Ver­tice di Amman: le parole di Rabin e dei lea­der pale­sti­nesi lascia­vano pre­sa­gire com­pro­messi immi­nenti e riso­lu­tivi. Incon­trai Rabin un’ultima volta a cena: i suoi occhi di un azzurro intenso, ogni volta che ti fis­sa­vano infon­de­vano fidu­cia e un senso di visione. «La pace si nego­zia con i nemici — ripe­teva con forza — e la faremo ad ogni costo». Ad ogni costo? A lui costò la vita: quei tre colpi di pistola — quasi una rie­di­zione di quelli spa­rati a Sara­jevo — chiu­sero la prima porta verso la pace.

Poi fu un seguito di occa­sioni spre­cate. Marzo 2002, al Ver­tice della Lega Araba a Bei­rut vedemmo il re sau­dita pre­sen­tare un piano di pace impec­ca­bile, accet­tato da tutti mem­bri della Lega Araba. Ecco, final­mente ci siamo — pen­savo io — ma Tel Aviv la pen­sava diver­sa­mente. Gen­naio 2006, ele­zioni in Pale­stina e vit­to­ria di Hamas a Gaza: Israele spinse Usa e Ue a disco­no­scerne i risul­tati, ben­ché gli osser­va­tori inter­na­zio­nali con­fer­mas­sero che le ele­zioni si erano svolte senza bro­gli. Il resto del mondo iro­niz­zava: demo­cra­zia à la carte? Luglio 2006, Tsa­hal seminò di morte mezzo Libano per eli­mi­nare Hez­bol­lah e i suoi razzi arti­gia­nali; oggi Hez­bol­lah pos­siede mis­sili a lunga git­tata (altro che razzi!) in grado di col­pire mezzo Israele. E poi 2008, 2009, 2012, 2014: Tsa­hal mar­tellò Gaza nel ten­ta­tivo di eli­mi­nare razzi, tun­nel e capi di Hamas (quel par­tito che Israele stesso aveva aiu­tato a nascere per desta­bi­liz­zare al-Fatah), al prezzo di migliaia di vit­time civili, senza pietà verso feriti e rifu­giati negli ospe­dali e nelle scuole dell’Unrwa.

A che pro? Per farsi con­dan­nare dall’ONU un’ennesima volta e istil­lare nuova linfa nella resi­stenza pale­sti­nese. Ecco, infatti, la Terza Inti­fada. Chi viag­gia oggi­giorno in Ter­ra­santa non trova trac­cia dello spi­rito ideale dei kib­butz, incro­cia piut­to­sto gruppi di orto­dossi che ti squa­drano con occhiate lam­peg­gianti di fana­ti­smo; e se cam­mini di sabato nei loro quar­tieri puoi bec­carti anche qual­che sas­sata. Forte della sua mag­gio­ranza alla Knes­set, Neta­nyahu con­duce len­ta­mente il Paese al sui­ci­dio invi­tando ebrei inva­sati ad occu­pare terre non loro, ren­dendo impos­si­bile la solu­zione dei due Stati, invi­tando i suoi con­cit­ta­dini ad armarsi, eri­gendo muri su muri, umi­liando i pale­sti­nesi mode­rati… e lo stesso Obama davanti al Con­gresso. Soste­nendo infine (lui figlio di uno sto­rico!) che il pro­getto dell’Olocausto fu ispi­rato a Hitler dal Gran Mufti di Geru­sa­lemme. Quos Deus vult per­dere, demen­tat prius.

È pro­prio vero: a coloro che vuol rovi­nare, Dio toglie anzi­tutto la ragione. Iden­ti­fi­care il popolo ebraico con lo Stato israe­liano fini­sce per «giu­sti­fi­care» — in una logica uguale e con­tra­ria – il dila­gare dell’antisemitismo in Europa. E pre­sto anche in Ame­rica. Già ora gran parte dei Demo­cra­tici, che un tempo erano i più osse­quienti alle «ragioni» d’Israele, hanno preso le distanze. Lo stesso Obama, un tipo in genere assai calmo, ha perso le staffe più volte. Memo­ra­bile lo scam­bio di bat­tute fuori onda con Sar­kozy al G20 di Can­nes nel 2011: «Non ne posso più di Neta­nyahu, è un bugiardo!» aveva bisbi­gliato Sar­kozy; e Obama di rimando: «Lo dici a me che devo trat­tare ogni giorno con lui?».

I sio­ni­sti ame­ri­cani che vedono in Israele la rea­liz­za­zione in terra delle pro­fe­zie bibli­che – tipi come il pastore John Hagee, fac­cia e stazza texana, che bene­diva i raid israe­liani con pre­di­che ispi­rate («L’umanità verrà giu­di­cata per le sue azioni nei riguardi d’Israele») – sareb­bero capaci con pari fana­ti­smo di riab­brac­ciare l’antico anti­se­mi­ti­smo se un giorno si risve­glias­sero con que­sta domanda: pos­si­bile che un pic­colo Stato stra­niero tenga in scacco da mezzo secolo la super-potenza del mondo? Non per niente Israele si guarda bene dal seguire gli altri 123 mem­bri dell’Onu che hanno ade­rito alla Corte Penale Inter­na­zio­nale: per­ché il suo obiet­tivo non è di accet­tare la sfida nei pro­cessi, bensì di star fuori dai pro­cessi (per­ciò Ber­lu­sconi faceva il tifo per Neta­nyahu). L’occupazione mili­tare sta met­tendo in peri­colo la sicu­rezza stessa che dovrebbe tute­lare. E le destre euro­pee e ame­ri­cane, per­si­stendo a garan­tire l’impunità ad Israele, stanno in realtà sca­van­do­gli la fossa: l’ha capito prima degli altri l’ex-presidente della Knes­set, Avra­ham Burg, quando ha scon­giu­rato di “sal­vare Israele da se stesso”.

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Israele “Stato-nazione” del popolo ebraico. Ecco perché la legge fa tanto discutere.

Intervista a Janiki Cingoli, Presidente di CIPMO, a cura di Michele Lipori, Redazione Confronti.Le critiche più importanti alla “Legge Fondamentale” presentata recentemente alla Knesset col nome “Israel as the Nation State of the Jewish People” (approvata il 18 luglio 2018) è che nell’affermare i principi ebraici non garantisca l’uguaglianza alle minoranze (cittadini d’Israele), in primis quella araba. Qual è la sua opinione in merito?
La mia valutazione generale, per il modo in cui è stata formulata, è che questa sia una legge inutile e sostanzialmente propagandistica. Il fatto che Israele sia uno “Stato ebraico” è già chiaramente affermato nella risoluzione 181 dell’Onu del 29 novembre 1947 (che prevedeva la divisione i territori della Palestina storica in tre parti: uno Stato ebraico, uno palestinese e una zona internazionale con Gerusalemme e Betlemme, ndr). Ed anche la Dichiarazione di indipendenza del ’48 lo riaffermò a chiare lettere. Riproporlo, con una sottolineature così forte sulla questione della “componente ebraica” è un atto di arroganza che non può non preoccupare le minoranze che vivono in Israele. Mi riferisco naturalmente agli israeliani arabo-palestinesi, ma anche ai drusi, che sono talmente fedeli allo stato d’Israele da servire nell’esercito e che però sono molto feriti e delusi dall’approvazione di questa legge.

Ma ci sono altri elementi negativi. Mi riferisco al punto 7, in cui si afferma la necessità di sostenere ed anche espandere gli insediamenti ebraici (con riferimento a quelli localizzati in Cisgiordania, ma anche in Israele). Quest’ultimo aspetto ha sollevato moltissime polemiche, perché sono stati diversi i tentativi in Israele di costituire comunità in cui gli arabi non potessero essere ammessi, nonostante una sentenza della Corte Suprema abbia dichiarato illegittima questa pratica. È strano, comunque, che questo punto sia stato poco sottolineato nei diversi commenti. Ma la questione essenziale non è solo ciò che la legge dice, ma ciò che tace. L’accento è posto esclusivamente sugli ebrei, mentre non c’è mai menzione delle varie minoranze se non in quei passaggi in cui si dice che (punto 4b) la lingua araba avrà uno statuto “speciale”, cessando di essere considerata seconda lingua ufficiale dello stato. L’esistenza stessa delle minoranze viene rimossa. Il passo indietro è enorme. Infatti, nella Dichiarazione di Indipendenza del 1948, nonostante ci fossero conflitti aperti in atto, era contenuto un appello «alla popolazione araba dello Stato d’Israele a preservare la pace e a partecipare alla costruzione dello Stato sulla base di una piena e uguale cittadinanza e con la debita rappresentanza in tutte le sue istituzioni, provvisorie e permanenti».

Un afflato che manca completamente nella legge appena approvata. E non possiamo dimenticare che gli arabo-palestinesi israeliani rappresentano circa il 20% della popolazione totale. Persino i drusi, che pure fanno il servizio militare e sono considerati amici fedeli, sono ignorati, il che ha provocato la loro rivolta. Il problema per queste minoranze, va detto, non è il diritto all’autodeterminazione nazionale – questa è una cosa che devono rivendicare, piuttosto, i palestinesi di Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est – quanto il loro riconoscimento collettivo in quanto minoranze e la tutela dei loro diritti di cittadini.

A cosa può portare questo declassamento?
L’atteggiamento di Netanyahu è quello di chi vuole rivendicare il diritto della maggioranza ad approvare delle leggi che siano di gradimento della maggioranza, senza ricordare che il limite della maggioranza è nel rispetto delle minoranze interne allo Stato. La Dichiarazione di Indipendenza garantisce l’uguaglianza di tutti i cittadini qualsiasi sia la loro razza, il loro sesso o la loro religione. Ma l‘uguaglianza dei singoli cittadini (per cui ad ogni persona corrisponde un voto), non è sufficiente a garantire le minoranze, perché come si è visto la maggioranza può fare leggi per opprimerle o cancellarle. Va garantito il riconoscimento collettivo della loro identità e vanno loro attribuiti diritti positivi a loro tutela, come l’equa rappresentanza nelle diverse istituzioni dello Stato, la proporzione nel pubblico impiego, l’uso della loro lingua, la gestione di loro scuole, e un’equa ripartizione delle entrate fiscali.

Come nel caso del Sud-Tirolo…
Esattamente, anche se certo non può essere preso come un modello, ma come una esperienza estremamente avanzata, credo la più avanzata in Europa. Per fare un esempio concreto penso all’art. 6 della Costituzione italiana che riconosce la necessità di una tutela delle minoranze linguistiche. Poi, unitamente all’Accordo De Gasperi-Gruber e agli altri trattati con Vienna, ratificati successivamente dalla Risoluzione 1661 dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, veniva garantito uno Statuto di Autonomia alle minoranze tedesca e ladina in alto Adige composte rispettivamente da 300.000 e da 30.000 persone (e si pensi – a questo proposito – alla ben maggiore incidenza percentuale, sul piano demografico, della popolazione araba e drusa in Israele). Tale riconoscimento conferisce, come si diceva, dei diritti positivi, come un ritorno delle tasse, una presenza proporzionale nei corpi pubblici (consigli comunali, ecc.) e una presenza proporzionale nel pubblico impiego nei diversi livelli, la parità d’uso nella lingua, la gestione delle scuole. Sono questi i modi per garantire che la maggioranza non schiacci le minoranze.

Bisogna dire che, nel tempo, in Israele sono stati dei fatti dei passi in avanti sulla questione della maggiore rappresentanza dei palestinesi-israeliani nell’amministrazione pubblica, come anche per una maggiore allocazione di fondi per questa minoranza (c’è una legge che stanzia 6 miliardi di Shekel a favore delle cittadine abitate dagli arabi). Quello che notiamo è uno sforzo maggiore sul piano economico, a scapito della rappresentanza politica. Questa legge è emblematica di questa tendenza.

Come vede la minoranza arabo-palestinese che vive in Israele?
Posso riportare delle esperienze recenti, in collaborazione con l’Associazione Antenna Cipmo con sede a Bolzano (che ha un’identità autonoma da Cipmo) e con l’istituto di ricerca Europeo Eurac, dedito allo studio dei diritti delle minoranze. In particolare, lo scorso gennaio abbiamo organizzato insieme a loro una missione in Israele proprio su questo tema, della minoranza arabo-palestinese, a cui farà seguito nel prossimo novembre, una missione di ritorno, capeggiata da due deputati della Knesset: uno arabo e l’altro ebreo, nonché da altri membri della società civile. Quello che ci ha più colpiti della missione di gennaio è constatare come i palestinesi israeliani della nuova generazione, pur consapevoli della condizione sfavorevole in cui ancora versano, abbiano sviluppato una volontà tenace di accettare la sfida per cui sono chiamati a lottare. Questa nuova generazione è, infatti, molto acculturata perché le famiglie investono molto sull’istruzione. Inoltre, sebbene si senta partecipe delle sorti del popolo palestinese in senso più ampio, la maggioranza dei palestinesi israeliani (le statistiche parlano di oltre il 60%) risponde – non a caso – di voler rimanere in Israele anche nel caso dovesse finalmente costituirsi uno Stato palestinese. Quello che osserviamo è una generazione che “lancia il cuore oltre l’ostacolo” e vuole dimostrare nei fatti che la popolazione arabo-palestinese può progredire e colmare il proprio gap all’interno della società israeliana. D’altra parte anche Israele ha l’esigenza di colmare i gap presenti al suo interno, sia per quanto riguarda la condizione degli arabo-palestinesi, sia di quella degli ebrei ortodossi: due settori il cui ritardo, pur dovuto a fattori diversi, costituisce un handicap grave per lo sviluppo complessivo del paese.

Nella legge viene menzionata anche la questione di Gerusalemme capitale unica e indivisibile. Questo significa negare la possibilità di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme est?
Persino le formulazioni di Trump, quando ha riconosciuto Gerusalemme come Capitale di Israele, ponevano dei paletti: veniva anche detto che con tale affermazione non si voleva incidere sulla questione dei confini tra israeliani e palestinesi all’interno di Gerusalemme, né su quella più generale dei futuri confini tra israeliani e palestinesi. È significativo come sia gli israeliani sia i palestinesi, per motivi differenti, abbiano trascurato questi caveat, e abbiano interpretato la dichiarazione di Trump come attribuzione della sovranità sulla intera Gerusalemme ad Israele: gli israeliani perché faceva loro comodo intenderla in questo modo, i palestinesi perché dovevano “vendere” in blocco all’opinione pubblica, soprattutto araba, il tradimento USA su Gerusalemme, anche per bloccare le derive in corso dei maggiori Stati arabi.

Ma i motivi che ostacolano la costituzione dello Stato palestinese sono molti. Tra l’altro, il presidente Abbas, che è oramai alla fine della sua carriera politica ed è gravemente malato, non vuole passare alla storia per aver fatto delle concessioni importanti a Israele su questioni delicatissime come quelle di Gerusalemme, dei confini e del “Diritto al ritorno”. Il problema sta nel fatto che senza concessioni sarà molto difficile che possa costituirsi davvero uno Stato palestinese.

Quanto a questo fantomatico Piano USA, il “Final Deal” di cui ha parlato Trump, le previsioni generali che questo piano ipotetico continuerà ad aleggiare senza essere reso pubblico. Una delle ipotesi più plausibili è che gli USA cerchino di ottenere un avallo preventivo da Arabia Saudita, Emirati, Egitto e Giordania, mettendo così i palestinesi di fronte alla scelta se accettare delle condizioni ritenute inaccettabili o scontentare gli stati arabi “fratelli”.

Altro elemento ostativo è la scissione con Hamas. Continuano da parte egiziana i tentativi di arrivare ad un accordo interpalestinese, che naufragano puntualmente perché né Hamas né Abbas vogliono mollare la presa sui territori da loro controllati, Gaza e la Cisgiordania, in caso di esito avverso del voto, e soprattutto il Presidente Abbas pretende che l’Autorità palestinese riprenda il controllo integrale su Gaza, inclusa la forza militare, che invece Hamas non è disposto a cedere.

Ma c’è anche un altro elemento di ostacolo, che ha a che fare con un’idea di spartizione dei territori più complessa di come normalmente viene intesa. Infatti, si cerca di arrivare ad una stabilizzazione di Gaza, con il sostegno degli Stati Uniti, dell’Arabia saudita e dello stesso Israele (a patto però di una rinuncia da parte di Hamas di ogni attacco contro Israele).

Ma questa tregua di lungo periodo porterebbe a lungo andare alla costituzione non di due stati, né di uno stato unico binazionale, di cui tanto si parla oggi: ma di tre, o meglio di “due stati e mezzo”: Israele, Gaza, e una Cisgiordania erosa dagli insediamenti. Infatti, lo stesso Israele non ha davvero la volontà di annientare Hamas, perché teme che al suo posto possano insediarsi Isis o altre correnti jihadistiche, oppure in caso contrario perché teme di doversi nuovamente fare carico della amministrazione civile della Striscia.

Un ultimo elemento di stallo è che Hamas detiene i corpi di due soldati caduti e due civili israeliani, per il cui rilascio richiede uno scambio con prigionieri detenuti nelle carceri israeliane. Naturalmente, anche in questo caso, nessuno vuole fare il primo passo.

Fonte: Confronti

“Il volto di Israele sta cambiando” – Intervista a Janiki Cingoli – Rai Radio3 Mondo – Ascolta

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