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Israel Is Falling Into an Abyss

David Grossman , The New York Times , 1 Marzo 2024

Mentre la mattina del 7 ottobre si allontana, i suoi orrori sembrano solo aumentare. Ancora e ancora, noi israeliani ci raccontiamo ciò che è diventato parte della storia formativa della nostra identità e del nostro destino. Come per diverse ore i terroristi di Hamas abbiano invaso le case degli israeliani, ucciso circa 1.200 persone, stuprato e rapito, saccheggiato e bruciato. Durante quelle ore da incubo, prima che le Forze di Difesa Israeliane si riprendessero dallo shock, gli israeliani hanno avuto un’idea dura e concreta di ciò che potrebbe accadere se il loro Paese non solo subisse un duro colpo, ma cessasse davvero di esistere. Se Israele non fosse più.

Ho parlato con persone ebree che vivono fuori da Israele e che hanno detto che la loro esistenza fisica – e spirituale – si è sentita vulnerabile durante quelle ore. Ma non solo: Qualcosa della loro forza vitale era stato preso, per sempre. Alcuni sono stati persino sorpresi dall’entità del bisogno che avevano dell’esistenza di Israele, sia come idea che come fatto concreto.

Mentre l’esercito iniziava a contrattaccare, la società civile si stava già arruolando in massa nelle operazioni di soccorso e logistiche, con molte migliaia di cittadini che si offrivano volontari per fare ciò che il governo avrebbe dovuto fare se non fosse stato in uno stato di paralisi incosciente.

Al momento della pubblicazione, secondo i dati del Ministero della Sanità di Gaza gestito da Hamas, più di 30.000 palestinesi sono stati uccisi nella Striscia di Gaza dal 7 ottobre. Tra questi ci sono molti bambini, donne e civili, molti dei quali non erano membri di Hamas e non hanno avuto alcun ruolo nel ciclo della guerra. “Non coinvolti”, come li chiama Israele in conflittese, il linguaggio con cui le nazioni in guerra si ingannano per non affrontare le ripercussioni dei loro atti.

Il famoso studioso di cabala Gershom Scholem ha coniato un detto: “Tutto il sangue scorre verso la ferita”. Quasi cinque mesi dopo il massacro, Israele si sente così. La paura, lo shock, la furia, il dolore, l’umiliazione e la vendetta, le energie mentali di un’intera nazione – tutto questo non ha smesso di fluire verso quella ferita, verso l’abisso in cui stiamo ancora cadendo.

Non possiamo mettere da parte il pensiero delle ragazze e delle donne, e anche degli uomini, a quanto pare, che sono stati violentati dagli aggressori di Gaza, assassini che hanno filmato i loro crimini e li hanno trasmessi in diretta alle famiglie delle vittime; dei bambini uccisi; delle famiglie bruciate vive.

E degli ostaggi. Quegli israeliani che da 146 giorni sono tenuti nei tunnel, alcuni forse in gabbia. Sono bambini e anziani, donne e uomini, alcuni dei quali sono malati e forse stanno morendo per l’ossigeno e le medicine insufficienti e per la mancanza di speranza. O forse stanno morendo perché i normali esseri umani esposti al male assoluto e demoniaco spesso perdono l’innata voglia di vivere, la voglia di vivere in un mondo in cui sono possibili tanta malvagità e crudeltà. In cui vivono persone come i terroristi di Hamas.

L’enormità degli eventi del 7 ottobre a volte cancella la memoria di ciò che è venuto prima. Eppure, circa nove mesi prima del massacro, nella società israeliana si stavano manifestando crepe allarmanti. Il governo, con Benjamin Netanyahu a capo, stava cercando di far passare una serie di provvedimenti legislativi volti a indebolire fortemente l’autorità della Corte Suprema, infliggendo così un colpo letale al carattere democratico di Israele. Centinaia di migliaia di cittadini sono scesi in piazza ogni settimana, tutti quei mesi fa, per protestare contro il piano del governo. La destra israeliana sosteneva il governo. L’intera nazione stava diventando sempre più polarizzata. Quella che una volta era una legittima discussione ideologica tra destra e sinistra si era evoluta in uno spettacolo di profondo odio tra le varie tribù. Il discorso pubblico era diventato violento e tossico. Si parlava di dividere il Paese in due popoli separati. L’opinione pubblica israeliana sentiva che le fondamenta della sua casa nazionale stavano tremando e rischiavano di crollare.

Per coloro che vivono in Paesi in cui il concetto di casa è dato per scontato, devo spiegare che per me, attraverso la mia lente israeliana, la parola “casa” significa una sensazione di sicurezza, di difesa e di appartenenza che avvolge la mente di calore. Casa è un luogo in cui posso esistere con facilità. Ed è un luogo i cui confini sono riconosciuti da tutti, in particolare dai miei vicini.

Ma tutto questo, per me, è ancora immerso in un desiderio di qualcosa che non è mai stato pienamente raggiunto. Attualmente, temo che Israele sia più una fortezza che una casa. Non offre né sicurezza né agio, e i miei vicini nutrono molti dubbi e richieste sulle sue stanze e sulle sue mura e, in alcuni casi, sulla sua stessa esistenza. In quel terribile sabato nero, è emerso che non solo Israele è ancora lontano dall’essere una casa nel senso pieno del termine, ma non sa nemmeno come essere una vera fortezza.

Tuttavia, gli israeliani sono giustamente orgogliosi del modo rapido ed efficiente in cui si radunano per offrire sostegno reciproco quando il Paese è minacciato, sia da una pandemia come la Covid-19 che da una guerra. In tutto il mondo, i soldati della riserva sono saliti sugli aerei per raggiungere i loro compagni già chiamati alle armi. Andavano “a proteggere la nostra casa”, come dicevano spesso nelle interviste. C’era qualcosa di commovente in questa storia unica: Questi giovani uomini e donne si sono precipitati al fronte dai confini del mondo per proteggere i loro genitori e nonni. Ed erano pronti a dare la vita. Altrettanto commovente è stato il senso di unità che prevaleva nelle tende dei soldati, dove le opinioni politiche non erano importanti. Tutto ciò che contava era la solidarietà e il cameratismo.

Ma gli israeliani della mia generazione, che hanno vissuto molte guerre, si stanno già chiedendo, come facciamo sempre dopo una guerra: Perché questa unità emerge solo nei momenti di crisi? Perché solo le minacce e i pericoli ci rendono coesi e fanno emergere il meglio di noi, e ci sottraggono anche alla nostra strana attrazione per l’autodistruzione, per la distruzione della nostra stessa casa?

Queste domande provocano un’intuizione dolorosa: La profonda disperazione provata dalla maggior parte degli israeliani dopo il massacro potrebbe essere il risultato della condizione ebraica in cui siamo stati nuovamente gettati. È la condizione di una nazione perseguitata e non protetta. Una nazione che, nonostante i suoi enormi successi in tanti campi, è ancora, nel profondo, una nazione di rifugiati, permeata dalla prospettiva di essere sradicata anche dopo quasi 76 anni di sovranità. Oggi è più chiaro che mai che dovremo sempre vigilare su questa casa fragile e penetrabile. È stato chiarito anche quanto sia radicato l’odio di questa nazione

Nelle manifestazioni a cui partecipano centinaia di migliaia di persone, nei campus delle università più prestigiose, sui social media e nelle moschee di tutto il mondo, il diritto all’esistenza di Israele viene spesso contestato con entusiasmo. Una critica politica ragionevole che tenga conto della complessità della situazione può cedere il passo – quando si tratta di Israele – a una retorica dell’odio che può essere raffreddata (se mai lo sarà) solo dalla distruzione dello Stato di Israele. Per esempio, quando Saddam Hussein uccise migliaia di curdi con armi chimiche, non ci furono appelli a demolire l’Iraq, a cancellarlo dalla faccia della terra. Solo quando si tratta di Israele è accettabile chiedere pubblicamente l’eliminazione di uno Stato.

I manifestanti, le voci autorevoli e i leader pubblici dovrebbero chiedersi cosa c’è in Israele che provoca questo disgusto. Perché Israele, tra i 195 Paesi del pianeta, è l’unico ad essere condizionato, come se la sua esistenza dipendesse dalla buona volontà delle altre nazioni del mondo?

È nauseante pensare che questo odio omicida sia rivolto esclusivamente a un popolo che meno di un secolo fa era stato quasi sradicato. C’è anche qualcosa di irritante nel tortuoso e cinico collegamento tra l’ansia esistenziale degli ebrei e il desiderio espresso pubblicamente da Iran, Hezbollah, Hamas e altri che Israele cessi di esistere. È inoltre intollerabile che alcune parti cerchino di costringere il conflitto israelo-palestinese in un quadro colonialista, dimenticando volontariamente e ostinatamente che gli ebrei non hanno un altro Paese, a differenza di quanto avviene per gli altri popoli.

I colonialisti europei a cui vengono falsamente paragonati, e oscurano il fatto che gli ebrei non sono arrivati in terra d’Israele per conquistare, ma in cerca di sicurezza; che la loro forte affinità con questa terra ha quasi 4.000 anni; che è qui che sono emersi come nazione, religione, cultura e lingua.

Si può immaginare la gioia maliziosa con cui queste persone calpestano il punto più fragile della nazione ebraica, il suo senso di estraneità, la sua solitudine esistenziale – quel punto da cui non ha rifugio. È questo punto che spesso la condanna a commettere errori fatali e distruttivi, distruttivi sia per i suoi nemici che per se stessa.

Chi saremo – israeliani e palestinesi – quando questa lunga e crudele guerra sarà terminata? Non solo il ricordo delle atrocità inflitte l’uno all’altro ci separerà per molti anni, ma anche, come è chiaro a tutti noi, non appena Hamas ne avrà la possibilità, metterà rapidamente in atto l’obiettivo chiaramente indicato nel suo statuto originale: il dovere religioso di distruggere Israele.

Come possiamo quindi firmare un trattato di pace con un tale nemico?

Eppure, che scelta abbiamo?

I palestinesi faranno i conti da soli. Io, come israeliano, mi chiedo che tipo di persone saremo quando la guerra finirà. Dove indirizzeremo il nostro senso di colpa – se saremo abbastanza coraggiosi da provarlo – per ciò che abbiamo inflitto a palestinesi innocenti? Per le migliaia di bambini che abbiamo ucciso. Per le famiglie che abbiamo distrutto.

E come impareremo, per non essere mai più sorpresi, a vivere una vita piena sul filo del rasoio? Ma quanti vogliono vivere la propria vita e crescere i propri figli sul filo del rasoio? E quale prezzo pagheremo per vivere in costante vigilanza e sospetto, in perenne paura? Chi di noi deciderà di non voler – o di non poter – vivere la vita di un eterno soldato, di uno spartano?

Chi resterà qui in Israele, e quelli che resteranno saranno i più estremi, i più fanaticamente religiosi, nazionalisti, razzisti? Siamo condannati a guardare, paralizzati, mentre l’audacia, la creatività, l’unicità di Israele viene gradualmente assorbita nella tragica ferita dell’ebraismo?

Chi resterà qui in Israele, e quelli che resteranno saranno i più estremi, i più fanaticamente religiosi, nazionalisti, razzisti? Siamo condannati a guardare, paralizzati, mentre l’audacia, la creatività e l’unicità di Israele vengono gradualmente assorbite nella tragica ferita dell’ebraismo?

Queste domande probabilmente accompagneranno Israele per anni. Esiste, tuttavia, la possibilità che una realtà radicalmente diversa sorga per contrastarle. Forse il riconoscimento che questa guerra non può essere vinta e, inoltre, che non possiamo sostenere l’occupazione all’infinito, costringerà entrambe le parti ad accettare una soluzione a due Stati che, nonostante i suoi svantaggi e i suoi rischi (primo fra tutti, che Hamas prenda il controllo della Palestina in un’elezione democratica), è ancora l’unica praticabile?

Questo è anche il momento per gli Stati che possono esercitare un’influenza sulle due parti di usarla. Non è il momento della politica spicciola e della diplomazia cinica. È un momento raro in cui un’onda d’urto come quella che abbiamo vissuto il 7 ottobre ha il potere di rimodellare la realtà. I Paesi coinvolti nel conflitto non vedono che israeliani e palestinesi non sono più in grado di salvarsi da soli?

I prossimi mesi determineranno il destino di due popoli. Scopriremo se il conflitto che dura da più di un secolo è maturo per una risoluzione ragionevole, morale e umana.

È tragico che questo avvenga – se davvero avverrà – non per speranza ed entusiasmo, ma per stanchezza e disperazione. D’altra parte, questo è lo stato d’animo che spesso porta i nemici a riconciliarsi, e oggi è tutto ciò che possiamo sperare. E quindi ci accontenteremo. Sembra che abbiamo dovuto attraversare l’inferno stesso per arrivare al luogo da cui si può vedere, in una giornata eccezionalmente luminosa, il bordo lontano del cielo.

David Grossman

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Il Diario di Eshkol Nevo da Israele, quinta puntata: «I segni di un incubo che non vuole finire»

di Eshkol Nevo

Scrivo narrativa. Ho sempre scritto narrativa. Ho sempre trovato molto più interessante rispondere alla domanda «cosa sarebbe potuto succedere» piuttosto che alla domanda «cos’è successo». Ai miei studenti di scrittura creativa insegno: la realtà rappresenta un buon materiale di partenza. Prendete il necessario, ma non lasciate che vi limiti. Per trasformare un evento biografico che vi è successo in una storia, lo dovete portare all’estremo. Se quello che vi è capitato era in carattere 12, quando scrivete ingranditelo a carattere 48. Sarà più incisivo, più pericoloso, e perciò più interessante. Ma cosa fare durante una guerra, quando la realtà stessa si estremizza, fuoriesce dai propri confini e diventa infinitamente più drammatica? Dal 7 ottobre immagazzino momenti. Ascolto molto. Documento. Per la prima volta nella mia vita scrivo la realtà, così com’è.

Soltanto quando arrivo sul taxi che è venuto a prendermi dopo la conferenza do un’occhiata al cellulare per controllare le notizie, e subito mi sfugge di bocca un’esclamazione: oh! No! Il tassista si ferma con uno stridio di freni. Accosta. Cos’è successo? Si gira verso di me, allarmato. Dall’accento capisco che è arabo. Ha dimenticato qualcosa nella sala, signore? Vuole tornare indietro? No, rispondo, lasci perdere, sono le notizie. Una cosa che ho letto sul sito delle notizie. Cos’è successo? Insiste, vuole sapere. Capisco che non ho scelta, devo raccontare altrimenti non si riparte. È Idan Amedi, il cantante Idan Amedi, gli dico, è stato gravemente ferito a Gaza. Non lo conosco, dice l’autista. Che canzoni canta? Canzoni bellissime, dico, canzoni che ti toccano l’anima. Me ne canta una? chiede. Canticchio il ritornello di Parte del tempo e la prima strofa di Dolore dei combattenti, fermandomi apposta prima del ritornello sugli incubi e il sangue. Il tassista non le riconosce. Mi faccia vedere una foto, prega. Cerco su Google una foto di Idan Amidi senza uniforme. Gliela mostro. Ah, sorride, è Sagi, l’attore di Fauda. Che uomo. Sì, confermo, Idan recita in Fauda ed è un vero uomo. Dopo che ci siamo trovati d’accordo l’autista si tranquillizza, mi restituisce il telefono e si reimmette nel traffico. Le strade sono vuote. La notte è silenziosa. Una luna quasi piena illumina l’autostrada. Se credessi in Dio, pregherei.

Stiamo per congedarci dalla nostra figlia soldatessa, siamo venuti a trovarla alla base. La prima visita dall’inizio della guerra. Mia moglie le consegna gli ultimi contenitori di plastica pieni di cibo. Le sorelle più piccole scattano una foto assieme a lei. Poi un’altra, da un’angolazione diversa. Il mio sguardo vaga, si sposta all’esterno. Attraverso la vetrata noto una soldatessa che si avvicina a un soldato. Sono distanti una decina di metri, che lei percorre veloce. Di volata. Lui si muove verso di lei più lento. Più pesante. Più impolverato. Un attimo prima di toccarsi, entrambi spostano il fucile dietro la schiena in un gesto quasi coordinato, così da potersi abbracciare. Si abbracciano a lungo. Poi scostano un pochino la testa per baciarsi sulla bocca. Non piangevo dall’inizio della guerra. Non ci riuscivo. Ma qualcosa nel modo in cui lei gli ha carezzato la testa mentre lo baciava. Nel modo in cui lui si è lasciato andare tra le braccia di lei. Papà? Mia figlia, la soldatessa, mi guarda sorpresa. Piangi? Annuisco. Non ti preoccupare, papino, mi rassicura, sabato prossimo torno in licenza. Andrà tutto bene.

Mio padre ha costruito una casa nel kibbutz Malkia per potersi ritirare in campagna negli anni della pensione, ma quando l’ha terminata mia madre si è rifiutata categoricamente di vivere vicino a Hezbollah. Così la casa non ha abitanti permanenti ed è diventata il nostro rifugio. Mi sono rifugiato nella casa di Malkia durante il Covid, mi ci sono rifugiato quando dovevo rivedere i miei libri, mi ci sono rifugiato ogni volta che volevo ascoltare la mia voce interiore. Adesso non ho più un posto dove rifugiarmi. A Malkia — riferiscono i vicini evacuati in un albergo nella città di Tiberiade — ci sono solo carri armati e soldati, e qualche agricoltore rimasto a occuparsi del raccolto dei kiwi. Cosa sarà successo ai cavalli? Penso all’improvviso. Le passeggiate e il maneggio erano l’attività preferita delle mie figlie a Malkia. Una piacevole passeggiata di mezz’ora, lungo la recinzione del confine, su quegli splendidi puledri.

Mando un messaggio a Rotem del maneggio: come state? Non risponde. Immagino che un missile anticarro di Hezbollah abbia distrutto il recinto delle scuderie e i cavalli siano fuggiti al galoppo. Ma dove? Anche loro, in effetti, non saprebbero dove scappare. Dopo una settimana mi risponde con un lungo vocale: il giorno in cui hanno evacuato gli abitanti del kibbutz è arrivato un camion, i cavalli sono stati caricati e trasferiti in un’altra scuderia che li ospita, a Kfar Vradim. Stanno bene lì? chiedo. Secondo lungo messaggio vocale, questa volta in tono più addolorato. Per la verità no, ammette Rotem. Sono irrequieti, non si sentono a casa, non arrivano bambini a cavalcarli, non ci sono lezioni di equitazione, Mika è depressa e si fatica a portarla a fare un giro, Blondie è nervosa, ha mollato un calcio a uno stalliere. Anche gli altri vorrebbero tornare alla loro stalla, dice Rotem. Hanno nostalgia. Aspettano solo che questo periodo terribile finisca.

Sono mesi, ormai, che Galit, la nostra vicina a Malkia, non può ricevere ospiti a casa sua come ama fare, fra due chiacchiere a cuore aperto e una lettura di tarocchi. Inizialmente l’hanno trasferita in un deprimente albergo a Tiberiade. Poi ha trovato un appartamento temporaneo a Pardes Hanna. Mi sento una chiocciola senza guscio, mi ha scritto questa settimana. Una lumaca. Perciò siamo andati a trovarla. Ci siamo incontrati in un caffè e abbiamo cercato di non parlare della guerra, ma tutti gli argomenti portano al 7 ottobre. Prima di salutarci ha tirato fuori un contenitore di plastica. È frutta del vostro giardino. Cosa? Come? Ieri sono stata a Malkia, ha confessato. Non ne potevo più. Ti hanno lasciato entrare? ho domandato, stupefatto. Non ho chiesto il permesso, ha ribattuto. C’è qualcuno nel kibbutz? ho voluto sapere. Non c’è anima viva. Persino i cavalli hanno trasferito a Kfar Vradim. Cos’hai fatto mentre eri lì? Ho chiesto perplesso. Ha alzato le spalle, mi sono seduta in salotto a respirare aria di casa. Poi ho raccolto i pomeli e le arance dal vostro giardino, era un peccato lasciarli lì. Dopodiché sono iniziati i boom e me ne sono andata. Una volta in macchina apro la scatola di plastica e scopro che Galit ha sbucciato i frutti e li ha riposti in spicchi perché ci fosse più comodo mangiarli. Chissà perché, è proprio questo dettaglio a spezzarmi il cuore.

La mia figlia minore mi telefona. Sente dei rumori in casa, mi prega di rientrare in fretta dal lavoro. Le rispondo che ci metterò mezz’ora e chiede che nel frattempo rimaniamo al telefono. Le domando cosa sente esattamente. Mi sussurra: qualcuno parla dentro casa. Le dico, va bene, continuiamo a parlare fino a che non arrivo. Sussurra, la batteria sta per scaricarsi. Allora metti il telefono in carica, suggerisco. Non posso, sussurra di nuovo, sono attaccata alla porta e il caricatore è distante. In che senso? Non capisco. Perché sei attaccata alla porta? Sono attaccata alla porta e tengo la maniglia, per impedirgli di entrare se ci provano, sussurra, e io mi rendo conto che, anche se il 7 ottobre non eravamo in Israele, e anche se abbiamo cercato di proteggerla dall’orrore, qualcosa è comunque filtrato. Allora adesso riattacchiamo e tu mi richiamami solo se le voci si avvicinano, le propongo. Accetta. Premo l’acceleratore. Supero da destra. Supero da sinistra. Brucio un semaforo rosso. Quando arrivo, la casa è silenziosa. Apro la porta ed entro. Sono pronto al peggio. Non c’è nessuno. Mi precipito verso la sua stanza. Busso alla porta. Chiede chi è e le rispondo, papà. Apre, mi si butta tra le braccia, piange. Le dico che è stata molto coraggiosa.

La mia ex studentessa mi racconta che i messaggeri dell’esercito hanno cercato lui, il padre, e solo dopo averlo rintracciato a casa della nuova compagna a Holon hanno potuto notificare anche a lei. È la procedura se i genitori sono divorziati. Bisogna sincronizzare l’annuncio. Il suo ex marito è seduto di fronte a noi, sul divano, mentre lei me lo racconta. È curvo. Non sapevo che avessero divorziato. E adesso il loro figlio è stato ucciso a Gaza. Significa che saranno uniti per sempre, penso. Nel lutto. Nella nostalgia. Nel sapere cosa avrebbe potuto essere, e invece. Ma forse chiunque divorzia e ha figli non si separa mai davvero. Suo figlio aveva la ragazza, mi racconta la madre. Una storia seria. Già da due anni. Si sono conosciuti nella gelateria dove lavoravano insieme.

Eccola lì, indica una ragazza a disagio, con una treccia bionda, seduta su una sedia di plastica vicino alla finestra. Nessuno si avvicina a confortare lei. Il fidanzato di mia zia Margalit è stato ucciso nella guerra del Kippur, mi torna in mente, e ha continuato a parlarne per anni. Mi ha sempre stupito, quanto fosse vivo per lei. Quanto non riuscisse a dimenticarlo. Forse non si riesce mai a separarsi davvero da una persona a cui non si ha avuto la possibilità di dire addio. Arriva una nuova ondata di visitatori a portare le condoglianze. Restano in piedi e cercano un posto per sedersi. Mi alzo, e mentre mi congedo dalla mia studentessa e dal suo ex marito mi offro di aiutare, in caso vogliano fare qualcosa con tutte le lettere lasciate dal figlio. È così che mi comporto quando non so come salutare: offro aiuto.

«Ciao Eshkol, sono Tomer, papà di Omri Schwartz, caduto a Gaza poco più di un mese fa. Questo foglio si trovava tra l’equipaggiamento che ci hanno restituito insieme a lui. L’ho letto alla cerimonia per il trentesimo giorno dalla sua sepoltura». Clicco sulla fotografia allegata e scopro che è un brano dell’ultima pagina di Nostalgia, che contiene un elenco di buoni propositi per il futuro e termina con la frase «E poi, voglio tornare a casa». Sono seduto al food truck di Sho’eva. Mi sono fermato lungo la strada mentre viaggiavo da Gerusalemme verso casa, in teoria per bere un caffè ma di fatto per restare in giro più a lungo: attenua un pochino l’oppressione al petto. Avevo intenzione di rispondere ad alcune mail di lavoro, e all’improvviso questo WhatsApp. Quando guidi sotto la pioggia battente che infuria sui finestrini dell’auto e passi sotto un ponte, di colpo cala il silenzio. Assordante. Così mi sento quando leggo il WhatsApp di Tomer, papà di Omri. Lo rileggo. E anche il brano allegato. Mi manca l’aria. Tutte le promesse che Omri non potrà mai realizzare. Rifletto a lungo su come rispondere a suo padre Alla fine scrivo: «La ringrazio per avermi scritto. Mi emoziona sapere che ha letto queste parole alla cerimonia per Omri. Vi mando un abbraccio e le mie condoglianze, sono disponibile per qualunque cosa vi possa servire». Il cielo ricomincia a piangere. I lavoratori del food truck piegano le sedie e poi chiudono del tutto. Sono costretto ad andare a casa. Questa guerra va avanti da cinque mesi ormai, calcolo, genitori perdono figli e figli perdono genitori, da entrambe le parti, e non ci sono segni che l’incubo stia per finire. Sulle colline vicino a Sha’ar Hagai i mandorli fioriscono in una meravigliosa nuvola candida e io non ho alternative, devo chiamare a raccolta tutte le risorse della mia immaginazione per credere che alla fine qui nascerà una realtà diversa.

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Eshkol Nevo, il diario di guerra: la finta normalità e le lacrime all’improvviso

di Eshkol Nevo

Lo scrittore israeliano: «Ogni mattina scorro la lista dei caduti, il cuore batte forte Io dico di sì a ogni richiesta: mi riempio l’agenda perché non mi resti il tempo per la tristezza»

Alzarsi al mattino. Aprire gli occhi. Allungare la mano verso il cellulare. Entrare nel sito delle notizie. Scorrere la lista dei caduti. Ogni mattina il portavoce dell’esercito pubblica i nomi dei soldati uccisi a Gaza il giorno precedente. L’occhio si posa sui nomi. Il cuore batte forte. Una prima lettura, veloce, per assicurarmi che tra i morti non ci sia nessuno che conosco. Il bilancio finora, dopo due mesi e mezzo di guerra, è: il figlio di una cara amica. Il figlio di un’allieva. Il fratello della migliore amica di mia figlia.

Stamattina non riconosco nessun nome. Grazie a Dio. Seconda lettura, più lenta. Per rispetto ai caduti. Chi abbiamo perso stanotte. Quali giovani vite sono state stroncate. Nelle fotografie sembrano sempre bambini travestiti da soldati. Poi alzarsi dal letto. Costringersi ad alzarsi dal letto anche se il corpo è pesante, pesantissimo. Ti tira giù, nella disperazione. Indossare pantaloni sportivi. Uscire fuori, in strada, e iniziare a correre. Questa faccenda della corsa non l’avevo mai capita. È sgradevole per il corpo. Non c’è una trama. Non c’è il pallone.

Ero abituato a guardare gli uomini della mia età mentre correvano e pensare che ci sono modi migliori per risolvere la crisi di mezza età. Da quando è iniziata la guerra, corro anch’io. Tutte le mattine. Mi sono ripromesso di continuare fino a che non sarà finita. Come Forrest Gump. Non ho scelta. È impossibile iniziare la giornata con tutta questa tristezza in gola. Serve qualcosa per riequilibrare. Qualcosa che inietti un briciolo di speranza nel sangue. Le strade sono deserte, è prestissimo. Ovunque, sugli alberi, sulle facciate dei palazzi, nelle piazze, sono appese le fotografie degli ostaggi. Correndo ci passo davanti. Mi domando chi di loro è già tornato. Chi è ancora lì, in un tunnel buio. E chi non tornerà più. Rientro. Doccia. Accendo il telefono. Una foto da A. Finalmente. Tiro un sospiro di sollievo.

Un mese fa A. mi ha scritto un messaggio su WhatsApp. Voleva condividere che i miei libri lo hanno accompagnato nei momenti chiavi dell’esistenza e raccontarmi che adesso la sua squadra sta combattendo a Gaza. Mi ha chiesto se potevo mandare a lui e ai suoi ragazzi il mio ultimo libro con una dedica personale a ciascuno. Tornavano per ventiquattro ore e poi sarebbero ripartiti per Gaza. Una sera ho lasciato le copie con le dediche nell’armadietto del contatore elettrico. Al mattino non c’erano più. Da allora non ho più ricevuto notizie da A. Stavo iniziando a preoccuparmi sul serio, temevo che gli fosse successo qualcosa. Ma adesso è arrivata la fotografia. Sei soldati con il libro in mano, le facce sfocate dai pixel. Probabilmente erano arruolati in un’unità segreta. Non lo so né lo voglio sapere. Gli scrivo che gli auguro ogni bene, di tornare a casa sani e salvi. Nella casella di posta elettronica trovo un’altra richiesta da parte di un soldato. Questa volta è un riservista, si chiama Eliezer, è dislocato al confine settentrionale. Chiede se «posso andare da loro a leggere uno dei miei racconti?».

Gli scrivo di sì, certo. In questo periodo dico di sì a tutto. A qualsiasi richiesta. Mi riempio l’agenda perché non mi resti il tempo per la tristezza. Più tardi io ed Eliezer ci accordiamo. Ma la settimana successiva arriva un altro soldato a prendermi alla stazione del treno. Non Eliezer. A quanto pare Eliezer è stato trasferito in un’altra base. Non ti preoccupare, dice Oren che è venuto al suo posto, sei in buone mani.

Oltrepassiamo tutti i posti di blocco, proseguiamo in strade deserte e raggiungiamo un avamposto proprio sul confine. Per tutta la settimana ho rimosso il fatto che quella è zona di guerra e io mi sto mettendo in pericolo, e ora è troppo tardi per cambiare idea. Incontro i soldati. Mi aspettano sotto un grande telone di stoffa. Parliamo di amicizia, della strada non presa, di cosa significa essere israeliani in questi giorni. Poi gli leggo un racconto.

Dopo due paragrafi boom, un boato. Piuttosto forte. Mi fermo e ricordo che Oren ha detto che in caso di lanci di missili ci saremmo dovuti precipitare nel rifugio mobile. Ma nessuno dei riservisti fa un passo. Penso tra me e me, beh, o trovano il mio racconto davvero avvincente oppure sanno qualcosa che io non so. E proseguo nella lettura. Dopo qualche altro paragrafo si sente un altro boom. Più vicino. E giusto prima della fine del racconto, in una sorta di pausa drammatica, l’ultima esplosione, vicinissima. Quando finisco di leggere mi spiegano che i boom erano «provocati dalle nostre forze». Dopodiché fanno domande sul racconto, e sui finali a aperti, e sulla vita. Alla fine Oren mi riaccompagna al treno e per strada dice che sente che questo momento contiene anche il potenziale per un tikkun interno, una riparazione, della nostra società. Gli rispondo che lo credo anch’io. Stabiliamo di rincontrarci dopo la guerra.

Nessuno sa quando succederà. Forse tra un mese. Forse tra un anno. Nel frattempo si è creata una nuova quotidianità. Una pseudo-quotidianità. Come se l’anima si stesse abituando. Come se la vita tornasse alla normalità. Ma non è vero. Ogni tanto qualcuno crolla. Ogni tanto quel qualcuno sono io. Ieri, ad esempio. Ho parcheggiato l’auto vicino al nuovo stadio di calcio che da ormai due mesi resta deserto, inutilizzato. All’improvviso alla radio hanno trasmesso una canzone di Marianne Faithfull, The ballad of Lucy Jordan. Il testo della canzone non parla di soldati. O di guerra. Tutto sommato racconta la storia di una donna di trentasette anni che si rende conto che non guiderà più una macchina sportiva a Parigi mentre il vento le scompiglia i capelli. Non c’era motivo per cui questa canzone mi facesse piangere. Eppure ho pianto come un bambino, nel parcheggio dello stadio di calcio. A fine canzone mi sono asciugato le lacrime, sorpreso della mia stessa reazione, e sono andato a insegnare scrittura creativo. Che scelta avevo. Gli studenti mi aspettavano in classe e tutte le classi in cui sono entrato negli ultimi due mesi sono classi terapeutiche. Tutti sono al limite. Tutti sono traumatizzati in un modo o nell’altro e si aspettano qualcosa da me. La responsabilità dell’energia nella stanza è mia. La responsabilità dell’energia nella maggior parte delle stanze in cui entro, è mia. Perciò ogni mattina vado a correre e bevo un espresso e dopo un altro e dopo un terzo e penso alle crisi che ho vissuto in passato e poi superato e penso alla prossima primavera in Italia e all’appartamento in piazza Emanuele Filiberto, poi entro nella stanza e aiuto le altre persone a esprimere i loro sentimenti, o a dimenticarli, e aiutare gli altri è il modo migliore per aiutare se stessi, ce lo insegna il buddhismo, e gli studenti sono grati, dell’opportunità di scrivere, dell’opportunità di stare insieme, anche se durante l’incontro siamo corsi due volte nel rifugio perché sono partite le sirene d’allarme, io li saluto e torno alla mia auto in cui ho pianto e mi avvio e un minuto dopo scatta un altro allarme e io seguo le direttive: scendo dal veicolo. Mi sdraio accanto all’auto. Metto le mani sopra la testa. Aspetto cinque minuti. Intanto penso alle cose che non ho ancora avuto il tempo di fare, per esempio un viaggio in Colombia, o vedere la mia figlia maggiore sotto il baldacchino nuziale, e cosa succederebbe se morissi adesso. Poi mi alzo e riprendo a guidare, passo attraverso la piazza dove fino a tre mesi fa manifestavamo per la democrazia e contro il governo. In quella piazza adesso non ci sono manifestazioni. Ma ce ne saranno. Ne sono sicuro. Insieme alla tristezza, sta montando anche la rabbia. Monta e si affina. Il momento in cui chiederemo le dimissioni del primo ministro più catastrofico della storia di Israele arriverà. Sono settimane che scrivo l’articolo in cui esorto Netanyahu ad andarsene a casa. Ma mi trattengo. Mi mordo forte la lingua. Questi sono tempi di guerra, non di politica.

Quando arrivo a casa dormono tutti, il soggiorno è silenzioso. Accendo la Cnn per vedere le immagini da Gaza. Sui canali israeliani le immagini di Gaza non le mostrano. Come se l’empatia nei confronti dei civili indifesi a Gaza potesse abbattere il morale della nazione. A Rafah la pioggia cade su donne e bambini che non hanno un tetto sotto cui ripararsi. C’è una ragazzina che ricorda vagamente la mia seconda figlia. Trema di freddo. Ha fame. Ho la tentazione di cambiare canale, ma rimango. La guerra è una cosa atroce. Non possiamo dimenticarlo. Anche se viene imposta, ed è stato Hamas a imporre la guerra a noi e a Gaza, non ci ha lasciato nessuna alternativa, la guerra è una cosa atroce. La vittoria vera in questa guerra arriverà solo se sarà seguita dalla pace.

Traduzione di Raffaella Scardi

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