Bruno Segre ha osservato il XX secolo e l’inizio del XXI da una posizione leggermente defilata: è stato un testimone con tutti gli strumenti per comprendere ciò che accadeva intorno a lui
In Storie di un’altra Italia. Incontri e ritratti (Edizioni Casagrande, 2023) ho riunito le storie di una serie di personaggi nati nel XX secolo che mi è capitato di incontrare perlopiù di persona a partire dagli anni Novanta. Alcuni celebri (Umberto Eco, Stajano, Giulia Maria Crespi), altri raccontati attraverso chi li ha conosciuti molto da vicino, come Giulio Einaudi nelle parole del fratello Roberto, o Pier Pasolini in quelle del cugino Nico Naldini. Poi ci sono i ritratti di maestri di inapparenza come Gianni Antonini, braccio destro di Raffaele Mattioli alla Ricciardi, o Roberto Cerati, direttore commerciale dell’Einaudi degli anni d’oro. Scrittori come Marisa Bulgheroni o Manlio Cancogni, ma poi tanti nomi meno noti come Bruno Segre (1930-2023) che collaborò a questa testata negli ultimi anni di vita con pezzi molto lucidi sul Medioriente. La sua vita merita di essere conosciuta.
Camignolo, Canton Ticino, 1976. Sono, con Emanuele Segre, ospite della casa di campagna dei genitori: Bruno e Matilde. I nostri rispettivi genitori ci hanno iscritto alla scuola media sperimentale di via Vivaio, a Milano, e rapidamente abbiamo fatto amicizia. Gli esperimenti consistevano in una scuola a tempo pieno, in insegnamenti pluridisciplinari e nell’apprendimento di uno strumento musicale. Emanuele è divenuto un chitarrista classico che si esibisce in tutto il mondo; quanto a me, dopo tre anni di studio del pianoforte riuscivo a eseguire Coccinella con due dita. Pur avendo nel tempo notizie della famiglia Segre e dei progressi della carriera di Emanuele, ho rivisto Bruno, credo, solo nel 2012, in occasione di un suo incontro per il Giorno della Memoria organizzato dal Comune di Milano. Era gennaio e, terminata la conferenza, scambiammo due parole, ma il clima non induceva a trattenersi in chiacchiere. In quegli anni stavo andando a caccia di chi aveva conosciuto di persona Adriano Olivetti e ricordavo vagamente che Bruno aveva lavorato per l’azienda di Ivrea; così, qualche mese più tardi trascorsi un intero pomeriggio a parlare con lui del mondo intorno a Olivetti. Lo aveva frequentato in gioventù e aveva partecipato all’esperienza del Movimento Comunità, di cui era stato membro attivo, vivendo per qualche anno a Ivrea nella seconda metà degli anni Cinquanta. C’era poi tornato negli anni Settanta, lavorando, tra Milano e il Canavese, ai servizi culturali della Olivetti con Renzo Zorzi.
Nella conversazione affiorarono però altre esperienze che sembravano essere state più importanti per lui. Mi ripromisi quindi di tornare a intervistarlo, ma, come sempre accade, c’erano sempre delle cose più urgenti da fare. Poi una domenica, era il 2015, apparvero due pagine su «La Repubblica» in cui, con Antonio Gnoli, Bruno ripercorreva le principali tappe della sua esistenza. Al momento ebbi l’impressione di essermi lasciato soffiare uno scoop. Poi, riflettendo, pensai che c’era ancora molto altro da dire e, alla successiva Buchmesse, ne parlai con Fabio Casagrande, che lo aveva intervistato per l’«Archivio Storico Ticinese» sulle sue esperienze di insegnamento negli anni del Sessantotto ticinese. Bruno aveva vissuto in Canton Ticino tra il 1964 e il 1969, quando aveva insegnato nella Scuola magistrale di Locarno. Dovette abbandonare la Svizzera perché fu accusato dalla dirigenza scolastica di aver fomentato le proteste degli studenti, insieme ai colleghi e amici Sandro Bianconi e Virgilio Gilardoni (ma la sua frequentazione del Ticino è proseguita nei decenni successivi). Dissi a Fabio che qualcuno avrebbe dovuto intervistarlo. Lui mi esortò: «Fallo tu». Risposta ineccepibile per un editore. Con Bruno fu facile combinare. Lessi un po’ di suoi articoli «militanti», soprattutto sulla politica di Israele negli ultimi anni e sui suoi riflessi sulla comunità ebraica in Italia.
Tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 abbiamo trascorso due giornate insieme tra Canton Ticino e Milano. Abbiamo parlato delle sue origini, della sua vita, delle sue idee. La conversazione è ruotata intorno al concetto di identità ebraica per un cittadino italiano della sua generazione – è nato nel 1930 –, ma Bruno Segre aveva il dono di raccontare e riflettere allo stesso momento; perciò la chiacchierata ha assunto un andamento narrativo.
In Storie di un’altra Italia. Incontri e ritratti (Edizioni Casagrande, 2023) ho riunito le storie di una serie di personaggi nati nel XX secolo che mi è capitato di incontrare perlopiù di persona a partire dagli anni Novanta. Alcuni celebri (Umberto Eco, Stajano, Giulia Maria Crespi), altri raccontati attraverso chi li ha conosciuti molto da vicino, come Giulio Einaudi nelle parole del fratello Roberto, o Pier Pasolini in quelle del cugino Nico Naldini. Poi ci sono i ritratti di maestri di inapparenza come Gianni Antonini, braccio destro di Raffaele Mattioli alla Ricciardi, o Roberto Cerati, direttore commerciale dell’Einaudi degli anni d’oro. Scrittori come Marisa Bulgheroni o Manlio Cancogni, ma poi tanti nomi meno noti come Bruno Segre (1930-2023) che collaborò a questa testata negli ultimi anni di vita con pezzi molto lucidi sul Medioriente. La sua vita merita di essere conosciuta.
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Camignolo, Canton Ticino, 1976. Sono, con Emanuele Segre, ospite della casa di campagna dei genitori: Bruno e Matilde. I nostri rispettivi genitori ci hanno iscritto alla scuola media sperimentale di via Vivaio, a Milano, e rapidamente abbiamo fatto amicizia. Gli esperimenti consistevano in una scuola a tempo pieno, in insegnamenti pluridisciplinari e nell’apprendimento di uno strumento musicale. Emanuele è divenuto un chitarrista classico che si esibisce in tutto il mondo; quanto a me, dopo tre anni di studio del pianoforte riuscivo a eseguire Coccinella con due dita. Pur avendo nel tempo notizie della famiglia Segre e dei progressi della carriera di Emanuele, ho rivisto Bruno, credo, solo nel 2012, in occasione di un suo incontro per il Giorno della Memoria organizzato dal Comune di Milano. Era gennaio e, terminata la conferenza, scambiammo due parole, ma il clima non induceva a trattenersi in chiacchiere. In quegli anni stavo andando a caccia di chi aveva conosciuto di persona Adriano Olivetti e ricordavo vagamente che Bruno aveva lavorato per l’azienda di Ivrea; così, qualche mese più tardi trascorsi un intero pomeriggio a parlare con lui del mondo intorno a Olivetti. Lo aveva frequentato in gioventù e aveva partecipato all’esperienza del Movimento Comunità, di cui era stato membro attivo, vivendo per qualche anno a Ivrea nella seconda metà degli anni Cinquanta. C’era poi tornato negli anni Settanta, lavorando, tra Milano e il Canavese, ai servizi culturali della Olivetti con Renzo Zorzi.
Nella conversazione affiorarono però altre esperienze che sembravano essere state più importanti per lui. Mi ripromisi quindi di tornare a intervistarlo, ma, come sempre accade, c’erano sempre delle cose più urgenti da fare. Poi una domenica, era il 2015, apparvero due pagine su «La Repubblica» in cui, con Antonio Gnoli, Bruno ripercorreva le principali tappe della sua esistenza. Al momento ebbi l’impressione di essermi lasciato soffiare uno scoop. Poi, riflettendo, pensai che c’era ancora molto altro da dire e, alla successiva Buchmesse, ne parlai con Fabio Casagrande, che lo aveva intervistato per l’«Archivio Storico Ticinese» sulle sue esperienze di insegnamento negli anni del Sessantotto ticinese. Bruno aveva vissuto in Canton Ticino tra il 1964 e il 1969, quando aveva insegnato nella Scuola magistrale di Locarno. Dovette abbandonare la Svizzera perché fu accusato dalla dirigenza scolastica di aver fomentato le proteste degli studenti, insieme ai colleghi e amici Sandro Bianconi e Virgilio Gilardoni (ma la sua frequentazione del Ticino è proseguita nei decenni successivi). Dissi a Fabio che qualcuno avrebbe dovuto intervistarlo. Lui mi esortò: «Fallo tu». Risposta ineccepibile per un editore. Con Bruno fu facile combinare. Lessi un po’ di suoi articoli «militanti», soprattutto sulla politica di Israele negli ultimi anni e sui suoi riflessi sulla comunità ebraica in Italia.
Tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016 abbiamo trascorso due giornate insieme tra Canton Ticino e Milano. Abbiamo parlato delle sue origini, della sua vita, delle sue idee. La conversazione è ruotata intorno al concetto di identità ebraica per un cittadino italiano della sua generazione – è nato nel 1930 –, ma Bruno Segre aveva il dono di raccontare e riflettere allo stesso momento; perciò la chiacchierata ha assunto un andamento narrativo.
Presto dovette fare i conti con la sua identità ebraica. Un primo trauma furono, nell’autunno del 1938, le leggi razziali, che non gli consentirono di proseguire gli studi in una scuola pubblica
Ho sbobinato e messo in ordine, poi Bruno ha rivisto integralmente il tutto, annotando, precisando, aggiungendo. Che razza di ebreo sono io è un libro suo a tutti gli effetti.
Che razza di ebreo è stato Bruno Segre? La risposta rimane aperta, a partire dalle origini dei genitori: la famiglia paterna ha seguito il classico processo di assimilazione degli ebrei italiani tra Otto e Novecento, quella materna è di origine irlandese. Le carte quindi si sono mescolate da subito, con un cosmopolitismo di fondo che ha reso Bruno un cittadino del mondo con la consapevolezza di essere il risultato di una stratificazione di storie. Presto però dovette fare i conti con la sua identità ebraica. Un primo trauma furono, nell’autunno del 1938, le leggi razziali, che non gli consentirono di proseguire gli studi in una scuola pubblica. «La mia è stata un’infanzia abbastanza solitaria», mi ha detto con il suo classico understatement, ma non poteva dimenticare di essere diventato da un giorno all’altro «un invisibile».
Un secondo trauma fu la morte del padre nel giugno 1941, quando fu colpito da un ictus fatale dopo che la sua domanda di assimilazione (una pratica che il regime fascista offriva agli ebrei di nazionalità italiana per recuperare i propri diritti civili, ma che si rivelò poco più che un bluff) fu respinta. Fu la madre, Kathleen, a superare le trappole mortali della guerra, specie dopo l’8 settembre, quando condusse i due figli minorenni nelle campagne attorno ad Ascoli Piceno dove, in qualche modo, la sfangarono. Nei racconti di Bruno ci sono immagini che restano scolpite: il ritorno a Milano su un camion, con la madre e la sorella accanto al guidatore, mentre lui, seduto dietro in mezzo a un carico di mele, scorge l’Italia sconvolta dalle conseguenze della guerra; oppure le perlustrazioni in bicicletta nella Milano del 1945 distrutta dai bombardamenti, di notte ancora buia e pericolosa per il rischio di incontrare sbandati in armi.
Luminoso, oggi quasi un miraggio, il ricordo di Israele, visitata nel 1961, in un viaggio con Matilde e la sorella Laura. Allora sembrava un’utopia in grado di realizzarsi; così Bruno pensò seriamente di fare aliyah, di tornare alla terra dei padri, quando scoppiò la Guerra dei sei giorni (1967) e per un momento si pensò che il giovane Stato rischiasse la sopravvivenza. Ci tornò dieci anni dopo, con Emanuele, ma i semi dell’intolleranza erano già stati gettati. I territori occupati ponevano problemi quotidiani di convivenza, un tema a cui Segre si dedicò, in maniera inaspettata, a partire dal 1991, quando era da poco in pensione. Un amico dei tempi di Ivrea lo aveva coinvolto in Nevé Shalom (Wāħat as-Salām, il nome in arabo), un villaggio cooperativo e un esperimento di convivenza tra 25 famiglie ebraico-israeliane e 25 arabo-palestinesi. L’amico morì improvvisamente e toccò a Bruno occuparsi della sezione italiana dell’associazione a sostegno del villaggio, il che significava andare in Israele tre-quattro volte l’anno per cercare di dirimere difficoltà di ogni genere, proseguendo un’esperienza che provai a sintetizzare così: «Una goccia nell’oceano». La risposta di Bruno («Sì, però esiste») è quella di un costruttore di ponti, pronto a ricostruirli ogni volta che vengono distrutti. Bisognerebbe aggiungere che le conversazioni con lui sono sempre state scandite dal suo sense of humour, dal contagioso ottimismo con cui incoraggiava chi incontrava sul suo cammino, dalla sua capacità di analisi della situazione internazionale, con particolare riferimento a quella di Israele, di cui non ha mai smesso di occuparsi. Sullo sfondo c’era la ricerca di spiritualità di una persona che restava integralmente laica.
“Già, che razza di ebreo sono io? È una domanda che mi sto ponendo da un po’ di tempo. Sarò forse capace di rispondere il giorno in cui, finalmente, diventerò adulto?”
La vita di Bruno è cambiata dopo la morte, nel 2018, di Matilde, la colonna portante dell’intera famiglia – non solo per i sessant’anni di matrimonio, ma per avere condiviso tutto «nella buona e nella cattiva sorte». Bastava entrare in casa Segre per capire come Matilde sia stata il cuore pulsante della famiglia, colei che teneva insieme tutto e tutti. Torinese, severa e dolce al tempo stesso, è stata una madre e una nonna non solo dei tre figli e dei cinque nipoti ma degli amici dei figli e dei nipoti. Ricordo che dopo aver completato Che razza di ebreo sono io, chiesi a Matilde se lo avesse letto in bozza. Rispose che lo avrebbe fatto con calma perché le storie raccontate nel libro le aveva ascoltate già tante volte. Come ha rammentato la figlia Vera, in occasione della commovente celebrazione laica al cimitero di Lambrate, era diventata una perfetta Jewish mother senza in realtà esserlo. Intenzione di Bruno è stata quella di seppellire Matilde, secondo una tradizione della famiglia Segre, nel cimitero di Monticelli d’Ongina, ma l’autorizzazione è stata negata dal rabbino della comunità di Parma, che ha giurisdizione su quel cimitero, perché non era di origine ebraica. Un’amarissima sorpresa per lui che, dopo averla metabolizzata (e non è stato facile) ne ha fatto lo spunto per Il funerale negato (2020), un altro libretto che abbiamo fatto insieme dove, al di là del caso personale, Bruno ha ragionato sulla persistente mancanza di spirito laico nel nostro Paese, «l’ombra lunga dei Patti Lateranensi», per citare il sottotitolo.
Bruno Segre ha osservato più di due terzi del XX secolo e l’inizio del XXI da una posizione leggermente defilata: non è stato un protagonista, ma un testimone con tutti gli strumenti per comprendere quello che accadeva intorno a lui.
Così finisce la riflessione sulla sua identità: «Già, che razza di ebreo sono io? È una domanda che mi sto ponendo da un po’ di tempo. Sarò forse capace di rispondere il giorno in cui, finalmente, diventerò adulto?»
Bruno è mancato nell’agosto 2023. Lo avevo incontrato il mese prima e, seppur molto provato, non aveva perso il suo spirito leggero che rendeva molto attraente la sua frequentazione. Alla notizia della sua morte ho pensato che il mondo aveva perso un uomo giusto.
Lo scrittore israeliano: “Questo è un periodo felice per gli estremisti. Il governo Netanyahu deve andare via prima che la guerra finisca, non dopo: è un nodo gordiano affidare a chi ha creato questa situazione il compito di risolverla”
TEL AVIV – Dal soggiorno della sua casa assolata poco lontano dal centro di Tel Aviv, Etgar Keret riflette sul suo Paese e quanto gli è accaduto dal 7 ottobre a oggi con lo sguardo quanto più possibile distaccato e tagliente che si ritrova nei suoi libri. «È come stare in una serie Netflix, ma di quelle brutte – racconta mentre ci prepara un caffè che, per sua stessa ammissione, non sa fare –: nella prima stagione c’è “Il Governo”, con personaggi come Smotrich e Ben Gvir (il riferimento è ai due ministri dell’ultradestra dell’esecutivo Netanyahu, ndr). Nella seconda “Il Golpe”, ovvero la riforma giudiziaria. La terza sarebbe intitolata “Il Massacro”. Tu, spettatore, resti seduto a chiederti cosa conterrà la quarta stagione, cosa altro può accadere di orribile».
Keret parla accarezzando Hanzo, il coniglio bianco che da otto anni fa compagnia alla famiglia e che in queste settimane, più che mai, ha la funzione di calmante collettivo della casa. Ha appena finito, come fa ogni fine settimana da metà ottobre a questa parte, di inviare via WhatsApp pensieri e parole a chi, nella crisi, si è rivolto a lui. «Persone che non trovavano le parole, o che dicono di non saper scrivere. Per la maggior parte, mi hanno contattato sui social network, chiedendomi di scrivere per loro, o le ho incontrate nei vari eventi a cui ho partecipato. Ogni sabato metto insieme le mie “note” e gliele mando». Fra i destinatari ci sono una ragazzina che ha perso il padre il 7 ottobre, l’ex fidanzata di un soldato che è a Gaza, e molti altri: ogni storia è un mondo a sé. «Magari un giorno confluirà in un libro?», chiediamo. «Non so. Per settimane non sono riuscito a scrivere nulla che fosse fiction. Solo qualche giorno fa mi è venuto un racconto: un ultraortodosso che cerca disperatamente la preghiera giusta, convinto che se la troverà riuscirà a salvare il mondo».
A salvare il suo di mondo, Keret non pensa affatto: a differenza della generazione di scrittori precedenti alla sua, David Grossman, Amos Oz, Abraham Yehoshua, questo 56nne non ha mai voluto essere la voce di Israele, né mettere il tema della convivenza con “l’altro”, inteso come i palestinesi, al centro della sua opera. Ma oggi al confronto è impossibile sfuggire.
Signor Keret, come sta Israele? «Sicuramente non siamo più quelli che eravamo due mesi fa. Posso dirle come mi sento io: un po’ meno essere umano, un po’ più scarafaggio. Ha molto a che fare con la maniera in cui abbiamo vissuto il 7 ottobre: dentro le stanze delle persone che stavano per morire o per essere rapite. Quel giorno nessuno ha risposto: né l’esercito, né le istituzioni. Chi aveva bisogno di aiuto ha chiamato la televisione: e noi in diretta abbiamo sentito le suppliche di queste persone e poi le abbiamo viste scomparire, gradualmente, sotto ai nostri occhi. In contemporanea, hanno iniziato ad arrivare le immagini delle bodycam di Hamas. Un Paese intero ha vissuto l’orrore in prima persona: questo spiega la totale identificazione che c’è ora nelle storie degli ostaggi e delle loro famiglie, come se fosse un reality show. C’è gente che sta male per loro, per questo gioco a eliminazione che abbiamo vissuto sera dopo sera per una settimana, come fosse “Squid Games”. Settecento famiglie di sono fatte avanti per adottare la piccola Abigail (la bambina di quattro anni che ha visto i genitori uccisi a Kfar Aza ed è stata liberata sei giorni fa, ndr), come se non avesse una famiglia. Abbiamo perso la lucidità, viviamo in uno stato di costante confusione. La mia sfida, ora che ho messo a fuoco questa dinamica, è restare lucido. Ogni tanto mi dico “Vai e prenditi cura del tuo coniglio, altrimenti impazzirai”. E così faccio».
E allora da dove si riparte? «Questa è una domanda difficile. Le persone più colpite dall’attacco del 7 ottobre sono quelle che più avevano lavorato per costruire ponti, da una parte e dall’altra. Gli abitanti dei kibbutz, gente di sinistra per la maggior parte, che lavorava con e per la popolazione di Gaza. Ma anche gli arabi-israeliani che sono stati licenziati o si sono dimessi perché avevano troppa paura a venire a lavorare. Su Facebook tante persone mi hanno detto: “E ora? Ora tu e quelli come te vi scuserete?”. Scusarci di cosa? Di essere stato contro Hamas mentre il vostro primo ministro (il riferimento è a Netanyahu, ndr) li faceva crescere? Questo è un periodo felice per gli estremisti. Non so da dove ripartiremo, ma credo che la sfida debba essere cambiare questo governo prima che la guerra finisca, non dopo: è un nodo gordiano affidare a chi ha creato questa situazione il compito di risolverla».
Lei ha scritto parole molto belle su come la sinistra israeliana si senta tradita dall’appoggio del mondo progressista per la causa palestinese. Può spiegarci cosa intendeva? Che cosa è che sfugge ai progressisti, secondo lei? «Faccio un passo indietro e le dico che se guardo le cose a distanza, è l’intero mondo a essere impazzito, non solo chi parla di Israele: è qualcosa di più grande di questo conflitto e ha molto a che fare con i social, con la velocità con cui si prendono posizioni su cose che non si conoscono: salvo poi dimenticarle. Come le bandiere dell’Ucraina, sostituite da quelle palestinesi. Io dico che prima di parlare di Medio Oriente devi almeno – sottolineo, almeno – esserti letto due voci di Wikipedia: quella su Hamas e quella su Netanyahu. Poi, possibilmente, un paio di capitoli di libri di Storia su questa regione. Non venite a dirmi che quelli del 7 ottobre erano palestinesi che si battevano per i due Stati: hanno ucciso in nome del fondamentalismo religioso, è l’Iran a cui rispondono, non alla causa palestinese. Forse che si battevano per i palestinesi era vero anni fa, non lo è più oggi: non parlavano di Palestina, parlavano di uccidere ebrei. Hanno massacrato anche stranieri, donne con l’hijab, chi quel fondamentalismo non lo condivide».
Nei Territori palestinesi però il consenso per Hamas cresce. La gente dice di essersi sentita abbandonata per anni: dai Paesi arabi, dalla comunità internazionale: e che Hamas è l’unica ad aver fatto qualcosa. «Prima di tutto, la crescita di Hamas è anche frutto delle politiche di Netanyahu: l’idea che ha portato avanti per vent’anni che la violenza di Hamas poteva essere contenuta, interfacciandosi con loro piuttosto che con un partner pragmatico, laico, che non tira fuori Allah ma vuole risolvere le questioni. Io credo che se lei chiedesse in privato alla gente di Ramallah o di Gaza se davvero Hamas ha fatto qualcosa di positivo per la causa palestinese, avrebbe una risposta molto diversa da quella che danno in pubblico. Credo che nessuno pensi che più di 14mila morti, le case distrutte, le famiglie devastate, i rifugiati abbiano contribuito a far avanzare la causa palestinese».
Vorrei tornare sul senso di abbandono di cui abbiamo parlato prima: in queste settimane, abbiamo visto gli israeliani attaccare le Nazioni Unite e le grandi ong, il Comitato internazionale della Croce rossa, chi invoca il rispetto delle convenzioni internazionali sulla protezione dei civili: non sono eccessive queste critiche? «Conosco una persona che è a Gaza: ha bisogno di medicine, è sopravvissuto all’Olocausto. Ho sentito di bambini marchiati con le marmitte delle moto: e in mezzo a tutto questo, la Croce rossa rifiuta di portare medicine perché non è il suo mandato. A me pare una follia: non solo questo, molto altro mi pare una follia. Pensate davvero che gridare “From the river to the sea”, dal Fiume al Mare, convincerà Israele a fermare le bombe? O piuttosto non ci farà pensare che non c’è nulla di cui possiamo discutere con chi dice certe cose? Non capisco le dinamiche come quelle delle organizzazioni omosessuali che sfilano per un’organizzazione che vuole uccidere gay e lesbiche. Mi pare che sempre più persone vivano lontane dalla realtà, quella autentica, non quella che pensiamo che sia autentica».
Il racconto dello scrittore: la vicina che ha perso un figlio, la gioia per gli ostaggi liberati, le case svuotate dei vicini e quelle distrutte dei palestinesi. «Penso ancora che si debba trattare. Ma non con Hamas»
Imiei amici italiani si felicitano con me per il ritorno degli ostaggi. Finalmente un barlume di speranza! mi scrivono. Non che io non sia d’accordo con loro. La scena di Ohad Munder di nove anni che si precipita di corsa tra le braccia del papà in ospedale dopo essere stato rilasciato, credo di averla vista già cinque volte. E la rivedrò molte altre nei prossimi giorni, perché abbiamo tutti un disperato bisogno di grazia. Ma qualcosa dentro di me respinge le reazioni entusiastiche. Come anche le critiche unilaterali al mio Paese, basate su informazioni parziali, superficiali. Quasi esistesse un abisso, che per ora non sono ancora riuscito a colmare, tra me e gli amici che vivono fuori da Israele. Un’incomprensione profonda e molesta. In che modo la posso annullare?
La vicina
Potremmo iniziare con Dalia, di Malkia, un piccolo kibbutz al confine con il Libano. Dalia di fatto è la mia vicina, perché la casa dove vado a scrivere da qualche anno a questa parte e nella quale ho trovato rifugio durante la pandemia, è proprio accanto alla sua (l’ha costruita mio padre con l’idea di trasferirsi lì da pensionato, ma quando era pronta è arrivata mia madre e dopo una sola occhiata ha dichiarato: io vicino a Hezbollah non ci abito! Così la casa è diventata un rifugio per figli e nipoti in cerca di tranquillità lontano dal trambusto della città). Abbiamo incontrato Dalia fin dalle nostre prime visite a Malkia e siamo profondamente legati. È una delle persone più generose che io abbia mai conosciuto. Adora avere ospiti, ti invita per una cena e una chiacchierata cuore a cuore. A partire dall’8 ottobre, però, Dalia non può più aprire la sua casa agli ospiti. Come tutti coloro che abitano vicino al confine settentrionale se n’è dovuta andare a causa degli attacchi di Hezbollah e abita in un albergo deprimente a Tiberiade. Io qui sto diventando matta, mi ha scritto ieri. E ha aggiunto: la cosa più intollerabile è che nessuno ha idea di quando potremo tornare a casa. In effetti, quando potranno tornare? penso. E non so cosa risponderle. Quale sistema potrà garantire loro che i terroristi di Hezbollah non attraversino il confine una notte qualunque, per rapirli come ha fatto Hamas al sud? Andiamo avanti: Iris vive da ormai molti anni a Sderot. A una manciata di chilometri dal confine con Gaza. Ma anche lei e i suoi figli ora sono profughi. All’inizio li abbiamo ospitati a casa nostra. Adesso sono in un albergo. La mattina del 7 ottobre lei non era in città. La sua figlia maggiore invece sì. È rimasta nascosta nel rifugio dentro casa per dodici ore, convinta che sarebbe morta. Iris è una psicoterapeuta del movimento, ma adesso non ha chi aiutare, perché la maggioranza dei suoi pazienti arrivava dai kibbutz vicini a Gaza. Sono stati massacrati, oppure rapiti. E poi non sa se i suoi figli accetteranno mai di tornare a vivere a Sderot. D’altra parte, chi comprerebbe il suo appartamento in un momento simile? Andiamo a trovarla nell’albergo. Il contrasto tra il lusso della lobby e il caos che imperversa è stridente. Ci racconta che nell’albergo tutti sono al limite della sopportazione. Tra la gente scoppiano litigi, baruffe, e la situazione peggiora ogni giorno, non ce la fanno più a stare lì, ma non hanno altro posto dove andare.
La forza di ricominciare
Le proponiamo di trovare uno spazio in cui potrà riprendere almeno le sue sedute terapeutiche, così tornerà a guadagnarsi da vivere, e le promettiamo aiuto nel pubblicizzarle. Ci ringrazia ma dice, onestamente, che non è certa di avere la forza di tirarsi su e rimettersi al lavoro. Sulla via del ritorno, dopo avere salutato Iris, penso: come potrà mai tornare a dormire tranquilla nella sua casa a Sderot, dopo quello che è successo il 7 ottobre? Mentre Hamas controlla ancora la Striscia di Gaza? E non posso ignorare le immagini di Gaza. Persone che vagano tra le macerie delle loro case. Alcuni di loro hanno partecipato ai saccheggi e alle violenze avvenuti il 7 ottobre. Sono cose risapute, documentate. Dopo che i terroristi di Hamas hanno sfondato la recinzione, una folla scatenata li ha seguiti. Non tutti hanno partecipato a quelle atrocità, rammento a me stesso mentre guardo la Cnn. Non tutti. Queste persone, che adesso cercano tra le macerie qualche oggetto personale (la distruzione è enorme, inimmaginabile), sono a loro volta vittime di Hamas, che dopo il ritiro di Israele da Gaza ha scelto di impegnare le sue risorse in terrorismo e missili invece che in costruzione e benessere. Dove troveranno le forze per ricostruire le loro case distrutte, sapendo che a qualsiasi ora, in qualunque giorno, finché Hamas sarà al potere, potrà iniziare un nuovo ciclo di distruzione e sofferenza?
Il processo di pace
Io sono fra gli israeliani che per anni hanno sostenuto il processo di pace. Ho scritto articoli. Ho parlato alle manifestazioni. Ho creduto veramente, e credo ancora, che dobbiamo condurre trattative dirette con i palestinesi e giungere con loro a un accordo a lungo termine. E che siamo noi, la parte più forte, che le dobbiamo avviare. Che dobbiamo accettare compromessi, cedere. Ma non con Hamas. Per carattere sono più incline ai punti interrogativi che ai punti esclamativi. Però a volte le cose sono chiare. Non c’è spazio per dialogo e compromessi con chi ammazza bambini, stupra donne e rapisce anziani. Ricordo a me stesso che dopo la sconfitta dei nazisti in Europa è iniziato un periodo di prosperità. Penso che dopo la sconfitta dell’Isis il Medio Oriente ha tirato un sospiro di sollievo. Chi, come me, crede che esista una possibilità di pace tra Israele e i palestinesi e gli Stati arabi, deve ripudiare Hamas e sperare che venga sconfitto in questa guerra e smetta di governare da Gaza.
Le strade vuote
Sono stati giorni di tregua, una tregua che mentre leggete questo articolo è già finita. Ma le strade erano rimaste comunque vuote. Quando cala il buio, ci si chiude in casa a guardare il telegiornale. Ieri sera all’improvviso hanno bussato alla porta. Chi poteva essere? In passato avremmo semplicemente aperto. Adesso ci avviciniamo sospettosi. Sbirciando dallo spioncino. Buio. Non si vede niente. Allora chiediamo: «Chi è?». «Marcelle», risponde la voce all’esterno. A mia moglie torna in mente, è vero, ha avvisato che sarebbe passata. Le apriamo la porta e la invitiamo a entrare. Abbraccia mia moglie a lungo. Il figlio di Marcelle è stato ucciso da Hamas durante il festival musicale a Re’im il 7 ottobre. È stato sepolto nel cimitero della nostra città e Marcelle ha deciso, dopo la settimana di lutto stretto, di trasferirsi in città per stare vicino alla sua tomba. Qui però non conosce nessuno e non ha la forza di tirarsi su e prepararsi da mangiare. Le donne del quartiere si sono organizzate per cucinare a turno, ogni giorno una diversa prepara anche per lei. Marcelle prende la pentola da mia moglie. Un sorriso piccolo, mesto, le rianima il viso. La invitiamo a fermarsi con noi, ma lei ringrazia ed esce nel buio con la pentola. Serriamo la porta alle sue spalle. Ci sediamo per seguire le notizie. Mostrano a ripetizione Ohad Munder che corre tra le braccia del papà in ospedale, e io ripenso al verso di una canzone israeliana che amo: «Prima dell’alba è sempre il momento più buio».
Lo scrittore israeliano sul suo ritorno in patria. «Solo immaginare il futuro ci può aiutare». E i piccoli «momenti di grazia» che si manifestano nella vita quotidiana
Il 7 ottobre, quando è avvenuta la carneficina, ero in Italia. A Torino, in un bell’appartamento, vicino a Piazza Emanuele Filiberto. In quelle stesse ore mia moglie e le mie figlie erano in volo per Israele. Il loro aereo non ha ricevuto l’autorizzazione ad atterrare per timore che i missili colpissero l’aeroporto ed è stato dirottato su Cipro. La maggior parte dei passeggeri è sbarcata a Cipro e poi ha trascorso la settimana successiva nel vano tentativo di trovare una maniera di raggiungere Israele. Mia moglie e le mie figlie hanno deciso di tornare assieme all’equipaggio in Italia. Da me.
Le ho aspettate a casa. Ho imbandito la tavola, una grossa insalata, una frittata speciale, formaggio, pane fresco. Nel frattempo leggevo notizie spaventose e guardavo video terrificanti diffusi da Hamas. Sono arrivate la sera molto tardi, stanche, tristi e affamate. Hanno mangiato e sono andate a dormire. La mattina presto mi ha svegliato il suono di un messaggio in arrivo sul mio telefono. Era il mio amico Assaf. Credo che Yftach, il figlio di Shira, sia stato ucciso, scriveva. Puoi controllare se è proprio lui? Era accaduto il peggio. Yiftach Yavets, il figlio di Shira, che conosco da quando è nato, era morto nella battaglia il primo giorno di guerra. Mia moglie si è svegliata. Gliel’ho raccontato. Ho pianto tra le sue braccia. Non piangevo da vent’anni, da quando c’è stato l’attentato nel Sinai.
Il giorno dopo, mentre viaggiavo in treno, ho parlato di Yiftach e Shira con alcuni amici israeliani. Ho pianto di nuovo. La sera ho partecipato a un evento a Milano. È stata dura. Non trovavo parole. Ho chiesto al moderatore che si facesse un minuto di silenzio in memoria di Yiftach. Lui ha accettato. Centinaia di italiani hanno taciuto in ricordo di un ragazzo bello, intelligente, sensibile, che non conoscevano e non potranno più conoscere. Il moderatore ha cercato di parlare con me di fake news. Di verità e falsità. Mi sono innervosito. Gli ho detto: quale falso? Guarda i video di Hamas e credici. Questa è la faccia del male, il male nel mondo esiste e se non lo fermeremo arriverà fino alla vostra casa. Ai vostri figli.
Sono tornato a Torino, ai miei studenti alla Scuola Holden. Ho confuso il fuso orario di Israele con quello italiano. Sono arrivato tardi. Io non sono mai in ritardo. In venticinque anni non ho mai tardato a una lezione. Ho detto agli studenti: farò del mio meglio per continuare a insegnarvi fino a quando io e la mia famiglia non troveremo un volo per Israele. Ma in classe non ci saranno più risate. Ho il cuore in pezzi. Gli studenti si sono dimostrati empatici, nonostante nessuno di loro si fosse mai trovato in una situazione del genere e quindi non potessero capire veramente.
Ci è voluto parecchio tempo prima che trovassimo i biglietti per tutti su un volo per Israele. Nel frattempo molti amici, da Israele, suggerivano: rimanete in Italia. È meglio. Qui è l’inferno. Nessuno esce di casa. Si dorme con un coltello sotto il cuscino. Noi rispondevamo: non ci passa nemmeno per la testa. Abbiamo una figlia nell’esercito. Dal momento in cui è iniziata la guerra, ci telefona in Italia sei volte al giorno implorandoci di tornare. Una sua conoscente è stata ammazzata al rave. Un’altra è stata rapita, è a Gaza, ostaggio. La sua migliore amica si è salvata per miracolo perché i terroristi di Hamas, per puro caso, non sono entrati nella sua postazione. Non mi è possibile uscire dalla base, ci ha spiegato nostra figlia, ma mi farebbe bene sapere che siete qui vicini.
Cinque giorni dopo il massacro ho incontrato per la prima volta i miei studenti in Israele via Zoom, nell’ambito di quello che abbiamo deciso di chiamare «spazio di scrittura». Non «laboratorio di scrittura». Perché fosse chiaro che sono protetti. All’inizio dell’incontro ho detto che non dovevano scrivere bene, belle parole. Solo esprimere le loro emozioni. E che io non avrei commentato come al solito, ma mi avrebbe fatto piacere leggere in chat quello che scrivevano. Ho detto loro che una delle domande che mi tormentano in questi giorni è come si combatte la malvagità pura di Hamas senza esserne contagiati. Come possiamo continuare a credere nella bontà insita nell’uomo, dopo quanto abbiamo visto questa settimana? La chat si è pian piano riempita di piccoli momenti di grazia. Una donna aveva offerto a un’altra di bere dell’acqua dalla sua bottiglia dopo un allarme. Un uomo aveva fumato una sigaretta con calma, sul balcone, un minuto tutto per sé. Un bambino aveva abbracciato la mamma senza rendersi conto di come la stava confortando. Un cane, accorgendosi della tristezza del padrone, si era accucciato al suo fianco.
Ho guardato le facce dei miei studenti su Zoom. Erano molto pallidi. Non era il pallore già familiare dai giorni del Covid. Era un pallore diverso. Più profondo. Più preoccupante. Ho pensato: è tempo di tornare a casa.
Mentre ci avvicinavamo alle coste di Israele, l’uomo seduto accanto a me ha asserito con assoluta sicurezza: non stiamo atterrando come sempre a Ben Gurion. Non siamo sulla rotta normale. Ho il brevetto da pilota. Lo so. Ci portano a Eilat. Forse a Cipro. Ho guardato fuori dall’oblò. Non sapevo se credere a quello che vedevano i miei occhi o a quello che diceva l’uomo con il brevetto da pilota. Siamo atterrati a Ben Gurion. Non ci sono stati i soliti applausi. In generale, i passeggeri hanno mantenuto un silenzio assai poco israeliano durante tutto il volo. Abbiamo preso un taxi. Le strade erano vuote e l’autista furibondo nei confronti del governo e del fallimento dei servizi segreti. Agitava le mani mentre parlava e a un certo punto ho pensato che avrebbe perso completamente la testa, e anche il controllo dell’auto. Nei giorni successivi ho scoperto che il tassista era solo un’avvisaglia. Tutte le persone che conosco, senza alcuna eccezione, sono al limite. A un passo dal baratro.
Mentre eravamo in Italia, si è trasferita a casa nostra una famiglia scappata dalla zona vicina alla Striscia di Gaza. Amici. La madre non era riuscita a spiccicare parola per tutta la settimana. Si limitava a messaggi WhatsApp con richieste pratiche: dov’è il telecomando del condizionatore? Come funziona il forno? Avete una seconda chiave di casa? Metà dei suoi amici sono stati assassinati o rapiti nel Sabato Nero, ci ha scritto. Perciò è sotto choc. In lutto. Non è in grado di parlare. La sera prima del nostro rientro mi ha scritto che lo Stato aveva messo a disposizione una camera in un albergo, si trasferivano lì. Quando siamo entrati in casa e ho aperto il frigorifero, ho visto che ci avevano lasciato dei cioccolatini per ringraziare. Piccoli momenti di grazia. Di notte è partita la sirena d’allarme. Siamo corsi nel rifugio in pigiama. Abbiamo un rifugio in condivisione con i nostri vicini, una famiglia di sei persone. Ci si stringe tutti in uno spazio grande un quarto di un’aula della scuola Holden. Si sta lì dentro per dieci minuti. Dopodiché si può uscire. Il padre della famiglia dei vicini non c’era. Non ci sarebbe stato bisogno di chiedere alla madre, ma l’ho fatto ugualmente e lei ha risposto: sì, è arruolato tra i riservisti. In questo momento è al confine nord. Non so quando tornerà. Al mattino c’è stato un altro allarme. Le figlie sono rimaste a casa perché le scuole erano chiuse. Al supermercato scarseggiavano molti prodotti perché il Comando del fronte interno aveva dato indicazione di approvvigionarsi per l’eventualità di lunghe permanenze nei rifugi. Gli amici esitavano a incontrarsi per paura di lasciare i figli soli. Indifesi. Eppure, provavo una sensazione innegabile che si faceva più netta di ora in ora: essere a casa era bello.
Il giorno dopo sono andato a trovare Shira. La shivà, la settimana di lutto stretto, era già terminata. Era a casa da sola. Rughe nuove incise sul viso. Ci conosciamo da trent’anni, abbiamo lavorato insieme. È una delle donne più solide che abbia mai incontrato. Ci siamo seduti sul balcone a leggere in silenzio un libriccino che lei e Yiftach avevano creato insieme e intitolato Poesia per Shabbat. Da quando lui si era arruolato nell’esercito si scambiavano una poesia ogni venerdì. Un dialogo, una poesia di lui e una di lei. Ogni poesia rivela un diverso aspetto delle loro anime. Poi mi ha fatto leggere un biglietto di auguri che il figlio le aveva scritto qualche anno fa per il compleanno. Un amore così esplicito e aperto da parte di un figlio per sua madre, le ho detto, non è affatto scontato. Lo so, ha annuito con le lacrime agli occhi, avevamo un legame speciale. Abbiamo rievocato i giorni in cui lo portava, piccolissimo, nel posto dove lavoravamo. Una volta mi aveva pregato di tenerlo mentre partecipava a una riunione. Poi mi ha chiesto consiglio sulle parole da scrivere sulla lapide. Per me è importante, ha detto, che si sappia che ha salvato civili innocenti. Non ti puoi immaginare in quanti mi scrivono. Per ringraziare. Abbiamo riflettuto a lungo e alla fine abbiamo trovato una frase che la soddisfaceva. Poi si è alzata e ha detto che stavano per arrivare i rappresentanti del ministero della Difesa, si doveva preparare per la visita. L’ho abbracciata. Ho pensato che non esiste nulla che si possa fare o dire per consolare una mamma che ha perso suo figlio.
La stessa sera sono andato a un incontro per gli sfollati del kibbutz Mefalsim, ospiti in un albergo a Herzliya. La maggioranza dei membri del kibbutz è sopravvissuta al massacro del 7 ottobre grazie alla strenua resistenza della squadra di sicurezza locale. Ma i loro amici delle comunità vicine sono stati uccisi o portati a Gaza come ostaggi e loro, mentre venivano evacuati, sono passati davanti a cadaveri di bambini, donne e anziani, buttati lungo la strada. Quando lo spettacolo è cominciato sono stato contento di aver chiesto l’accompagnamento di alcuni musicisti. La musica sembrava aiutare il pubblico più delle parole. Mentre i musicisti suonavano ho osservato le facce dei presenti. I loro corpi. Sembrava che ne avessero succhiato fuori la vita, l’anima. Restavano solo dei gusci vuoti.
Con il passare dei giorni mi rendo conto che non solo i membri del kibbutz Mefalsim, ma tutte le persone che conosco soffrono di qualche trauma. Un caro amico, con cui vado a camminare la sera da anni, dal 7 ottobre ha paura di uscire di casa. Una coppia di amici, di solito dotati di eccellente senso dell’umorismo, ha passato un’intera serata nel nostro salotto senza che l’ombra di un sorriso sfiorasse le labbra. Il figlio è nell’esercito. Sono preoccupati. La donna ha detto: sono traumatizzata e consapevole di esserlo.
Tengo due o tre incontri al giorno, su Zoom, con studenti e lettori. Con gli studenti, cerco di aiutare a trovare parole che possano descrivere le loro sensazioni: trovare parole ti restituisce un minimo di controllo, o quanto meno ti illude di trovarlo, nel mezzo del caos che ci ha travolti. Per i lettori cerco racconti che possano confortare, rincuorare, regalare speranza. Uno di loro mi ha scritto nella chat: la storia che ci siamo raccontati sulla nostra vita sicura in questo posto si è spezzata. Non ci possiamo più credere. Aiutaci a trovare una storia nuova.
Durante un incontro su Zoom con dei bambini, dopo che avevo letto loro i miei libri per piccoli, la moderatrice ha chiesto: avresti qualche consiglio per i bambini che in questi giorni hanno paura, su come affrontarla? Non ero preparato. Non sono uno psicologo, né un esperto di resilienza. Perciò ho risposto di pancia: due cose mi fanno bene in questo periodo. Una è aiutare gli altri, essere disponibile per loro. Così pensi meno a te stesso. L’altra è immaginare e ricordare. Non rimanere costantemente in questo momento difficile, angosciante, ma riandare a momenti piacevoli e belli del passato e immaginare un futuro migliore che ci aspetta.
Ancora non so quale sarà la nuova storia che verrà scritta dopo questa guerra. È troppo presto per saperlo. Una cosa però mi è chiara.
Il 7 ottobre, Hamas ha cercato di spezzare lo spirito degli israeliani. Il fatto che stupri, saccheggi e sevizie siano stati documentati dalle telecamere frontali degli assassini e diffusi come video sui social media, dimostra che era una mossa di guerra psicologica premeditata. Mi inorgoglisce il fatto che sia successo l’esatto opposto di quanto pianificato da Hamas: le crudeltà del 7 ottobre hanno giustamente risvegliato negli israeliani i ricordi della Shoah e dei pogrom contro gli ebrei avvenuti nel passato, ma invece di spezzarci, ci siamo uniti. Rialziamo la testa consapevoli che non abbiamo altro posto dove andare. Questo è il nostro Paese e dobbiamo combattere perché continui a esistere. Le organizzazioni che protestavano contro il governo hanno ridiretto la loro energia, attività e intraprendenza nel sostenere chi è partito a combattere. Più del cento per cento dei riservisti richiamati si sono presentati. Chi non ha più l’età per combattere si offre volontario per prestare servizio ai confini. Israeliani che vivono all’estero rientrano per partecipare allo sforzo collettivo. Le diverse tribù che compongono la società israeliana, che fino allo scoppio della guerra erano divise in due fronti opposti riguardo al sistema giuridico, adesso agiscono unite, fianco a fianco. In reazione al trauma sorgono ogni giorno nuove iniziative. Mentre scrivo questo diario, mia moglie e nostra figlia in cucina preparano vaschette di cibo da mandare a chi combatte a Gaza. La figlia soldatessa si è ripresa e viaggia su e giù per il Paese, svolgendo qualunque compito le venga assegnato. I miei amici offrono aiuto alle decine di migliaia di israeliani, del sud e del nord, che sono stati evacuati dalle loro case. Fanno spettacoli, curano, ascoltano, ospitano, mandano abiti. Si ha la sensazione che non ci sia una sola persona in Israele non coinvolta in qualche modo in iniziative che, una per una e tutte insieme, dimostrano che non ci siamo spezzati. E che, insieme, vinceremo.
E c’è un’altra cosa chiara, e perché lo sia anche ai miei lettori fuori da Israele la scrivo qui senza mezzi termini. Perché questa storia possa avere un lieto fine, Hamas non ne può fare parte. Chi spera, come me, nella pace del Medio Oriente, deve augurarsi una inequivocabile, rapida, sconfitta di Hamas in questa guerra. Chi pensa, come me, che i palestinesi hanno diritto all’autodeterminazione, deve sperare che questa organizzazione terroristica, più micidiale dell’Isis, smetta di rappresentarli. Chi soffre, come me, anche per il dolore degli abitanti di Gaza in questi giorni, deve sperare che Hamas smetta di governare la Striscia.
Dicono che la guerra durerà diversi mesi. Spero vivamente di no. Altre madri come Shira, da ambo le parti, perdono i loro figli ogni giorno. Altra distruzione. Altro dolore.
Sfrutto tutte le capacità della mia immaginazione e guardo avanti, a primavera. La guerra è finita. Gli ostaggi sono stati rilasciati. Hamas non usa più Gaza come base per il terrorismo. Ci sono nuovi accordi di sicurezza e anche un orizzonte politico. Il primo ministro Netanyahu si è dimesso a causa delle responsabilità per questo disastro. Lo sostituisce un leader più coraggioso, più attento, che ha una vera visione per questa regione. Gli abitanti ai due lati del confine tornano alle loro case distrutte e iniziano a ricostruire.
Io parto per Torino, con il cuore in pace. Torno al mio bell’appartamento in Piazza Emanuele Filiberto.
La sera sento le campane della chiesa, non più le sirene d’allarme.
Che cosa si sottintende quando, soprattutto in alcuni ambienti intellettuali di sinistra, si parla di decolonizzazione a proposito di Israele?
Anna Momigliano , Il Mulino
23 OTTOBRE 2023
Mi rendo conto che si pone un problema di opportunità. Mentre scrivo, fatti atroci si susseguono a velocità sostenuta, a Gaza c’è una crisi umanitaria senza precedenti, il numero di morti palestinesi ha superato quello delle perdite israeliane. E allora comprendo bene che, quando mi metto a discutere di categorie analitiche e dei torti di una parte della sinistra verso gli israeliani, il rischio di sembrare fuori luogo c’è tutto. Eppure, mi dico, il bello di scrivere per una rivista che si fregia di contribuire a tenere a galla quel poco di dibattito intellettuale che resta in Italia sta anche qui, nell’avere il lusso di fermarsi a ragionare su come ragioniamo.
Mettiamo da parte, per un secondo, i fatti di queste settimane, per riprenderli più in là. Negli ultimi anni ci sono stati due sviluppi interessanti del dibattito a sinistra. Primo, la riscoperta dei valori anticoloniali, che già in passato hanno avuto un peso rilevante, ma che recentemente sono stati rispolverati e attualizzati come chiave di lettura della contemporaneità. Secondo, la diffusione del framing dell’apartheid per descrivere l’occupazione dei Territori palestinesi. È un tema delicatissimo, di cui mi ero occupata sul fascicolo n. 2/2023, ma, in estrema sintesi, può essere riassunto così: Israele controlla di fatto la Cisgiordania, seppure non l’abbia formalmente annessa; in Cisgiordania vivono palestinesi e coloni israeliani, ma ai primi si applica la legge militare, ai secondi la legge civile; i primi non possono votare il governo che di fatto decide delle loro vite, i secondi sì; dunque c’è un territorio dove convivono due popolazioni, una sola delle quali gode di pieni diritti; e l’applicazione di due leggi e due sistemi di diritto a due popolazioni che vivono nello stesso luogo è, per definizione, apartheid.
Dunque, si diceva, abbiamo avuto queste due evoluzioni nel dibattito a sinistra. E si tratta, nella mia opinione, di due sviluppi positivi.
Adesso però veniamo ai fatti di oggi. Quello che è successo è che Hamas ha massacrato centinaia di civili israeliani, uomini, donne e bambini, stanandoli nelle loro case, e una parte della sinistra – certamente minoritaria, ma non del tutto marginale – l’ha considerato un atto di resistenza anticoloniale. In alcuni casi, ha persino festeggiato. Gli episodi più estremi arrivano dagli Stati Uniti: il professore di storia a Cornell che ha definito l’attacco di Hamas “esilarante” ed “energizzante”, perché sovvertiva il monopolio della violenza; oppure la docente di American Studies all’Università della California che ha twittato “è facile avvicinare i giornalisti sionisti, hanno case con indirizzi, figli a scuola” aggiungendo hashtag con coltello insanguinato. Nella mia bolla ho pizzicato gente a sfottere sui social media conoscenti israeliani – non il popolo israeliano in astratto, eh, persone reali con cui avevano studiato e lavorato – che stavano sotto le bombe. Meno agghiacciante, ma più sintomatica, l’ormai famigerata dichiarazione di una trentina di associazioni studentesche di Harvard, secondo cui “il regime di apartheid israeliano è l’unico responsabile della violenza”, dove il problema stava nell’affermare che ci fosse una responsabilità – dunque una colpa – unica. Ergo, se ne deduce che gli assassini abbiano agito secondo diritto, o per lo meno senza passare dalla parte del torto.
Altri si sono già soffermati sulla bancarotta morale che questi ragionamenti tradiscono. Io però vorrei soffermarmi sulla bancarotta intellettuale che si nasconde dietro a certe uscite. C’è gente che, da una posizione sedicente di sinistra, si schiera a favore dell’attacco indiscriminato contro i civili israeliani, di stampo marcatamente terroristico – nel senso più letterale del termine, ovvero il cui obiettivo è terrorizzare la popolazione. E lo fa perché è convinta che terrorizzare la popolazione israeliana, all’interno dei confini internazionalmente riconosciuti di Israele, sia un atto di decolonizzazione. Lo fa perché pensa che Israele – non solo i Territori occupati, ma Israele in sé – debba essere decolonizzato. Alla radice di questo modo di pensare, c’è un approccio pigro, approssimativo (e, non ultimo, frutto di un’assenza di riflessione) sulla natura coloniale di Israele. Che, per carità, esiste, ma meriterebbe di essere affrontata in modo quanto meno serio.
Davanti a intellettuali di sinistra che difendono attacchi terroristici contro la popolazione israeliana, il parallelo immediato è quello con l’Algérie française
Davanti a intellettuali di sinistra che difendono attacchi terroristici contro la popolazione israeliana, il parallelo immediato è quello con l’Algérie française. Per più di cento anni, tra il 1848 e il 1962, l’Algeria è stata parte integrante della Francia (non, dunque, una colonia, com’era stata in precedenza), pur mantenendo una caratteristica tipicamente coloniale: la maggioranza dei suoi abitanti, arabi musulmani, non aveva diritto di cittadinanza, ma conviveva con una grande minoranza (circa il 10%) di abitanti di origine francese, che godeva di piena cittadinanza. Quando il movimento per la liberazione algerina si energizzò, a partire dagli anni Cinquanta, lanciò una serie di azioni, anche violentissime e di natura esplicitamente terroristica, contro la popolazione civile dei pieds-noirs: l’obiettivo era rendere la loro vita impossibile, convincerli ad andarsene. La decolonizzazione passava dal cacciare i francesi, non soltanto la Francia. Molti da sinistra, con i dovuti distinguo, solidarizzavano con questa lotta, dove il fine giustificava i mezzi.
Tornando ai giorni nostri, è evidente che una fetta, piccola ma non trascurabile, della sinistra occidentale legge la realtà israeliana secondo il paradigma algerino. L’oppressione palestinese si risolve perseguitando la popolazione israeliana al punto da convincerla a fare le valige: è la decolonizzazione, bellezza. Quello che sfugge è che c’è una differenza, fondamentale, tra Israele e l’Algérie française: a differenza dei pieds-noirs, gli israeliani non hanno una “Francia” a cui tornare. Si ha un bel dire “rimandiamoli da dove vengono”, ignorando che molti israeliani discendono da luoghi – il Marocco, lo Yemen, la Polonia – dove sarebbe impensabile ritornare. Più seriamente, poi, la popolazione israeliana è radicata lì, ormai esiste una realtà normalizzata, una nazione, un’identità israeliana, che magari a qualcuno può non piacere ma è un dato di fatto.
Israele non è l’Algeria. È un caso di quello che alcuni studiosi definiscono, con efficacia, “settler-colonialism” che ricorda più Stati Uniti, Canada e, non per ultimo, il Sudafrica (anche l’Algeria era un esempio di “settler-colonialism”, ma un po’ peculiare, visto il mantenuto rapporto con la metropoli). Il termine, che spesso viene usato, non sempre con cognizione di causa, anche tra i militanti anti-israeliani più beceri, in realtà è assai utile per guardare con lucidità la realtà sul campo. Arnon Degani, un accademico israeliano che consiglio di leggere, ha scritto a proposito un interessante articolo divulgativo su “Haaretz”. “Il settler-colonialism non è semplicemente un colonialismo che ha insediamenti. È una formazione storica che spesso è un complemento dei progetti coloniali ma che, va sottolineato, è analiticamente distinto”. E ancora:
“La violenza coloniale punta a sottomettere […] ma la violenza settler-coloniale riduce la popolazione indigena al punto da arrivare a un dominio unicamente dei coloni. È così che siamo arrivati a Stati settler-coloniali come Canada, Australia e Stati Uniti, nazioni che ospitano molti studiosi che usano il termine per delegittimare Israele”.
Poi prosegue:
“Per gli Stati settler-coloniali di successo l’assimilazione e l’eliminazione hanno lavorato insieme […]. In un certo senso ciò che viene eliminato non è il corpo fisico della popolazione indigena ma la sua rivendicazione esclusiva”.
Secondo Degani la summa della mentalità legata al “settler-colonialism” la si può trovare in un verso del cantautore socialista americano Woody Guthrie: “This land is your land, this land is my land / […] This land was made for you and me”.
Chi giustifica Hamas in chiave anticoloniale, parte dall’assunto che Israele sia un po’ come l’Algeria, che i colonizzatori debbano essere cacciati, e va da sé che li si caccia con le cattive
Ora, vorrei tornare al paragone col Sudafrica. Come ho scritto sopra, trovo l’utilizzo della parola apartheid piuttosto azzeccata per descrivere l’Occupazione dei Territori palestinesi. Resta però un paradosso. I più accaniti tra i detrattori di Israele, quelli convinti che le azioni di Hamas siano giustificabili in quanto atto di decolonizzazione, si ostinano a usare questo termine, apartheid… ignorando che le loro posizioni negano di fatto le similitudini col Sudafrica. Come già detto, chi giustifica Hamas in chiave anticoloniale, parte dall’assunto che Israele sia più come l’Algeria, che i colonizzatori debbano essere cacciati, e va da sé che li si caccia con le cattive, seminando morte e terrore. Eppure, la lezione del Sudafrica non potrebbe essere più diversa. Lì si era di fronte a una popolazione di origine straniera, ma “nativizzata”, che opprimeva una popolazione indigena stricto sensu. Lì la decolonizzazione è passata dalla richiesta di diritti e di uguaglianza, anche attraverso la lotta armata, non dalla cacciata degli “invasori”, che invasori ormai non erano più. L’apartheid in Sudafrica è stata sconfitta, guarda un po’, abbattendo l’apartheid, non cacciando l’uomo bianco.
Trovo ridicolo, e anche un po’ triste, che alcuni di coloro che utilizzano il termine “apartheid” in continuazione, poi si mostrino quanto meno disinteressati ad abbattere l’apartheid in sé, come si è fatto in Sudafrica, perché per loro il nemico non è mica la diseguaglianza, è la presenza di un popolo che non dovrebbe stare lì, “a casa di qualcun altro”. Trovo ridicolo, e anche un po’ triste, che in un’epoca in cui la sinistra parrebbe avere recepito quanto sia odiosa e nativista l’idea di rimandare qualcuno “a casa sua”, ancora perduri il convincimento che si possa rispedire “a casa”, con violenza mostruosa, un popolo intero che una casa non ce l’ha.
GERUSALEMME – A tre settimane dall’attacco a sorpresa subito da Hamas, lo Stato ebraico si trova davanti ad uno dei momenti più difficili della sua esistenza. Il motivo è la sovrapposizione fra molteplici sfide, tutte con ben pochi precedenti. La prima e fondamentale riguarda la garanzia della propria sicurezza: la violenza medioevale di Hamas ha polverizzato una dottrina basata su prevenzione, intelligence ed alta tecnologia, riportando in prima fila il ruolo dell’esercito tradizionale che negli ultimi anni era stato ridimensionato. In secondo luogo, c’è la necessità di ricostruire la deterrenza di Israele rispetto ai vicini più minacciosi – non solo Hamas ma anche Hezbollah e Jihad islamica – ottenendo dei risultati sul campo in grado di allontanarli in maniera decisiva dai propri confini.
“Pensavamo di poter convivere con una tigre feroce davanti alla finestra, ma il Sabato Nero ci ha brutalmente ricordato che ciò espone a rischi drammatici” afferma Yuli Eldestein, capo della commissione Esteri e Sicurezza della Knesset. E come se non bastasse c’è anche l’incertezza sulle dimensioni del campo di battaglia: l’assedio da parte delle milizie filoiraniane presenti in Libano, Siria, Cisgiordania, Iraq, Gaza, Yemen e dallo stesso Iran espone ogni angolo di Israele al rischio di subire attacchi di qualsiasi tipo.
Da qui la situazione di “emergenza nazionale” che ha ben pochi precedenti da quando nel 1948, al momento di nascere, Israele si trovò ad affrontare con ben pochi mezzi l’invasione simultanea degli eserciti di sei nazioni arabe. Come se non bastasse, di mezzo c’è una crisi degli ostaggi con un numero tale – almeno 220 – da aprire una profonda ferita nella società israeliana, anche perché si sovrappone a racconti e testimonianze sui dettagli delle atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre scorso che hanno risvegliato in milioni di cittadini gli incubi delle persecuzioni subite dagli ebrei nel corso della Storia. E ancora: a fronte della solidarietà arrivata dai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e molte altre democrazie occidentali, gli israeliani si sentono feriti dalle proteste filo-Hamas negli atenei americani come nelle piazze di Londra, Parigi e Milano perché sembrano ignorare il dolore causato dalla morte violenta di oltre 1400 connazionali – molti dei quali mutilati, decapitati, bruciali e violentati – ed il ferimento di almeno altri 5400 a causa di un’operazione terroristica pianificata nei minimi dettagli dai jihadisti di Gaza al fine di uccidere il più alto numero di civili in maniere talmente brutali da far impallidire il ricordo delle stragi di Isis.
E non è ancora tutto perché “la resilienza sociale di Israele è indebolita a causa delle 40 settimane di proteste popolari contro la riforma della Giustizia del premier Benjamin Netanyahu – spiega l’accademico Manuel Trajtenberg – a cui ora si somma la sfiducia nella leadership di un capo politico che porta la responsabilità di aver subito il più grave attacco a sorpresa dalla guerra del Kippur del 1973”. Per non parlare dello scenario di una pace regionale con l’Arabia Saudita congelato dall’attacco di Hamas e di un orizzonte di convivenza con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) che, come assicura l’analista Yigal Karmon, “si potrà riprendere a considerare solo quando questa profonda ferita sarà rimarginata”.
C’è però anche un altro scenario ed a tratteggiarlo è David Meidan, l’ex negoziatore israeliano che trattò per cinque anni con i fondamentalisti di Gaza riuscendo ad ottenere nel 2011 la liberazione del soldato Gilad Shalit: innescare dall’eliminazione di Hamas una scossa tale per l’intera regione da far nascere “una nuova architettura di sicurezza”, basata sulla normalizzazione israelo-saudita e sulla formula dei “Due popoli per due Stati”, proprio come avvenne nel 1978 quando, appena cinque anni dopo la guerra del Kippur, Anwar Sadat e Menachem Begin siglarono a Camp David l’accordo di pace israelo-egiziano che resta il più strategico perno della stabilità in Medio Oriente.
Insomma, assediato dall’esterno, lacerato all’interno ed obbligato a ridefinire in fretta la strategia di sicurezza, Israele va incontro ad uno dei momenti più difficili dei propri 75 anni di esistenza, le cui conseguenze possono ridefinire gli equilibri dell’intera regione.
David Maidan e Manuel Trajitenberg
Il ferma-maniglia
Ognuno se lo costruisce in casa, come può. C’è chi usa un manico di scopa, altri preferiscono una trave di legno, altri ancora un ferro. Ciò che conta è che sia lungo quanto una porta del proprio appartamento e ad un’estremità abbia un foro per incastrarsi alla maniglia. Stiamo parlando del ferma-maniglia ovvero l’oggetto rudimentale di cui ogni famiglia israeliana sente di aver bisogno dopo il “Sabato Nero”.
Il ferma-maniglia serve per chiudere dall’interno il “mamad” – la stanza di sicurezza che ogni israeliano ha dovuto costruirsi in casa per proteggersi dai razzi – per trovare rifugio in caso di pericolo. Le testimonianze dei sopravvissuti al pogrom di Hamas sono inequivocabili sul “mamad”: quando i terroristi non sono riusciti a sfondarlo o a bruciarlo, i civili hanno avuto la possibilità di salvarsi. Da qui l’importanza di porte e finestre blindate ma soprattutto di un blocca-maniglia che renda impossibile forzarlo da fuori. Ci sono mariti e mogli che fanno a turno per verificare la capacità di chiudere in fretta il “mamad” “a prova di Hamas”.
Così come ci sono bambini che dal 7 ottobre vogliono dormire solo dentro il “mamad” – e non più nelle loro camerette – perché si sentono più protetti. Per i genitori è solo una delle conseguenze del pogrom avvenuto nelle comunità del Negev Occidentale: c’è chi non fa più uscire i figli da soli e chi ha ripensato in fretta orari di lavoro e tragitti urbani. La possibilità di incontrare un terrorista come quelli che hanno fatto strage di civili è diventata una feroce variabile della vita quotidiana. Se durante la Seconda Intifada il pericolo arrivava salendo su un autobus o entrando in un locale pubblico – perché i terroristi entravano in abiti civili, mischiandosi alla gente per farsi saltare in aria – e se negli anni Settanta gli israeliani impararono a temere i dirottamenti aerei o i pacchi abbandonati nelle strade, oggi le vite di milioni di persone si ridefiniscono con nuovi comportamenti quotidiani per proteggere la propria sicurezza dentro le pareti di casa. Perché Hamas ha dimostrato con la ferocia che intende raggiungere ovunque ed uccidere, mutilare e bruciare ogni singolo abitante di Israele, solo in quanto tale.
A svolgere un ruolo importante per coordinare la difesa del fronte interno è Yuli Edelstein, presidente della commissione Esteri e Sicurezza della Knesset, a cui spetta mettere a punto tutti i relativi interventi legislativi: dalla chiusura delle scuole alla sospensione delle rate dei mutui, dal versamento di una percentuale importante degli stipendi ai riservisti fino alle macro-misure per sostenere il sistema economico.
“È la prima volta nella nostra Storia recente che l’emergenza per un conflitto investe l’intero territorio nazionale, neanche un piccolo centro è escluso – spiega Edelstein, seduto nel suo ufficio a Gerusalemme – e questo significa che dobbiamo pianificare una miriade di attività”. Come, ad esempio, spostare oltre 150 mila cittadini dai villaggi lungo i confini con Gaza e Libano trovandogli alloggi ed accoglienza altrove nel Paese, incluse le tendopoli a fianco di Eilat. A sostenere Edelstein è l’esperienza maturata contro il Covid-19 quando era ministro della Salute: “Ci sono molti aspetti comuni con quanto avvenuto allora perché anche adesso è l’intero Paese a fermarsi e bisogna considerare ogni tipo di impatto sociale”.
Per avere un’idea di cosa intende basta osservare il via vai di automobili private nei centri di raccolta dove migliaia di cittadini arrivano per far arrivare ai soldati qualsiasi cosa possa servirgli: dai beni alimentari agli indumenti, ai caricatori cellulari. Una imponente catena umana, tutta a base volontaria, che si auto-gestisce – per telefono o con appositi siti web – ed ogni singolo giorno pensa a come sostenere gli oltre 360 mila riservisti richiamati per affiancare le truppe di leva così come le famiglie sfollate dal Sud e dal Nord del Paese.
Yuli Edelstein
Il nemico ibrido
L’attacco del Sabato Nero ha rivoluzionato l’idea di terrorismo da cui Israele deve proteggersi. Fino al giorno prima c’era un consenso, fra militari e intelligence, sul fatto che Hamas fosse un’organizzazione terroristica simile alle molte che Israele ha dovuto combattere nella sua storia – da Settembre Nero autore della strage di atleti alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 all’Olp responsabile dell’attentato di Zion Square a Gerusalemme nel 1975, dall’assalto all’asilo del kibbutz di Maalot nel 1976 firmato dal Fronte per la liberazione della Palestina al massacro di Natanya nel marzo 2002 compiuto proprio da Hamas – con in più la caratteristica di dover amministrare dal 2007 la Striscia di Gaza e quindi le conseguenti responsabilità oggettive nei confronti di oltre due milioni di abitanti palestinesi.
“Si è trattato di un grave errore perché Hamas non è solo tutto ciò ma anche qualcosa di più” afferma Yigal Karmon, direttore del centro studi “Memri” sul Medio Oriente e unico analista ad aver previsto – in settembre – l’attacco del 7 ottobre. “Questo qualcosa in più è l’ideologia che muove Hamas, la stessa che ha generato Al Qaeda e Isis – spiega – e nasce dalla genesi del movimento dei Fratelli musulmani nella prima metà del Novecento” con l’obiettivo di fondere tutti gli Stati arabi per dare vita ad un grande Califfato. È un’ideologia che predica la Jihad, persegue la distruzione degli infedeli – ebrei e cristiani – e la sottomissione dei musulmani “corrotti” nonché la sottomissione del mondo intero ad una versione fondamentalista dell’Islam che “si propone di riportare il mondo intero a XV secoli fa”.
“L’errore di Israele è stato umano – sottolinea Karmon – perché ha creduto che con questa ideologia si potesse convivere”. A dispetto di una Costituzione di Hamas che prevede, in maniera esplicita, la distruzione di Israele e l’uccisione degli ebrei, ed ignorando ciò che l’intelligence israeliana ha continuato a raccogliere negli ultimi mesi: prove evidenti, concrete, su ciò che si stava preparando. Se però sono state “non considerate, ignorate, sottovalutate” aggiunge Karmon “è perché non solo il premier Benjamin Netanyahu ma anche i suoi predecessori e l’intero establishment della sicurezza, da anni, credeva nella politica di far leva sui fondi del Qatar per Hamas al fine di “pagare la pace””.
Proprio così: Israele si è fidata dell’Emiro Al-Thani del Qatar, in ragione dei legami fra Doha ed i Fratelli musulmani, ed ha consentito agli inviati qatarini di far arrivare, ogni mese, valige con milioni di dollari in contanti a Gaza. Hamas assicurava al Qatar, e dunque indirettamente ad Israele ed agli Stati Uniti, che quei soldi servivano ad amministrare la Striscia e a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici ma “la realtà era ben diversa perché ogni razzo, mitra, esplosivo, motocicletta, tunnel e arma di Hamas è stata pagata con quei fondi”.
Se dunque l’Iran è il più importante alleato militare di Hamas, la fonte di armi, intelligence e addestramento, “è invece il Qatar l’origine delle sue maggiori entrate economiche” sottolinea Karmon, aggiungendo che “l’errore strategico di Netanyahu e dell’apparato di sicurezza nazionale è stato credere alla tesi del Qatar che la pace poteva essere acquistata”.
Così come la Casa Bianca, prima con Donald Trump e poi con Joe Biden, si è fidata del Qatar come mediatore con i talebani afghani – venendo sorpresa dal blitz con cui si impossessarono di Kabul il 15 agosto 2021 – adesso è il turno di Israele a dover prendere atto che la mediazione qatarina con Hamas, ha consentito ai jihadisti di Gaza di avere le risorse necessarie per attaccarla. “Ciò non significa – precisa Karmon – che Doha sapesse in anticipo dei piani di Hamas ma pone un problema politico gigantesco sulla credibilità di Doha come garante dell’affidabilità dei gruppi jihadisti”.
A questo bisogna aggiungere che Hamas riceve, ogni mese, donazioni “caritatevoli” raccolte da una vasta rete di moschee e centri di cultura islamica controllati dai Fratelli musulmani – anzitutto negli Usa, in Gran Bretagna ed in Turchia – nel pieno rispetto delle leggi vigenti in questi Paesi. “È questo network di finanziamenti che sostiene imam e moschee che diffondono l’ideologia dei Fratelli musulmani, della Jihad Islamica, di Al Qaeda, di Isis e di Hamas” sottolinea Karmon, il cui obiettivo “non è politico di ottenere questo o quel risultato ma strategico, sottomettere il mondo alla Jihad”.
C’è questa radice ideologica del nemico alla genesi della difficoltà di combatterlo perché l’obiettivo di sottomettere con la violenza il mondo alla Jihad può rinnovarsi, da un secolo all’altro, da un Paese all’altro, anche solo con la diffusione di un testo, un video o l’audio di un sermone. A conferma della difficoltà della sfida contro questa ideologia, quando nel 2014 gli Stati Uniti hanno deciso di creare una coalizione internazionale – con la partecipazione di Paesi europei, mondo arabo, guerriglia curda, Iran e Russia – per sconfiggere Isis di Abu Bakr al-Baghdadi hanno avuto bisogno di ben quattro anni per smantellare lo Stato jihadista che era stato creato a cavallo dei confini fra Iraq e Siria.
Hamas, al pari di Isis, è dunque un nemico ibrido che somma al controllo militare di territori anche amministrazione, cibo, moschee e scuole coraniche per le popolazioni sottomesse. La brutalità dei suoi seguaci nasce da un’ideologia che recluta facendo leva su messaggi pseudo-religiosi disseminati grazie all’uso delle più moderne tecnologie, per finanziarsi come per diffondere la cultura della morte.
Un conflitto su tre livelli
Karmon studia la Jihad dal suo studio nel centro di Gerusalemme mentre poco lontano da Tel Aviv vive Jacob Amidror, in una casa dove ospita alcuni rifugiati da villaggi del Nord che sono stati completamente evacuati per proteggerli dal rischio di attacchi degli Hezbollah libanesi. Si tratta di un madre e due figlie. Amidror le ospitò già in occasione della guerra in Libano del 2006: sono passati 17 anni, la madre adesso ha i capelli grigi, le figlie sono cresciute ma dormono nelle stesse stanze che avevano allora.
“La storia per molti versi si ripete – dice Amidror, già consigliere per la sicurezza nazionale di Netanyahu e fra i più apprezzati analisti di strategia israeliani – ma questo conflitto è diverso dagli altri”. E mette l’accento su “diverso” per spiegare: “Si tratta di un conflitto che si sviluppa su tre livelli, il primo e più diretto, è la guerra iniziata da Hamas contro di noi con le atrocità contro i civili, perché ora Israele deve rispondere e cancellare Hamas, è il nostro popolo a chiedere questa risposta. C’è però un secondo livello ovvero la necessità di schiacciare Hamas per ricostruire la capacità di deterrenza israeliana contro simili nemici, a cominciare da Hezbollah in Libano, facendogli capire che ciò che capita ora a Hamas capiterà anche a loro se dovessero mai pensare di attaccarci in maniera simile. Infine, il terzo livello, perché lo scontro fra Hamas e Israele è un tassello del conflitto più ampio fra le democrazie ed i suoi nemici di cui il presidente americano Joe Biden ha parlato nel discorso alla nazione del 19 ottobre”.
Amidror conosce profondamente Israele ma anche in America si sente a casa. La sua lettura del conflitto iniziato da Hamas tiene assieme più necessità: Israele deve sconfiggere Hamas, impedire a Hezbollah di attaccarci ed aiutare l’America a confrontarsi con un asse di nemici che include l’Iran, fornitore di armi alla Russia di Vladimir Putin come nessun’altra nazione ad eccezione della Corea del Nord.
Si apre dunque un fronte parallelo a quello dell’Ucraina perché anche Kiev da una parte combatte per difendere la propria esistenza dall’aggressione russa e dall’altra fa parte dello schieramento delle democrazie occidentali alle prese con la minaccia della Russia, intenzionata a cambiare a suo vantaggio l’architettura di sicurezza, non solo europea.
“Qui in Medio Oriente, lo scontro fra democrazie e autocrazie dipenderà dalla nostra capacità di sconfiggere Hamas nella Striscia” sottolinea Amidror, secondo il quale la campagna israeliana sarà assai diversa da quanto finora abbiamo visto nei precedenti interventi di terra a Gaza – l’ultimo risale al 2014 – perché ora il fine è sradicare completamente l’organizzazione jihadista. “Per tentare di capire cosa potrà avvenire dobbiamo guardare al precedente del 2002, quando Israele intervenne nella West Bank e pose fine alla Seconda Intifada scatenata da Yasser Arafat dopo aver rifiutato a Camp David da Bill Clinton ed Ehud Barak la più ampia e seria offerta di far nascere uno Stato palestinese in Cisgiordania e Gaza”.
L’attacco di terra
Le parole di Amidror spiegano perché c’è una convergenza fra gli analisti militari in Israele sulla tipologia di intervento che l’esercito sta preparando a Gaza.
La sconfitta della Seconda Intifada avvenne infatti con un’operazione anche allora di terra che Ariel Sharon, allora premier, coordinò meticolosamente per eliminare le cellule più violente – soprattutto Hamas ma non solo – che bersagliavano le città israeliane con attentati e attacchi suicidi. “Si trattò di identificare ed eliminare tutti i gruppi terroristi in uno spazio urbano altamente popolato – ricostruisce Amidror – fu molto difficile e servirono quattro anni di tempo, ma i soldati caduti passarono da un numero molto alto nei primi due anni a molto meno in seguito, fino a diminuire in maniera decisiva”.
Ora Israele non ha quattro anni di tempo per liquidare Hamas, ma quando il premier Netanyahu parla di “tutto il tempo necessario” lascia intendere che non sarà una campagna breve. La richiesta ai civili di Gaza di spostarsi verso Sud lascia intendere che gli israeliani vogliono entrare da Nord, per crearvi la base da cui operare dentro Gaza City, dove ritengono si trovino la maggior parte delle infrastrutture militari di Hamas. “Avremo molto morti, sarà un’operazione difficile in presenza della popolazione civile, dobbiamo aspettarci giorni molto difficili” ammette Amidror, aggiungendo però che “c’è una grande coesione nel Paese sulla necessità di entrare e distruggere Hamas perché non possiamo vivere avendo accanto dei terroristi che operano come facevano i nazisti”.
Putin addio
In attesa delle operazioni di terra, possono esserci pochi dubbi che le conseguenze della guerra con Hamas stanno già ridefinendo la posizione di Israele fra Washington e Mosca. Se dall’inizio della guerra in Ucraina il governo Netanyahu aveva tentato di mantenere un difficile equilibrio fra Kiev e Mosca – inviando solo aiuti umanitari a Volodymir Zelensky e senza applicare le sanzioni al Cremlino – ora la scelta di Putin di schierarsi con Hamas è inequivocabile, polverizzando tutto il resto.
“Nell’ultimo anno vi sono stati ben 26 incontri pubblici fra esponenti del governo russo e di Hamas” osserva Yuli Edelstein – e dall’indomani del 7 ottobre Putin non ha mai condannato il pogrom contro di noi”. Il motivo è il legame a doppio filo fra Mosca e Teheran.
“L’Iran è cruciale per Putin a causa dell’invio di armi, a cominciare dai droni, che garantisce all’esercito russo in Ucraina – osserva Edelstein – e questa è una priorità strategica che fa passare in secondo piano il legame con Israele che il leader del Cremlino aveva spesso citato in pubblico, definendoci ad esempio l’unico Stato russofono fuori dai confini dell’ex Unione Sovietica”. La guerra in Medio Oriente giova d’altra parte tatticamente a Putin per distrarre l’America dalla campagna ucraina ed anche per fomentare divisioni interne nei Paesi dell’Occidente.
“Questo non significa che la Russia sia stata al corrente dei piani di Hamas contro di noi, ma le conseguenze sono inequivocabili – termina Edelstein, già fra i leader del movimento dei Refusnik, gli ebrei sovietici che si battevano per la libertà di emigrazione in Israele – Putin ha fatto una netta scelta di campo a favore dell’Iran”. Da qui l’attenzione di Gerusalemme per la volontà di Casa Bianca ed Eliseo di creare una “coalizione contro Hamas come già fatto contro Isis”. Non perché Israele abbia bisogno di aiuti militari sul terreno ma in quanto potrebbe generare un sostegno politico capace di sostenere lo Stato ebraico sulla scena internazionale una volta iniziato l’intervento.
Ostaggi, corsa contro il tempo
La sorte degli israeliani deportati da Hamas nella Striscia di Gaza si sovrappone all’incombere dell’operazione di terra. Per comprenderne il perché bisogna ascoltare David Meidan, l’ex alto funzionario del Mossad, nato in Egitto ed immigrato in Israele quando aveva un anno di età, che il 18 ottobre 2011 riuscì ad ottenere la liberazione del soldato Gilad Shalit da parte di Hamas dopo cinque anni di difficili trattative, in cambio del rilascio di 1027 detenuti e terroristi dalle carceri israeliane.
“Molti degli ostaggi presi da Hamas hanno una doppia cittadinanza e vi sono poi numerosi casi umanitari, c’è spazio per negoziare il rilascio di entrambi i gruppi in tempi stretti” spiega Meidan, sottolineando come l’amministrazione Biden sta esercitando una pressione molto forte sul Qatar affinché spinga i fondamentalisti della Striscia a liberarli. I motivi della trattativa sono molteplici e sotterranei. Da un lato c’è Doha, perché i qatarini hanno un problema di credibilità da riscattare in quanto sono stati loro negli ultimi dieci anni ad assicurare ad Occidente, Israele e mondo arabo che era possibile venire a patti con Hamas.
Se il premier qatarino, Mohammed al-Thani, è impegnato in prima persona ad ottenere il rilascio di ostaggi stranieri ed umanitari è perché ben consapevole della necessità di impedire che Doha ridiventi una nazione paria, sospettata di complicità con il terrorismo islamico, come già avvenuto fra il 2017 ed il 2021 quando fu Riad a guidare il Consiglio di Cooperazione del Golfo ad isolarla, imponendole dure sanzioni a causa del legame con i Fratelli musulmani. Ma c’è dell’altro perché, aggiunge Meidan “anche Hamas ha un problema da risolvere” dato dal fatto che “più Paesi arabi, dall’Egitto al Qatar, hanno visto nella brutale violenza contro i civili israeliani un comportamento che insulta i principi dell’Islam”.
È proprio la necessità per Hamas di far fronte a queste critiche – aspre ma mai pubbliche – ad aver spinto Khaled Mashaal, ex capo del Politburo, a liquidare in tv i rapimenti come eseguiti da “civili di Gaza”, fino alla liberazione dei primi quattro ostaggi – prima due israelo-americane, poi due anziane israeliane – al fine di provare un presunto atteggiamento “umanitario” dei jihadisti. La trattativa è però una corsa contro il tempo, perché l’inizio dell’intervento di terra incombe e Meidan ritiene che “per avere successo deve includere non solo gli stranieri ed israeliani con doppio passaporto ma anche tutti gli ostaggi umanitari” perché “fare una selezione escludendo i civili israeliani” riproporrebbe da parte di Hamas comportamenti analoghi a quelli delle selezioni eseguite dai nazisti “risultando inaccettabile alla nostra opinione pubblica”. Quando Meidan dice “casi umanitari” intende “anziani, donne e bambini” perché “vi sono bambini molto piccoli ed anche madri con figli” ovvero persone che non sarebbero in grado di sopravvivere in caso di guerra aperta.
Il funerale di Dana Bachar e di suo figlio Carmel, al cimitero di Gan Shlomo. Israele centrale, 24 ottobre 2023 – Foto AFP
Golda Meir o Chamberlain?
A Tel Aviv la piazza davanti al museo di Arte moderna è lo specchio della sovrapposizione fra le due ferite aperte di Israele. A prima vista ciò che domina la piazza è il lungo tavolo apparecchiato con le “Challot” – il pane del sabato – con 222 posti, quanti sono i rapiti da Hamas.
Le famiglie degli ostaggi vengono sulla piazza, sostano in un luogo a pochi metri di distanza e raccontano il loro dramma. E sulla stessa piazza i nomi dei rapiti sono stati aggiunti al monumento che ricorda la guerra del Kippur del 1973 – anche allora un attacco a sorpresa – raffigurando l’episodio biblico del Sacrificio di Isacco. Ma a ben vedere sul selciato biancastro c’è dell’altro. Scritte e volantini che raccontano le 40 settimane di protesta contro il premier Netanyahu e la sua riforma della Giustizia che hanno mobilitato, ogni sabato sera, decine di migliaia di persone.
Sulla parete esterna del museo un grande poster ricorda la Dichiarazione di indipendenza di Israele, letta da David Ben Gurion, proprio per sottolineare quei valori fondamentali della democrazia israeliana che i manifestanti rimproverano a Netanyahu di non rispettare. La sovrapposizione plastica, nello stesso spazio fisico, della lacerazione politica causata dalla riforma della Giustizia con la lacerazione emotiva provocata dalle atrocità di Hamas, spiega perché sulla figura del premier le divisioni restino profonde.
Se nei quindici giorni seguiti al “Sabato Nero” l’ostilità contro Netanyahu sembrava sopita, ora torna a manifestarsi con la voce di chi, come alcune delle persone che sostano sulla piazza, sostiene che “il responsabile della mancata difesa del Paese è lui ed ora non può guidarci contro Hamas”.
A spiegare questo bivio è Amos Gilad, ex generale, già stretto collaboratore del premier Itzhak Rabin ed una delle voci più presenti nelle proteste di piazza. “Molti parlano dello scenario delle dimissioni di Netanyahu a campagna militare finita, facendo il paragone con quanto fece Golda Meir dopo la guerra del Kippur – dice – ma io credo che sarebbe un grave errore, Netanyahu non è Golda Meir, a guerra finita cercherebbe di sopravvivere politicamente dando la colpa a qualcun altro e, poiché è lui il responsabile politico di quanto avvenuto, deve andarsene subito”.
Lo scenario di un premier che si dimette in Israele durante un conflitto in corso ha un unico precedente: Menachem Begin che, nel 1983, circa un anno dopo l’inizio della guerra in Libano, quando il numero dei caduti israeliani arrivò a superare i 500, andò nel suo ufficio e firmò le dimissioni, lasciando la guida del governo al compagno di Likud, Itzhak Shamir.
“Netanyahu non è Begin e non lo farà – aggiunge Gilad – ma la Storia ci consegna il precedente di Neville Chamberlain che, nella Gran Bretagna in guerra con la Germania nazista, dopo quasi un anno di errori ed umiliazioni si dimise assumendosi la responsabilità di tali fallimenti. Ed arrivò Winston Churchill”.
Questo significa che la discussione sulla responsabilità del fallimento nella difesa del Paese il 7 ottobre non aspetta la fine della campagna di Gaza: è già cominciata. C’è chi afferma, come Amidror, che “la responsabilità di aver creduto alla tesi del Qatar sulla possibilità di comprare la coesistenza con Hamas” sia “dell’intero sistema politico-militare” e dunque è un errore identificare nel premier il solo capro espiatorio, e chi invece come Gilad ritiene che “il Chamberlain d’Israele debba dimettersi subito per consentire al Paese di unirsi davvero”.
Attorno ai tavolini di un caffè di Ramat Aviv due ufficiali della riserva parlano fra loro, facendo capire quanto profonda è la lacerazione: “Netanyahu non ha mai voluto combattere guerre vere e proprie perché nei momenti decisivi esita sempre, per questo ha consentito agli ufficiali americani di essere coinvolti nella nostra pianificazione più segreta” afferma il più anziano, mentre l’altro ribatte “ora abbiamo un unico premier, dividersi su di lui sarebbe l’errore più grande, liquidiamo Hamas e poi torneremo a parlare di politica”.
Una nazione da ricostruire
Poco lontano dal Kanyon di Ramat Aviv ha sede l’Istituto nazionale di studi sulla sicurezza (Inss) guidato da Manuel Trajtenberg, l’economista già stretto collaboratore dei premier Ehud Olmert e Benjamin Netanyahu nonché ideatore nel 2006 del primo Consiglio economico per la sicurezza nazionale dello Stato ebraico. Ciò che distingue Trajtenberg è incrociare le conoscenze su economia e sicurezza per definire l’agenda delle priorità per il Paese. Davanti al Sabato Nero non esita a definire Israele “in uno stato di shock collettivo” perché il successo dell’attacco a sorpresa ha fatto venir meno “alcune certezze fondamentali” come “la solidità del sistema di sicurezza” e il “culto per l’alta tecnologia”. A cui bisogna aggiungere il venir meno della “resilienza sociale” dovuta alle proteste di strada contro la riforma della Giustizia.
“Israele è una nazione da ricostruire” afferma Trajtenberg, sottolineando che “si tratta di un momento di grande difficoltà” ma anche “con alcuni precedenti che dimostrano come queste transizioni appartengono al dna del Paese”. Il caso più evidente è il 1973 “quando l’attacco a sorpresa subito da Egitto e Siria portò a scuotere le coscienze tutti in maniera talmente profonda che nel 1977 per la prima volta il Likud arrivò, con Menachem Begin, alla guida politica del Paese” e “nel 1978 vi furono gli accordi di pace di Camp David con l’Egitto di Sadat”.
E ancora: “È stata l’iper-inflazione del 1985, quando si toccava il 500 per cento l’anno, a spingerci verso le riforme economiche che hanno generato la Start Up Nation dell’alta tecnologia” e nel 2002 la Seconda Intifada con i kamikaze che si facevano esplodere a raffica nelle città israeliane portò “a rendersi contro che l’Olp di Yasser Arafat non poteva essere un partner per la pace” aprendo il terreno al dialogo con le nazioni arabe del Medio Oriente che ha portato agli Accordi di Abramo del 2020 con Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan.
“Nel dna di Israele c’è la capacità di affrontare le trasformazioni più inattese e profonde, uscendone più forti” assicura Trajtenberg, secondo il quale “adesso l’agenda da affrontare è costituita dai problemi che abbiamo scelto di non discutere troppo a lungo”.
Sono tre. Ecco di cosa si tratta. Primo: “Gli ortodossi saranno presto il 30 per cento della popolazione, c’è fra loro una nuova positiva tendenza all’integrazione, a cominciare dall’aumento di coloro che fanno il servizio militare, e bisogna spingerli a dare un maggiore contributo alla vita del Paese, senza nulla togliere al loro modo di vita, ma per farlo lo Stato deve diminuire i sussidi pubblici alle scuole religiose perché li spingono a isolarsi”.
Secondo: “Gli arabo-israeliani sono oltre il 20 cento della popolazione, al loro interno il tasso di criminalità è molto alto, dobbiamo investire per migliorare la loro qualità di vita, di studio, affinché la violenza scenda e l’educazione aumenti”.
Terzo: “I palestinesi sono i nostri vicini, parlare ora di convivenza sembra impossibile dopo quanto avvenuto con Hamas perché il livello di fiducia nei confronti di Gaza e della West Bank non è mai stato così basso, ma ciò non toglie che la maggioranza di chi risiede fra Gaza e Ramallah non vuole la guerra con noi” e dunque “serve una nuova generazione di leader israeliani capaci di dialogare con una nuova generazione di leader palestinesi” ovvero coloro che verranno dopo Mahmud Abbas.
Trajtenberg non si nasconde che si tratta di “argomenti ora quasi impossibili da affrontare per chiunque” ma vede nella volontà degli israeliani di battersi sulla riforma della Giustizia – tanto quelli contrari che i favorevoli – la possibile genesi di una “rottura positiva rispetto al presente”. “Vincendo questa sfida – assicura – Israele ne uscirà più forte e coesa”.
Il fatto che proprio il cuore del movimento anti-Netanyahu oggi sia impegnato a sostenere ovunque la mobilitazione delle truppe contro Hamas “testimonia che qualcosa sta avvenendo nelle viscere del Paese”. E gli occhi sono su quei leader emergenti nell’economia, della “Start Up Nation”, che si sono imposti durante le manifestazioni anti-riforma: dal venture capitalist Eyal Waldman – la cui figlia Danielle con il fidanzato è stata assassinata al rave party del Nova Festival – a Moshe Redman, volto di spicco dell’hi-tech. “Proprio come avvenuto in Italia dopo Tangentopoli, quando a cadere furono Craxi ed Andreotti e ad emergere furono Berlusconi e Prodi – afferma David Meidan – credo che anche in Israele la nuova generazione di leader verrà dal mondo dell’economia”.
C’è però anche un’altra Israele che bussa alle porte: “Nelle unità speciali dell’esercito i sionisti religiosi sono la maggioranza mentre alla mia epoca eravamo pochissimi ed a prevalere erano i laici – dice il generale Amidror – questo significa un cambiamento importante nelle viscere della nazione, con la mobilitazione di nuove energie capaci di generare leadership”.
Occhi puntati su Ramallah
Quando i leader israeliani, politici e militari, affermano che non è loro intenzione occupare la Striscia di Gaza dopo l’eliminazione di Hamas, pongono la questione di chi la governerà a guerra finita.
L’Onu è già presente con scuole e centri medici gestiti dall’Agenzia Unrwa e ciò significa che il suo personale – magari rafforzato o affidato a nuove forme di intervento – potrebbe svolgere un compito di assistenza umanitaria nel breve termine agli oltre 2,3 milioni di residenti civili. Ma resta la questione del governo nel medio-lungo termine ovvero la gestione dell’amministrazione pubblica che dopo il ritiro unilaterale di Israele nel 2005 passò all’Autorità nazionale palestinese e dopo il colpo di mano del 2007 venne presa con la forza da Hamas.
“La soluzione più logica può essere quella di restituire il governo della Striscia all’Autorità palestinese” afferma Yigal Karmon. Ma questo scenario porta con sé l’interrogativo su chi può essere in grado di governare Ramallah con credibilità politica ed energia personale tali da riprendere il controllo della Striscia e, di conseguenza, riprendere il negoziato con Israele per arrivare ad una definitiva composizione del conflitto.
Al momento alla Muqata siede – dal 2015 – il presidente Mahmud Abbas e David Meidan sottolinea che “a dispetto dell’età e di una salute a volte considerata precaria, fino a quando resta lui, dobbiamo negoziare con lui”. Tantopiù che Abbas, pur protagonista di serie crisi con Israele e autore in settembre di dichiarazioni incendiarie come quelle sulla Shoà (“Hitler ha combattuto gli ebrei per il loro ruolo sociale e non per la loro fede”), non ha fatto venire meno la cooperazione nella lotta al terrorismo e per mantenere la sicurezza nella West Bank.
Le parole pronunciate da Abbas dopo il pogrom del 7 ottobre sul fatto che “Hamas non rappresenta la causa palestinese” avvalorano il suo ruolo di leader di un nazionalismo che resta basato sul Fatah, un movimento laico, ostile al fondamentalismo religioso di Hamas. Ma Abbas è anche alla guida di un sistema di potere gestito da famigliari e stretti collaboratori imputato – da anni – di corruzione endemica a scapito dello sviluppo della West Bank. Sono queste accuse, molto diffuse nelle città palestinesi, che lo rendono poco credibile, vulnerabile, politicamente instabile. Da qui la costante attenzione di Israele, Stati Uniti ed Europa su possibili alternative.
I nomi più popolari che circolano nella West Bank sono due: Mohammed Dahlan e Marwan Barghouti. Dahlan è nato a Gaza, ha guidato Fatah nella Striscia e vive negli Emirati, dove gestisce affari economici di grande successo con l’evidente sostegno di Abu Dhabi: potrebbe essere l’uomo giusto per unificare i palestinesi con il sostegno del Paese arabo in questo momento al centro della normalizzazione dei rapporti con Israele.
Ma “Dahlan non scalda i cuori dei palestinesi – aggiunge Karmon – a differenza di quanto avviene per Marwan Barghouti”. La popolarità di Barghouti nasce dal fatto di essere stato uno dei leader della Prima ed anche della Seconda Intifada, quando furono proprio i suoi “Tanzim” a compiere alcuni dei più sanguinosi attentati contro Israele. Per questo Barghouti sconta nelle carceri israeliane ben cinque ergastoli e incarna la figura di uno dei nemici più feroci dello Stato ebraico.
“Scarcerarlo per il nostro governo – osserva Manuel Trajtenberg – significherebbe tentare di ripetere l’operazione Nelson Mandela in Sudafrica ovvero puntare sulla sua popolarità per favorire una vera, profonda riconciliazione”. Sulla carta è uno degli scenari possibili ma Karmon mette le mani avanti: “Dopo quanto avvenuto il 7 ottobre nessun israeliano sano di mente accetterà mai uno Stato palestinese indipendente in Cisgiordania, temendo che possa trasformarsi in un’altra Gaza, che ci attaccherebbe senza interruzione”.
Per il fondatore di Memri, “nel breve periodo l’unica soluzione possibile è quella a cui pensò anni fa Yitzhak Rabin, assegnando alla West Bank e magari anche a Gaza, una completa autonomia ma senza armi e soprattutto del tutto staccata da noi, con una barriera ancora più consistente di quella che fece costruire Ariel Sharon al termine della Seconda Intifada”. Le immagini che abbiamo visto in questi giorni in più località della Cisgiordania, con abitanti degli insediamenti ebraici che abbattono i grandi cartelli rossi ai confini con le aree controllate dall’Autorità palestinese danno la temperatura di quanto sta avvenendo in Giudea e Samaria – i nomi ebraici della West Bank – dove la popolazione israeliana non sembra più intenzionata a rispettare i confini stabiliti dagli accordi di Oslo nel timore di subire attacchi come quelli che hanno insanguinato il Negev Occidentale. Anche perché in alcuni centri, come Hebron, il fondamentalismo è molto radicato mentre Jenin è divenuta nell’ultimo anno l’epicentro delle attività di nuovi gruppi violenti, protagonisti di attentati anti-israeliani.
La sfida sulla narrativa
C’è infine un fronte di sfida fra Israele e Hamas che ha a che vedere con la narrazione di quanto avvenuto il 7 ottobre. Gli abitanti dello Stato ebraico hanno vissuto l’eccidio di civili e le atrocità compiute dai jihadisti come una ripetizione delle più brutali persecuzioni del passato. Come riassume David Meidan: “È come se avessimo scoperto centinaia di Anne Frank” per la moltitudine di civili che sono stati obbligati a rifugiarsi in casa propria nella speranza di sfuggire alla caccia all’ebreo messa in atto dai jihadisti con mappe, liste di nomi ed istruzioni precise tese a massimizzare la strage di civili.
Hamas invece, nelle parole di Khaled Mashaal, ex capo del comitato centrale ora in Qatar, ribatte che “non è affatto vero che abbiamo ucciso dei civili”: si tratta di “propaganda sionista” tesa a far dimenticare “i crimini commessi contro la popolazione di Gaza con l’assedio economico e con i bombardamenti aerei”.
Per avvalorare questa versione il ministero della Sanità di Gaza, controllato come tutta l’amministrazione locale da Hamas, si è affrettato ad imputare ad Israele la bomba esplosa sull’ospedale battista di Al-Hali lo scorso 17 ottobre, “provocando 500 morti”. In realtà prima i portavoce militari israeliani, poi alcuni fra i maggiori quotidiani internazionali – dal “Wall Street Journal” al “New York Times” – hanno dimostrato con abbondanza di documenti che ad essere esploso sull’ospedale è stato uno dei razzi difettosi lanciati dalla Jihad islamica palestinese verso Israele: poco dopo il lancio è caduto dentro la Striscia, come avviene nel caso di un quinto degli ordigni.
Pur smentita, la notizia della “strage israeliana a Gaza” ha consentito a Hamas in più Paesi occidentali – dagli Stati Uniti alla Francia fino all’Italia – di oscurare il pogrom del 7 ottobre con le accuse di “crimini contro l’umanità” commessi da Israele. Una motivazione che si ritrova nelle manifestazioni pro-Hamas avvenute, in Europa come negli Stati Uniti, segnate da un’aggressività crescente contro gli ebrei: a Viale Padova, Milano, gridando a squarciagola “Togliete i confini, uccideremo gli ebrei” così come nella “Cooper Union” di New York City, dove una folla di facinorosi pro-Hamas ha assediato nella libreria gli studenti ebrei, minacciando di sfondare le porte per aggredirli. È l’aggressività contro gli ebrei in genere a ribadire la sovrapposizione fra antisionismo ed antisemitismo, evidenziando i pericoli che vengono dalla banalizzazione del pogrom di Hamas. Ma, nonostante ciò, la narrazione dei jihadisti sul 7 ottobre appare consolidata, facendo leva su gruppi organizzati, pubblicazioni web e manifestazioni in Nordamerica ed Europa contro i “crimini di Israele”. Cancellando con un colpo di spugna le “centinaia di Anne Frank” frutto del pogrom nei villaggi civili del Negev.
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